Giorgia Audiello
Avanti.it
Indagare, simulare e “creare” la coscienza attraverso la robotica: è l’ultima frontiera del culto del progresso tecno-scientifico materialista e meccanicista che pervade la modernità. Tentare di conferire autocoscienza alle macchine è il paradosso più estremo del razionalismo positivista che vorrebbe ridurre il pensiero – compresi la creatività, le emozioni e la sensibilità – a mero processo meccanico attraverso l’uso di algoritmi e deep learning. L’obiettivo è conferire alle macchine autocoscienza per mezzo di quella che viene chiamata auto-simulazione artificiale e arrivare utopisticamente alle “macchine coscienti”: una contraddizione in termini in quanto macchina e coscienza risultano di per se stesse incompatibili, essendo la prima materiale e programmata e la seconda – in quanto collegata al pensiero e all’anima – immateriale e, per questo, sommamente libera e non programmabile. Se indagare i grandi misteri della vita, dell’universo e della coscienza è da sempre oggetto della filosofia, oggi è diventato soprattutto interesse dell’ingegneria, delle neuroscienze e della biochimica, poiché esse cercano il modo di riprodurre questi processi artificialmente in un impulso prometeico che porta l’uomo non solo a voler dominare la realtà, ma direttamente a crearla, nella velleitaria illusione di dimostrare – attraverso la tecno-scienza – che non vi sono “misteri” e che tutto è riducibile a leggi meccaniche e materiali, compresa la vita stessa. È quanto afferma implicitamente Hod Lipson, ingegnere meccanico che dirige il Creative Machines Lab alla Columbia University con lo scopo di creare macchine dotate di autocoscienza. Con riferimento a quest’ultima, Lipson ha affermato che «è quasi una delle grandi domande senza risposta, al pari dell’origine della vita e dell’origine dell’universo. Cos’è la sensibilità, la creatività? Cosa sono le emozioni? Vogliamo capire cosa significa essere umani, ma vogliamo anche capire cosa serve per creare queste cose artificialmente».
Secondo Lipson, uno degli elementi costitutivi dell’autocoscienza è l’“autosimulazione”: «Un sistema in grado di simulare se stesso è in una certa misura autocosciente. E il grado in cui può simulare se stesso – la fedeltà di quella simulazione, l’orizzonte temporale a breve o lungo termine in cui può simulare se stesso – tutte queste diverse cose incidono su quanto è autocosciente. Questa è l’ipotesi di base», ha spiegato il direttore del Creative Machines Lab. Lipson ha studiato l’auto-simulazione artificiale già nel 2006, con un robot a forma di stella marina che utilizzava algoritmi evolutivi e alcuni “suggerimenti sulla fisica” precaricati per insegnare a se stesso come cadere in avanti su un tavolo. Successivamente, con gli sviluppi dell’intelligenza artificiale, ci sono stati ulteriori progressi in quest’ambito. Tuttavia, quella che viene chiamata autosimulazione non è altro che una successione finita di istruzioni o input – provenienti dall’esterno – che definisce le operazioni da eseguire sui dati per ottenere i risultati. Con l’intelligenza artificiale si è aggiunto il “deep learning” che non è altro che una classe particolare di algoritmi di apprendimento automatico che si basa su reti neurali artificiali che imitano quelle biologiche: in altre parole, dunque, si pretende di ridurre la coscienza ad un algoritmo, ossia ad un mero schema computazionale deterministico che in realtà è l’esatto opposto della coscienza.
In un articolo pubblicato sulla rivista Science Robotics, Lipson ha illustrato la nuova macchina autocosciente: un semplice braccio a due articolazioni fissate a un tavolo. Usando le telecamere installate attorno ad esso, il robot si è osservato mentre si muoveva. Inizialmente non aveva idea di dove si trovasse nello spazio, ma nel giro di un paio d’ore, con l’aiuto di un potente algoritmo di deep learning e di un modello di probabilità, è stato in grado di individuarsi nel mondo. L’autocoscienza, dunque, coinciderebbe con la capacità di costruire un modello virtuale del proprio corpo nello spazio. Lo stesso Lipson riconosce che è possibile sostenere che «la nostra definizione non è realmente autocoscienza. Ma abbiamo qualcosa che è molto radicato e facile da quantificare, perché abbiamo un punto di riferimento». Si tratta, dunque, di un concetto di coscienza molto vago e aleatorio, anche perché nell’ambito della robotica, dell’ingegneria e dell’intelligenza artificiale, il concetto di autocoscienza rappresenta un tabù ed è, dunque, vietato parlarne. «Ci riferivamo alla coscienza con la parola “C” nei circoli di robotica e intelligenza artificiale, perché non ci è permesso toccare quell’argomento. È troppo difficile, nessuno sa cosa significhi, e noi siamo persone serie; quindi, non lo faremo» ha detto Lipson. Ciò nonostante, si tenta di esplorare e di replicare qualcosa che si ammette di non sapere cosa sia.
La coscienza resta un argomento tabù perché indagarla significa poter imbattersi in qualcosa di immateriale e per questo inaccessibile e inesplorabile dalla cosiddetta scienza. Quest’ultima, infatti, opera esclusivamente nel mondo materiale negando tutto ciò che esula da questo dominio poiché non controllabile, calcolabile e quantificabile. Se la coscienza è la capacità immediata di percepire e pensare se stessi, essa ha, dunque, a che fare con la sostanza pensante – quella che Cartesio aveva definito “res cogitans“, ben distinta dalla “res extensa” – che, in quanto tale, non è riducibile alla materia e non può in alcun modo scaturire da essa, essendo le due sostanze distinte e inconciliabili, tanto che – ancora ora – uno dei grandi interrogativi riguarda la comprensione del nesso fra mente e corpo. Ad occuparsi tra i primi di questo tema, ancora oggi dibattuto nella filosofia della mente, è stato il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716), considerato l’ultimo genio universale che conosceva lo “stato della ricerca” in tutti i campi della scienza: secondo Leibniz, l’essere senziente o pensante non può essere una cosa meccanica, perché una spiegazione meccanica non riuscirà mai – per quanto complessa possa essere – a rendere conto del pensiero. In altre parole, non vi è alcuna possibilità di passare dalle proprietà materiali al pensiero, in quanto vi è un “salto”, un vuoto, tra le prime e il secondo. Ancora adesso, questo concetto – che Leibniz ha esposto attraverso “l’esempio del mulino” – viene chiamato in filosofia della mente “Leibniz gap”. La robotica e l’ingegneria tentano di aggirare l’ostacolo attraverso l’espediente dell’algoritmo che si pretende di sostituire o far coincidere con la coscienza, ma che in realtà rimane un potentissimo metodo di programmazione, in quanto tale, opposto alla coscienza. Questa, infatti, implica il libero arbitrio: la programmazione ne è la negazione più esplicita.
Se da un lato, dunque, si assiste sempre più al tentativo di snaturare l’uomo riducendolo a meri processi biochimici, dall’altro, paradossalmente, vi è la volontà di attribuire caratteristiche intrinsecamente umane come la coscienza alle macchine, nella vana illusione di elevare l’uomo al rango di “creatore”. Tuttavia, questa volontà di potenza che ha a che fare con l’orgoglio umano di imitare goffamente “Dio”, non solo rischia di allontanare sempre più l’uomo dalla comprensione di concetti che sono già stati indagati profondament ee magistralmente dalla filosofia antica, ma anche di alterare e mettere a rischio la libertà umana sempre più in balia del controllo digitale e dell’IA che può dare vita ad un vero e proprio reticolato di sorveglianza ineludibile, rendendo l’umano schiavo delle sue stesse “creazioni”. Tanto che lo stesso Lipson ha asserito che «noi esseri umani stiamo consegnando la nostra vita nelle mani delle macchine». Se il raggiungimento di comprensione e imitazione meccanica della coscienza è ancora lontano e con ogni probabilità irrealizzabile, quello dell’alienazione e dell’alterazione della natura aumana è invece più vicino di quanto si potrebbe credere.
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