Istantanee [Inizia qui la nuova rubrica dell’Avanti! in cui vi presenteremo brevi spaccati di attualità politica, economica, di costume.]
Venerdì scorso, 18 novembre, a Ougadougou migliaia di persone sono scese in piazza, attestandosi di fronte al consolato francese e al grido di “Macron terroriste!” chiedono al secolare dominatore coloniale di lasciare il paese. Situato nell’Africa Occidentale, a sud della fascia subsahariana del Sahel e a nord dei paesi costieri affacciati sul Golfo di Guinea, il Burkina Faso è un paese in perenne instabilità politica: storicamente centro di estrazione dell’oro dell’area coloniale francese, oggi è utilizzato dall’asse franco-americano come paese-cuscinetto per arginare l’influenza russa e cinese nell’Africa Occidentale – Pechino ha grossi investimenti nei confinanti Niger (idrocarburi) e Ghana (idrocarburi, infrastrutture) mentre Mosca in Mali, Costa d’Avorio e Ghana (dove Lukoil ha investito cifre vicine al miliardo di dollari). Così, per destabilizzare l’area e rendere difficile la creazione di una rete di cooperazione economica tra i paesi dell’Africa centro-occidentale e i giganti asiatici, è stata impiantata nei primi anni Dieci una ferocissima branca dell’ISIS che è allignata in tutta la fascia del Sahel. Le potenze occidentali, apparentemente per contrastare lo stato islamico, hanno avviato nel 2014 l’operazione Barkhane, guidata dalla Francia, che è stata archiviata da Macron proprio il 9 novembre di quest’anno. Risultato? Un nulla di fatto: le truppe francesi sembrano aver impiegato le proprie munizioni contro le popolazioni civili dell’area invece che l’ISIS, stando a quanto gridano i manifestanti. La situazione attuale del Burkina è di totale devastazione: dopo sette anni di guerra, l’ISIS controlla ancora tutta l’area nord-orientale del paese, controllando di fatto il confine con il Niger e quello con il Mali, dove si è creato un canale privilegiato per il contrabbando di armi e per lo sfruttamento illegale delle miniere d’oro, che costituisce ad oggi il 70% delle esportazioni del paese ed è sotto il totale controllo dei gruppi armati – che in Africa è come dire: può essere venduto alle compagnie multinazionali esentasse ed estratto da schiavi sotto minaccia delle armi. Il 17 novembre scorso le milizie pseudo-islamiche hanno fatto saltare in aria tutti i ponti di collegamento alla città di Djibo e massacrato gli operatori che portavano rifornimenti, lasciando la città nella totale indigenza e facendo morire di fame un centinaio di persone tra anziani e bambini. Nonostante gli insuccessi militari, la Francia ha scelto sì di interrompere l’operazione, ma non di ritirare il suo contingente di tremila uomini, inquadrate in un assetto interforze con millecinquecento soldati provenienti da Burkina Faso, Mali e Niger. La cosiddetta “guerra al terrorismo” ha messo letteralmente in ginocchio il paese, che negli ultimi sette anni è stato abbandonato da più di due milioni di persone, trasferitesi nei paesi del Golfo di Guinea (soprattutto Costa d’Avorio) ed è stato animato da un sempre più forte astio nei confronti dei colonizzatori francesi, che tuttora tengono il paese sotto scacco con il franco CFA e privano il paese di quasi tutti i proventi del commercio dell’oro; la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la svolta filorussa del Mali, cui sono seguite una serie di proteste in cui anche i burkinabé sventolavano il tricolore della Federazione Russa, chiedendo di essere affrancati dal dominio di Parigi. L’instabilità politica ha raggiunto livelli estremi, e nel solo anno corrente il Burkina Faso ha vissuto due colpi di stato: il primo il 26 gennaio che ha terminato la parabola del banchiere Roch Marc Christian Kaboré, deposto da una giunta militare comandata da Paul-Henri Sandaogo Damiba, il cui governo è durato solo otto mesi per essere spodestato dai suoi stessi commilitoni, insoddisfatti dalla serie di sconfitte militari di Damiba che hanno portato l’ISIS a controllare il 40% del territorio del paese, e sostituito da Ibrahim Traoré. Quest’ultimo appena eletto ha avviato la coscrizione obbligatoria di 50mila uomini, i quali già si sono fatti conoscere per aver sparato sui propri stessi civili, secondo un comunicato inviato al nuovo governo dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, in cui si accusa il XIV Reggimento Interforze, di stanza nei pressi di Djibo, di aver ucciso decine di civili inermi facendo fuoco nei villaggi intorno alla città. Intanto, le proteste antifrancesi non accennano a diminuire: i manifestanti hanno chiesto alla Francia di richiamare l’ambasciatore accreditato nel Paese e l’esercito. Macron ha risposto con proiettili e lacrimogeni
e il primo ministro Apollinaire Joachim Kyelem de Tambela ha riferito ai media, poco dopo il suo insediamento, che non si sarebbe fatto dare ordini dalla strada. All’inizio di ottobre, la Francia ha inviato sei unità militari d’élite del GIGN a Ouagadougou per garantire la sicurezza dell’ambasciatore e del personale diplomatico. Intanto, le aziende minerarie occidentali fuggono in massa dal paese, come la canadese Trevali, che ha distrutto tutti i suoi macchinari e le sue attrezzature della propria miniera di zinco a Perkoa ed è fuggita dal paese dopo essere stata condannata da un tribunale locale per la morte di otto lavoratori durante le piogge torrenziali e inondazioni che hanno devastato il centro del paese quest’autunno, causando un ulteriore netta diminuzione delle terre coltivabili, già devastate dalla guerra: ai morti ammazzati presto se ne aggiungeranno altre migliaia per fame.
MDM 21/11/2022