Giuseppe Russo
Avanti.it
Quella dei referendum del 12 giugno è stata la cronaca di un fallimento annunciato. Le dimensioni di questo fallimento vanno al di là delle più pessimistiche previsioni: a votare sono andati poco più di dieci milioni di italiani, pari al 20,94% degli aventi diritto. Com’è stato da più parti sottolineato, si tratta dell’affluenza più bassa della storia referendaria repubblicana. Le nude cifre sono impietose, a partire dalle maggiori aree urbane: affluenza intorno al 16% nelle già “virtuose” Torino, Milano e Bologna, del 13 a Roma e addirittura dell’8 a Napoli, tutti dati ampiamente al di sotto della media nazionale. In attesa dei risultati delle elezioni comunali e della sarabanda su chi ha vinto e chi ha perso, tutto il peso di questa disfatta va a gravare sulle spalle dello sconsiderato Matteo Salvini: un pezzo del suo scalpo è già sul tavolo, scotennato dalla storiaccia dei biglietti aerei per Mosca pagati dall’ambasciata russa.
Il tracollo referendario è stato mitigato dall’effetto traino delle concomitanti elezioni amministrative, nelle quali l’affluenza è stata sensibilmente più alta. Esaminando i dati, tuttavia, emerge che la fuga dalle urne ha riguardato anche e soprattutto le comunali, nonostante il contesto locale tenda a favorire la partecipazione, soprattutto nei centri più piccoli. Complessivamente, in 216 comuni (pari a quasi un quarto del totale) l’affluenza è stata al di sotto della fatidica soglia del 50%. Su tutti spiccano i numeri dei due principali comuni chiamati alle urne, Palermo e Genova, dove sono andati a votare, rispettivamente, il 42 ed il 44% degli elettori. Fra le altre città capoluogo, “quorum” non raggiunto ad Alessandria, Como, Monza, Lucca e Carrara, raggiunto per un soffio a La Spezia, Parma e Padova. In Veneto, ben 38 comuni su 86 coinvolti nella tornata hanno avuto un’affluenza inferiore al 50%. In Lombardia sono stati invece 45 (su 127) i centri che non hanno raggiunto la metà dei votanti; fra questi, oltre alle già citate Como e Monza, diverse popolose città dell’hinterland milanese, come Sesto San Giovanni, Abbiategrasso e Garbagnate. Frana la partecipazione anche in Emilia-Romagna, un tempo capofila del “civismo” elettorale: nel modenese in 3 comuni su 3 la maggioranza dei cittadini è restata a casa, a Bomporto si è passati addirittura dal 68 al 46%. Più “virtuoso” si è rivelato il Mezzogiorno, dove si è espressa la maggioranza del corpo elettorale in tutti i centri maggiori. In Molise, tuttavia, la maggioranza dei comuni è stata “astensionista”: 11 su 18. In Abruzzo il caso più paradossale: a Castelguidone, in provincia di Chieti, ha votato un solo elettore, pari allo 0,36% degli aventi diritto.
L’astensionismo dilaga nella più completa delegittimazione della cosa pubblica, a tutti i livelli. La classe politica, dai boiardi di Stato fino ai valvassini di paese, ha dato il peggio di sé negli ultimi due anni: ai tempi del coprifuoco, pure il sindachino di un paese abbandonato s’è sentito in diritto di farsi sceriffo. I partiti, liquefatti fino all’inverosimile, agiscono come comitati elettorali nelle contingenze, come ologrammi mediatici nella prassi quotidiana: svuotati di qualunque senso, legano le proprie evoluzioni a fallaci strategie di marketing, mentre la “politica”, in alto come in basso, la fanno altre “agenzie”, che agiscono al riparo dai ludi elettorali. Tutto questo è parte di una consapevolezza diffusa, seppur confusa: le decisioni non si prendono nei palazzi della politica, i cui abitanti, pur così pervicacemente legati ai loro scranni, sono appena figuranti ben retribuiti, signorini signorsì, utili idioti o predoni incravattati. Siamo molto oltre il “son tutti ladri”. In questo marasma, finiscono per essere travolte anche quelle fragili pratiche di democrazia diretta garantite dalla Carta Costituzionale, come i referendum abrogativi, la cui credibilità era già stata minata da un trentennio di pannellate.
La postdemocrazia è fra noi da un pezzo: la malattia avvolge tutto l’Occidente dalla fine del secolo scorso, ma i primi sintomi s’erano avvertiti già negli anni ’70. Nei paesi anglosassoni, su tutti Stati Uniti e Regno Unito, è prassi consolidata che, salvo casi eccezionali, i processi elettorali coinvolgano solo minoranze. Alle ultime politiche francesi, la partecipazione è stata inferiore al 50%. Negli stati dell’Est europeo, conquistati alle meraviglie della democrazia dopo il crollo del comunismo, la partecipazione è sovente solo simbolica, specie nelle elezioni locali o in quelle europee. Per arginare questa deriva, alcuni paesi hanno istituito il voto postale. Questa pratica, che si presta più di ogni altra ad inquinamenti e manomissioni, è stata decisiva per la controversa affermazione di Biden contro Trump, così come lo fu per l’elezione del presidente austriaco Van Der Bellen, nel 2016, oltre che, nel nostro piccolo, per le elezioni dei rappresentanti degli italiani all’estero. La sua evoluzione tecnologica è rappresentata dal voto elettronico, categoria che può riferirsi sia al voto da casa attraverso la rete, sia al voto presso seggi “fisici” attraverso congegni elettronici. In Italia opera dal 2020 una Commissione Interministeriale che si occupa di valutare i pro e i contro del “voto remoto”: per costoro, il primo passo da fare verso l’istituzione di forme di voto elettronico sarebbe l’istituzione di un “election pass” dal funzionamento in tutto e per tutto analogo a quello del sinistro “green pass”. Insomma, sempre lì vogliono andare a parare. Anche in questo caso, per fermare l’astensionismo (e rispettare, ça va sans dire, le “norme per ridurre il contagio”), vi sarà chi rilancerà il televoto come soluzione-panacea, come eureka per una ritrovata democrazia partecipativa. Per ora, è stata l’ineffabile Paola Taverna, il cui partito ha fatto delle votazioni elettroniche più o meno taroccate un autentico feticcio, a rilanciare l’idea del “voto remoto”, approfittando dello “scandalo” di Palermo, dove centinaia di presidenti di seggio hanno marcato visita, lasciando a spasso i potenziali elettori fino a metà mattina. ” Il futuro e lo sviluppo passano attraverso la tecnologia, come il M5S sostiene da sempre” ha dichiarato l’avveniristica onorevole.
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