Carlo Formenti
Avanti.it
“Il processo a Julian Assange, Storia di una persecuzione” (Fazi editore) colpisce meno per il lungo, dettagliato e documentato elenco degli incredibili abusi subiti dal giornalista di Wikileaks da parte di diversi governi occidentali (questi fatti erano già noti a chiunque fosse disposto a prenderne atto), che per la “confessione” dell’autore Nils Melzer (relatore speciale dell’ONU sulla tortura, docente di Diritto internazionale umano a Ginevra e direttore del Comitato internazionale della Croce Rossa). Dopo avere ammesso di essere stato inizialmente restio ad occuparsi del caso Assange, in quanto “avevo ancora impressi nella mente i titoli dei grandi giornali che negli ultimi anni avevo assorbito quasi inconsapevolmente”, avendo capito solo successivamente quanto la sua percezione fosse stata distorta dai pregiudizi, Melzer dichiara che, dopo essersi scontrato per anni con il muro di omertà eretto dalle cancellerie dei Paesi coinvolti, deve riconoscere di essersi trasformato, da garante del sistema occidentale dei diritti umani a “dissidente all’interno del sistema”.
Vale la pena di citare alcune frasi che dimostrano fino a che punto sia arrivata l’indignazione di Melzer di fronte ai comportamenti dei potenti: “Il caso Assange è la storia di un uomo che viene perseguitato perché ha reso di dominio pubblico gli sporchi segreti dei potenti, svelando crimini di guerra, tortura e corruzioni. E’ la storia di un deliberato arbitrio giudiziario nelle democrazie occidentali, le quali invece preferiscono presentarsi come Stati modello per quanto riguarda la difesa dei dritti umani. E’ la storia della collusione tra servizi segreti e autorità statali, praticata alle spalle dell’opinione pubblica e dei parlamenti nazionali”; “gli interessi perseguiti dai governi sono sempre politici, la loro priorità non è mai promuovere i diritti umani che, se e quando vengono inseriti nell’agenda politica ufficiale sono solo un mezzo per raggiungere altri obiettivi, come denigrare altri Stari o giustificare interventi militari”. Quanto alle garanzie che la separazione fra i poteri dovrebbe offrire al cittadino contro eventuali abusi da parte dei singoli poteri dello Stato, Melzer scrive che “le distanze fra i tre poteri dello Stato sono sempre meno profonde di quelle che separano la popolazione dalle autorità dei tre ambiti. I funzionari statali si conoscono, vanno a pranzo insieme, si scambiano informazioni, si consultano informalmente ed evitano di pugnalarsi alle spalle tra loro”, efficace descrizione del processo di conversione delle democrazie in oligarchie. Insomma. dopo avere raccolto diecimila pagine di atti giudiziari, scambi epistolari e altri mezzi probatori, Melzer è indotto a riconoscere “il fallimento sistemico delle nostre istituzioni democratiche secondo i principi dello stato di diritto”.
Passiamo agli elementi che più di altri hanno ispirato questo pesante giudizio. A farci cogliere l’eccezionalità del caso Assange, argomenta Melzer, può contribuire il confronto con quello di Snowden. Costui è cittadino americano ed era legato al suo governo da un contratto per cui, avendo raccolto di sua iniziativa e reso pubblici i materiali che dimostravano che gli Usa (con la complicità di inglesi, canadesi, australiani e neozelandesi) spiano sistematicamente i capi di stato di altri Paesi occidentali, hanno una qualche giustificazione le accuse di spionaggio e “tradimento” che gli vengono rivolte. Viceversa Assange non era cittadino americano e si è limitato a ricevere e pubblicare materiali che altri gli avevano procurato (non ha cioè fatto altro che il suo mestiere di giornalista). Perché allora tanto accanimento?
Perché l’osceno contenuto del filmato di 18 minuti che mostra militari americani che mitragliano civili inermi dal loro elicottero in volo su Baghdad, scherzandoci sopra ed esaltandosi per l’impresa compiuta, non doveva venire reso pubblico; era destinato sparire nel buco nero dei segreti di stato (così come avrebbero dovuto sparire i Pentagon Papers e le foto delle torture nel campo di prigionia di Abu Ghraib). Perché per il governo Usa “i traditori della patria sono quelli che rivelano i crimini di guerra anziché i criminali di guerra e i loro superiori; e irresponsabili sono i giornalisti che li rendono noti anziché le autorità che li negano con la scusa della segretezza”. Quindi Assange doveva pagare a ogni costo, doveva essere punito in modo così esemplare da togliere a tutti suoi colleghi la voglia di imitarlo.
Ma il caso Snowden è istruttivo per un’altra ragione: perché ha messo in luce l’arrendevolezza di tutti i governi occidentali nei confronti del dominus a stelle e strisce. Nessun leader europeo è andato al di là di timide proteste, subito sedate e soffocate, per essere stato spiato dall’occhio del padrone. Non deve quindi stupire che tutti i governi coinvolti nel caso Assange si siano piegati alle richieste americane di collaborare per punire il reo di lesa maestà, anche al costo di fare strame dei loro principi e valori istituzionali.
Così la Svezia (la cui totale sudditanza a Washington era emersa già nel 2001, allorché due richiedenti asilo egiziani regolarmente registrati vennero fermati dai servizi segreti e consegnati alla CIA, per essere trasferiti in Egitto e torturati in quanto sospetti terroristi). Melzer dimostra come la magistratura svedese sia sempre stata consapevole di non avere abbastanza elementi per provare l’accusa di stupro contro Assange (un’accusa costruita ad arte per “sporcare” l’immagine del giornalista e neutralizzare le simpatie dell’opinione pubblica nei suoi confronti). Ciò è dimostrato da come si sia più volte chiuso e riaperto il caso, al solo scopo di prolungare questo effetto deterrente sull’opinione pubblica. Del resto la soluzione ideale per la procura svedese era mandare tutto in prescrizione, in modo da impedire all’imputato di dimostrare la propria innocenza: “Il piano non prevede di arrestare e interrogare Assange, ma creare e perpetuare la narrazione pubblica di un fuggitivo colpevole di reati sessuali, negandogli al tempo stesso la possibilità di difendersi”.
Se Assange ha chiesto asilo politico all’ambasciata ecuadoriana è stato perché sapeva che la Svezia non avrebbe esitato a consegnarlo agli Stati Uniti, dove lo aspetta un destino perfino peggiore di quello del suo informatore Chelsea Manning, a lungo sottoposto a torture (dalla mattina presto alle 8 di sera non poteva dormire, sdraiarsi, appoggiarsi alla parete o fare esercizio fisico, poteva solo alzarsi dal letto e girare in tondo in una cella minuscola) che, nel suo caso, durerebbero tutta la vita, visto che potrebbe essere condannato a 175 anni.
Ma il pur claustrofobico regime cui si è sottoposto in un’ambasciata assediata dalla polizia britannica, pronta a piombargli addosso non appena avesse messo piede fuori, è diventato un vero e proprio incubo quando a Quito sale al potere Lenin Moreno. Questo voltagabbana (che copre di infamia il nome che qualche sprovveduto genitore gli ha dato) era stato eletto per proseguire la politica antiliberista di Correa, ma si è prontamente venduto agli Stati Uniti, i quali, per aprire i cordoni della borsa, hanno posto, fra le altre condizioni, la consegna di Assange. A partire dal marzo del 2018 tutti gli impiegati dell’ambasciata che avevano buoni rapporti con Assange vengono quindi rimossi e, mentre il segretario di stato britannico Alan Duncan scrive senza fronzoli che “la missione principale del nuovo ambasciatore Romero è ora quella di far uscire Assange dall’ambasciata”, inizia una vera e propria persecuzione: Assange viene sempre più isolato dal mondo, gli vengono negati telefono e Internet, gli viene ristretto il diritto di ricevere visite private se non di medici e avvocati, ogni cosa anche la più intima che possa essere usata contro di lui viene scrupolosamente registrata; si alimenta contro di lui il gossip mediatico per lanciare una nuova narrazione sporca, per diffamarlo e screditarlo (arriveranno a togliergli il necessario per radersi, per cui quando uscirà avrà l’aspetto di un barbone di strada).
Quanto al governo britannico basti citare quanto dichiarato dal suddetto Duncan davanti alla Camera dei Comuni: “”è tempo che quel piccolo verme miserabile esca dall’ambasciata e si costituisca alla giustizia britannica”. E infatti l’11 aprile del 2019 quando, al culmine di una serie di eventi pianificati e coordinati con largo anticipo fra Ecuador, Regno Unito e Stati Uniti, Assange esce dall’ambasciata viene immediatamente arrestato e inizia la sua detenzione, in condizioni di isolamento e sorveglianza degne di un pericoloso criminale che Melzer descrive nel libro, in attesa che si risolva la procedura di estradizione. Se e quando verrà estradato, scrive Melzer, il suo processo si terrà presso la Espionage Court di Alexandria, dove i procedimenti si svolgono a porte chiuse, senza stampa né pubblico, in base a prove non accessibili ad Assange e al suo difensore “per motivi di sicurezza”. Anche grazie all’impegno di Melzer, della moglie e degli amici di Assange, nonché di esigue minoranze politiche occidentali e dei pochi organi di stampa che conservano un residuo di autonomia e dignità, Amnesty International, Human Rights Watch, reporter Senza Frontiere e altre associazioni si stanno oggi attivando per evitare questa conclusione.
Concludo osservando che Melzer, cui va tutto il mio rispetto per il suo impegno a favore della giustizia e per avere capito che il suo ruolo di garante dei diritti umani si stava riducendo ad agire da foglia di fico di un sistema liberal democratico che si avvia a emulare i regimi fascisti fra le due guerre mondiali (preparandosi a scatenare la terza), non riesce tuttavia a compiere l’ultimo passo, a capire cioè che non si tratta di una degenerazione rispetto a un originario modello ideale, bensì della logica intrinseca al sistema in questione, ecco perché si dichiara un “dissidente interno” dello stesso. Del resto “nessuno è perfetto” come recita la battuta conclusiva del film “A qualcuno piace caldo”.
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