Davide Miccione
Avanti.it
Il tema dell’ignoranza è spesso il grande assente dalla griglia interpretativa con cui ci guardiamo intorno e cerchiamo di capirci qualcosa. Si intenda: non il “merito”, piccola macchina politica per giustificare la cooptazione e neppure la coppia ”competenza/incompetenza” piccola macchina scolastico-politica con cui si può restare ignoranti sentendosi però perfettamente adeguati ai propri ruoli; bensì proprio la vecchia ignoranza, non “santa”, non “dotta”, non “socratica” ma tale come per secoli l’abbiamo conosciuta, come mancanza di frequentazione e comprensione del mondo culturale che l’uomo nel suo procedere storico ha creato, come incapacità di riconoscerne la grandezza (in vari sensi) e la profondità, come inettitudine a collocarvi alcun prodotto culturale, a non saperlo leggere, a non saperlo interpretare.
Dietro alcune cose che non ci spieghiamo spesso c’è proprio l’ignoranza. Dietro mancanze, comportamenti anomali, scelte incongrue spesso c’è solo una grande lacuna. Dietro professori che non fanno il proprio mestiere spesso c’è solo un profondo imbarazzo nel trattare la propria disciplina perché non la si conosce, dietro medici troppo avventati o, al contrario, bisognosi di prescrivere decine di analisi per un’unghia incarnita, dietro giornalisti tracotanti, dietro amministrativi che ci fanno perdere tempo, c’è il perenne evitamento del proprio punto di asinità.
C’è l’ignoranza dietro la diffusione di complotti arzigogolati e inverosimili, zeppi di suggestioni esoteriche e religiose, c’è altrettanta se non maggiore ignoranza dietro l’accettazione supina della anch’essa inverosimile descrizione che l’occidente fa di se stesso e della sua democrazia, delle sue politiche belliche, ecologiche e pandemiche. Il mancato controllo di una dimensione di ermeneutica del sospetto e l’assenza di ogni sospetto necessitano entrambi di carenza di abitudine al pensiero, all’analisi, alla storia. Vedere il mondo come un romanzo di Dan Brown o vederlo come Cuore di De Amicis sono entrambi segnali che perlomeno tutto il Novecento per noi è passato invano. Se però lo stesso Eco, beffardo spregiatore di ogni complotto, sembra avallare l’ipotesi che «la sindrome del complotto sia la reazione di una popolazione che vorrebbe capire quello che sta succedendo, ma avverte che spesso le viene rifiutato l’accesso a una informazione completa», allora in questa non esaltante gara, all’ultimo posto si collocherebbero proprio coloro che accettano un’informazione mutila e omissiva come fosse il divino verbo.
Eppure pensare l’ignoranza ci disturba. È il nostro grande non detto. Tuttavia chi ha insegnato nei licei e nelle università contemporanee sa, a meno che non sia lui stesso ignorante, che una grossa fetta della popolazione scolastica e accademica non raggiunge i livelli minimi che ci si aspetterebbe dal possesso della loro laurea o del loro diploma. Il buon senso, d’altra parte, ci suggerisce che costoro non scompaiano dopo il diploma o la laurea in un universo parallelo in cui meditare sulla propria ignoranza ma, a maggior ragione in un sistema come quello italiano, finiscano con il fare la medesima carriera degli altri.
Ciononostante il tema dell’ignoranza va cancellato affinché, com’è ovvio, non venga pensato il suo opposto: la cultura. Cosa causerebbe di tanto grave l’apparizione del tema dell’importanza della cultura? Diverse cose: ci porterebbe ad esempio a porci il tema della storia, e il tema della storia porta con sé quello della memoria e della tradizione, e quello della memoria e della tradizione conduce al tema dell’identità. Tutti termini ormai fuori moda. Eppure la tradizione deve essere conosciuta. Lo deve essere per essere tramandata, per essere venerata e per essere fatta a pezzi, in libera scelta o in approssimato miscuglio. Nel procedere della cultura umana sono compresenti tutti questi atteggiamenti. Anche la demolizione della tradizione necessita di una profonda coscienza di dove e perché colpire e il processo demolitorio fa si che il demolitore si porti dietro comunque qualcosa.
Non è questo il lavoro di oggi. Non sono gli illuministi contro i Padri della Chiesa, i marxisti contro l’economia liberale. Il round finale è questa demolizione americana della storia, dove il vincente colpisce alla cieca e non sa neppure cosa colpisce: per questo è così imbarazzante allo sguardo di chi non sia sempre vissuto nel Presente continuo che ci affligge. Per questo è necessaria al sistema l’incomprensione della storia e della cultura.
La cultura come raffinamento ermeneutico ci porterebbe inoltre dei problemi di accettazione nei confronti dell’azione politica come mero fare tecnico. Con un po’ di cultura chiederemmo, come è ovvio, alla politica di mostrare un sapere politico, una cultura politica e non una perizia tecnica, che, perdonino i lettori lo spirito aleggiante di Jacques de La Palice in queste righe, chiederemo invece al tecnico. Il potere, per evitare il virus della politica come luogo dove si raggiunge una decisione di cui si debba poi avere una responsabilità, si traveste da decenni da tecnica. Vuole sottofinanziare le università meridionali senza che sia una decisione politica ma solo tecnica e costruisce algoritmi per classifiche che gli permettano “tecnicamente” di tagliare finanziamenti come mero fatto tecnico e così via. Questo goffo travestimento funziona solo in presenza di un folto numero di soggetti per cui una riflessione politica e filosofica sia ormai oltre le proprie possibilità.
Senza costoro la sovrapposizione della tecnica con la politica tramonterebbe. Senza di essi il ministro dei trasporti tornerebbe a essere, come deve, il portatore di una gerarchia di scelte politiche, di una visione dello sviluppo non solo economico e non invece un ingegnere honoris causa. Apparirebbe evidente come un treno sia un treno solo per un ingegnere ferroviario ma per un politico è un mezzo per realizzare dei fini (sviluppo? Coesione del territorio? Integrazione sociale?), che il potenziamento di questo mezzo ne precluderà altri o comunque li indebolirà. Tutte scelte che pur avendo un aspetto tecnico (come tutto del resto) implicano la scelta di una gerarchia di fini e di una saggezza nell’uso dei mezzi. Ciò vale per la costruzione di una fognatura come per un’aliquota irpef, per un sistema pensionistico come per l’adozione di un certo algoritmo che permette di calcolare il bollo auto, per il risanamento di un’area urbana come per il regolamento dei cimiteri. Ogni cosa implica la scelta di criteri, valori di ordine etico, storico, antropologico, tentativi di bilanciamento tra valori diversi eccetera. E del resto cosa mai potrebbe costruirsi o modificarsi, che sia un’entità materiale o immateriale, che non abbia un’influenza sulla comunità? Chi pensa, da politico, di stare “sbrigando” un atto tecnico invece che un atto politico dimostra solo la propria triste condizione culturale (e del resto tanto Platone che Croce, per citare due classici, sul tema si sono già abbondantemente espressi) o la propria amorale furbizia.
Se il ministro dei trasporti non è un ingegnere ferroviario, a maggior ragione il ministro della salute (un concetto assai complesso) non è un medico. Egli è il portatore della salute della polis e deve possedere il sapere della politica. La presenza sempre più infestante dei comitati tecnici, privi di saperi antropologici, filosofici, sociologici e psicologici, privi di un mandato democratico, chiamati a pronunciarsi su tutto in questi anni, è l’apoteosi di questo sonno della cultura. La fantasia di una scienza che dovrebbe applicarsi ad un ambito epistemologicamente spurio come la medicina e contemperare, non si sa sulla base di quali dati e risultati, la salute fisica e quella mentale, gli effetti a breve termine e quelli a lungo termine, nonché le conseguenze sullo sviluppo umano dei giovani capitati in questi anni disgraziati e quelle sul corpo sociale e sulla sua coesione, sulla nazione intera, è qualcosa di profondamente ridicolo.
Insomma la pantomima della scienza infallibile di questi anni, infallibile nonostante si mostri perennemente intenta in un litigio interno tra scienziati (ognuno dei quali porta su di sé, evidentemente, tutta intera la scienza come gli angeli portano la propria specie); infallibile con membri che cambiano continuamente parere anche per proprio conto contraddicendosi; infallibile pur con scienze “nazionali” che a seconda della nazione di appartenenza prendono posizioni diverse (esisterà dunque una fisica uruguaiana con leggi diverse? Una biologia neozelandese? Una chimica slovena? Parrebbe di sì). La scienza infallibile di questo triennio fa apparire, in confronto, la costruzione del dogma dell’infallibilità papale un miracolo di solidità epistemologica. Perlomeno essa è limitata ad alcune sfere e ad alcuni momenti specifici e ritualizzati dell’azione del Pontefice mentre il comitato tecnico scientifico sembrerebbe non avere confini di argomento o di situazione e potersi estendere all’etica, all’antropologia, alla sociologia eccetera. Una versione un po’ grottesca, ma non per questo meno inquietante, del vecchio sogno comtiano di un’umanità guidata da tecnici.
Un discorso questo, sui limiti della tecnica e quelli della politica e sul valore della cultura che negli anni Ottanta, quando ho iniziato a studiare, avrei scartato perché troppo ovvio, perfino banale e che oggi tocca fare perché i riferimenti stanno, non lentamente, sparendo. Dichiarazioni sulla distinzione delle diverse sfere (etica, politica, scienza), sulla libertà di opinione, sulla costruzione della verità attraverso il dibattito e non del dibattito a partire da una verità a priori (come in questi ultimi anni risulta abbiano deciso di fare i social) iniziano ad essere puntualizzazioni persino minoritarie. Le magnifiche sorti liberali si rivelano essere solo una sottile placcatura che il tempo sta velocemente corrompendo.
Insomma, un habitus culturale autentico rischia di essere un problema. La cultura porta tempi più lenti e porta naturalmente a rallentare il pensiero, a dragarlo da varie angolazioni, a creare un dibattito interiore; porta a rendere le questioni più complesse in un’epoca che, per la potente organizzazione retorica dei media, procede ormai con coordinamento e simultaneità e su pochi slogan reiterati con violenza. L’ignoranza vigila su di noi: il dibattito, se proprio deve esserci, sia simulato, ripetitivo e asimmetrico. E mai si alzi in volo.
Andrea dice
Il concetto di “trasmissione culturale” è stato spezzato dalla cosiddetta ” modernità” ed è stato spezzato proprio da quell’Illuminismo che raccolse tutto ciò che si doveva sapere nell’Encyclopedie. Il taglio netto con il passato è rappresentato dalla Rivoluzione francese. Un popolo nuovo, un dio nuovo, istituzioni nuove, che costi anche un bagno di sangue. La rivoluzione bolscevica fa la stessa cosa, fin dall’inizio: i tecnici rossi erano solo rossi, non tecnici. La tecnica è lo sbocco della filosofia occidentale, e non vorrei soffermarmi su Emanuele Severino e il suo libro del lontano 1978: “Gli abitatori del tempo”. Stalin costruisce il suo potere con le “Facoltà operaie”, con cui promuove l’ignoranza degli strati più umili e feroci del sottoproletariato a dirigenti dei grandi complessi industriali e degli organi di sicurezza, oltre che del partito. Ecco, condivido, perché ne prendo atto nella realtà, che l’ignoranza sia un grande problema, ma questa è la politica voluta e promossa: quella che porta Giggino a fare il ministro degli Esteri, e pare, anche oltre… Il fascismo ebbe una classe dirigente di prim’ordine; il nazionalsocialismo ebbe una classe dirigente di prim’ordine; il comunismo no. Ciò che si contrappose alla modernità del capitalismo – cioè i fascismi – ebbe ceti dirigenti moltissimo attenti alla qualità dei mezzi e alla finalizzazione degli interventi. Vivendo in prossimità di Ferrara, mi commuove ancora vedere la cittadina di Tresigallo, città di neofondazione, voluta da Edmondo Rossoni, che mandava i disegni di razionalizzazione da Roma, quando già era ministro, lavorandoci ancora, con spirito razionalista. È l’assoluta mancanza di scopo – l’afinalismo – del capitalismo finanziarizzato associato al suo “doppio” parlamentare liberal-democratico, corrotto per natura e oltre-natura dai gruppi di pressione e dagli organismi sovranazionali che crea l’ignoranza, la vuole, la desidera. Può governare con il caos, vuole il caos, di caos si perpetua. L’assemblea del PD è un faldone di ignoranza, però sono tutti laureati, o diplomati, o tecnici, o professionisti, o professionisti della politica: sono il limite evidente dell’ignoranza coniugata con l’inutile cultura e tecnica che gira in folle perché non c’è più nulla. Ci sarebbe solo il suicidio, ma anche il suicidio richiede profondità ottica, interpretazione del tempo, onestà intellettuale, buone letture, ottimi strumenti interpretativi: tutte cose che l’occidente morente su stesso non vuole, ripudia, perché non ne ha bisogno.