Davide Miccione
Avanti.it
Non è il caso di illudersi. Non è cosa che riguardi solo i giovani. Riguarda tutti, riguarda il nostro tempo. Noi viviamo in un eterno presente. Dalla dimensione più ampia e collettiva fino alla dimensione più intima e corporea, frattalmente, il passato si è cancellato, il futuro si è scolorito e il tempo, di conseguenza, si è contratto. A livello politico e collettivo lo vediamo facilmente nell’impossibilità di capire il passato del mondo giacché questo e non altro è l’universo sorgente del politicamente corretto e i suoi addenda (cancel culture ecc.): l’incapacità di cogliere la complessità, le sfumature, l’identità e le contraddizioni del passato e dunque non saper cogliere neppure quelle del presente che, senza una temporalità più distesa nei soggetti che lo vivono, diventa muto e invisibile.
Il passato storico è stato cancellato con un lavoro di bulino che parte dalla riduzione della corrispondente materia nei licei e negli istituti superiori fino a un generale disprezzo verso la dimensione diacronica di tutte le discipline (bisogna conoscere una disciplina come se fosse nata già formata e mai riflettere sulle sue stratificazioni e sui suoi slittamenti). Grazie a questa ottusità “presentista” coltivata lungamente si è potuto dar ascolto in questi tre anni, senza ridere o piangere di vergogna, a quella specie di pupazzo di cartapesta fatto passare per scienza in tutti i media.
Il “presentismo” non riguarda un’area del sapere umano, un argomento più che un altro oppure la cultura di massa ma non quella alta o soltanto la cultura scientifica ma non quella umanistica o viceversa. Se può ancora sembrar così a qualche ottimista è solo perché alcuni argomenti, ancora per poco, intimidiscono o impressionano più di altri. Quando Nuccio Ordine, nel suo L’utilità dell’inutile, scrive «in alcune facoltà o in alcuni dipartimenti, sono addirittura a rischio discipline come la filologia e la paleografia. Questo significa che nel giro di pochi decenni – quando saranno andati in pensione gli ultimi paleografi e gli ultimi studiosi delle lingue del passato – bisognerà chiudere biblioteche e musei e rinunciare, perfino, a scavi archeologici e alla ricostruzione di testi e di documenti», si sente il cigolio di una macchina millenaria che si ferma. Che siano giovani filosofi o giovani fumettisti, giovani politici o giovani registi o giovani calciatori, sempre più spesso ci si troverà di fronte ragazzi appassionati ma che non hanno mai visto, letto o ascoltato i punti di riferimento attraverso cui gli oggetti della loro passione si sono costituiti: né Husserl né Segar, né Nenni né Fellini né Gigi Riva. Tutto accade sempre ora.
Qualcuno potrebbe trovare contraddittorio che un giovane che voglia diventare ed essere considerato un grande regista non ritenga un dovere logico (prima che morale) conoscere i suoi predecessori, anche perché in caso contrario la sua stessa fama duramente conquistata sarebbe fatta svanire l’attimo dopo averla conquistata da chi come lui non vede opere che non siano assolutamente contemporanee. Ma questo è appunto un pensiero tipico di una diversa temporalità vissuta, il pensiero di chi vive una dimensione di temporalità distesa. Se vivi solo nell’ “eterno adesso” il problema non si pone. Se ciò accade è perché a svanire ormai dalle nostre menti è il passato in sé e l’idea di una temporalità più ampia.
È come se tutti ci stessimo preparando a pensare di essere i primi e gli ultimi uomini. Tutti Sumeri: il popolo che secondo il sumerologo Noah Kramer «considerava gli eventi storici come affacciantisi belli e pronti sulla scena del mondo. Credeva, per esempio, che il proprio paese, questo paese pieno di città e di stati prosperi, disseminato di villaggi e di fattorie, ricco già di tutto un sistema perfezionato di tecniche e di istituzioni politiche, religiose ed economiche, fosse sempre lo stesso, dall’origine dei tempi». Tutti Sumeri, con qualche giustificazione in meno rispetto a loro.
Sulla fine del futuro, immaginato ormai come una versione tecnologicamente potenziata del presente abbiamo già scritto (vedi Depressi di tutto il mondo disunitevi!) e non è il caso di ripetersi. Forse si potrebbe far notare come questa rimozione del futuro e sua trasformazione in un superpresente scenda per li rami, come si accennava sopra, anche nell’intimo e nel corporeo. La mancata accettazione che il nostro aspetto cambi, a partire dai nostri vestiti, uguali dai sedici agli ottant’anni, (con quel che l’abito rappresenta in termini di cultura simbolica) ma disposti a spingerci ben più in là (persino a parodiarlo, il nostro aspetto, attraverso la chirurgia estetica pur di non farlo cambiare); la rimozione della morte altrui e quindi anche nostra (e finalmente la pandemia ci ha dato la possibilità di compiere questo sacrilegio antropologico con il benestare delle supreme autorità: era ora!); il prolungamento della sessualità per via chimica molto oltre i segnali che il corpo ci invia fino a farne un golem che sopravvive alla morte della sua fonte (che dovrebbe essere il desiderio). Tutti questi aspetti ci dicono che al futuro non è concesso di esistere a patto che non si pieghi ad essere solo il nostro iper-presente. Privati del futuro politico-sociale e di quello personale e sempre meno in grado di rievocare e tratteggiare il passato, i nostri margini di spostamento si fanno sempre più piccoli. Si mostra la fine non della storia (quello è solo un effetto visivo) ma più radicalmente della nostra possibilità di concepire la stessa storicità delle cose. Come dire? La storia potrebbe continuare ma noi non saremo più in grado di accorgercene.
A voler dare un’interpretazione “materialista” la contrazione del tempo sarebbe semplicemente il tracimare della nostra esperienza di consumatore. La nostra formazione di uomo diventa semplicemente la generalizzazione della nostra formazione di consumatore. Il tempo del rinnovo e del consumo delle merci che si è fatto totalità della realtà che siamo in grado di percepire. Ci sentiamo dire dal libraio che il libro uscito tre anni fa è vecchio perché il libraio si limita ad applicare al suo ambito la concezione più generale del rinnovo delle merci e del succedersi delle mode che servono a smerciarle. Il sistema economico ha corroso tutte le altre possibili angolazioni di sguardo e pensiero, tutte le altre tradizioni. Sta per restare unico e solo. Essere degli uomini colti oggi significa innanzitutto riuscire a contrastare concettualmente, almeno per se stessi, la morsa della contrazione del presente; significa combattere il “presentismo” di cui parla François Hartog, quel particolare regime di storicità in cui siamo finiti dove, tra le tre dimensioni costitutive della temporalità storica (passato, presente, futuro), la prima e la terza si sono indebolite causando un pericoloso sbilanciamento esclusivamente sulla seconda.
Uno scrittore attento alla realtà come Lodoli, bene lo spiega: «io insegno in una scuola dedicata a Giovanni Falcone: ebbene, quasi nessuno sa chi fosse. Io lo ricordo, gli studenti ascoltano e tra una settimana hanno già dimenticato. L’oblio è la condizione necessaria perché il desiderio, unico motore della nostra società consumista, possa rinnovarsi senza ritardi o contrasti».
Quest’uomo “iperpresentizzato” è però il risultato non di una serena evoluzione culturale ma di una vera e propria ortopedia temporale giacché in ognuno di noi sono presenti tendenze che ci porterebbero a derogare alla monodimensionalità temporale della nostra cultura. Che sia la nostalgia del passato o la curiosità per le possibilità del futuro, che sia la conoscenza casuale o tematizzata di ciò che da altre epoche ci proviene o l’insoddisfazione per la piattezza del futuro, è comunque necessaria una pressione collettiva per tenerci così atemporalizzati. Questa ortopedia si esprime soprattutto attraverso la continua accelerazione indotta alle nostre vite. È la contrazione del presente (Gegenwartsschrumpfung) messa al centro di Accelerazione e alienazione, un libretto di Hartmut Rosa assai utile per capire il nostro tempo. Non velocità ma accelerazione ci spiega Rosa, cioè aumento progressivo della velocità. L’inzeppare la nostra vita di compiti professionalmente richiesti e socialmente sanciti. E siccome il sistema non ha una omogeneità di velocità, accelerando ognuno si trova a spingere qualcun altro e ad essere spinto da qualcuno.
Ognuno si fa dunque l’aguzzino temporale di qualcuno e la zavorra o l’ostacolo di qualcun altro. La “società dell’autosfruttamento” di cui parla Byung-Chul Han ha il limite di non riuscire a cogliere questo ruolo di “kapò temporale” che reciprocamente impersoniamo. Nel frattempo la tecnologia si vanta di farci risparmiare tempo inserendoci ulteriori doveri digital-sociali. Ci accorgeremmo della contraddizione (o più realisticamente della presa per i fondelli) se ne avessimo il tempo ma, il paradosso non passerà inosservato, non disponiamo del tempo per accorgerci chiaramente di come e perché ci viene rubato il tempo.
Chi pensi alla ridottissima “disponibilità” a cui eravamo tenuti nella nostra vita privata quarant’anni fa, con il solo telefono fisso, la facilità di eluderlo (“la signora non è in casa!”) e gli orari in cui sarebbe stato poco opportuno chiamare e lo paragoni alla pretesa di disponibilità attuale impostaci non potrà, se ha una minima onestà intellettuale, che vedere la colonizzazione piena e brutale della nostra intimità da parte del mondo esterno. Come scrive Bauman: “L’ora di chiusura dell’ufficio non arriva mai”. Diventa difficile la riflessione, la rilettura, un dialogo che segua i bisogni degli interlocutori e non si limiti a incunearsi tra le mille cose da fare.
Che tipo di uomo stia producendo questa monocoltura della mente è la questione centrale. È possibile, in un eterno presente, fare tesoro dell’esperienza e della memoria e dunque avere cultura? È possibile, in un eterno presente, avere responsabilità per le cose, giacché la responsabilità, il venire chiamati a rispondere, si svolge nel tempo? Ed infine, può una società restare umana senza memoria e senza responsabilità?
Il Contadino dice
Dato che siamo in periodo natalizio, se dovete fare un regalo ad una persona giovane, diciamo dalla quinta elementare in su, consiglio il libro “Momo”, ottima lettura, le avventure di una bambina che lotta contro i ladri del tempo.
Se non conoscete il libro lo consiglio anche a voi, io l’ho scroccato ai miei figli e devo dire che l’ho trovato adatto anche per i grandi;-))
Buone feste, buona lettura
Bertozzi dice
L’eterno presente è la condizione del bambino piccolo, che non sente il peso del tempo che va e viene. Non c’è che dire, dopo aver trattato l’uomo appunto come un bambino di 6 anni nel marketing nella comunicazione e nell’ intrattenimento, negli ultimi decenni sono finalmente arrivati ad un traguardo: aver trasformato intere e diverse generazioni in bambini deboli spauriti e soprattutto ignoranti, di tutte le età, pronti a farsi dire ogni giorno da uno schermo orwelliano cosa devono fare e pensare, o sarebbe meglio dire “ripetere” ed “eseguire”, visto che si è perso anche il pensiero e l’apprendimento, e le capacità logiche di base. Ottimo articolo, grazie