Riccardo Giordano
Avanti.it
Non ci prestiamo più attenzione, poiché si tratta di un processo caduto nella meccanicità, ma quando ci addormentiamo ogni notte si mette in moto una forza che produce una profonda trasformazione nella nostra coscienza.
L’attenzione vacilla e poi viene progressivamente meno, i pensieri si trasformano in realtà fino a estinguersi del tutto, lasciando il posto a un “vuoto” da cui riemergiamo ogni mattina ricaricati di energia fisica e mentale. Che cosa accade della nostra coscienza quando dormiamo profondamente, noi non lo sappiamo.
La luce viene meno un passo oltre la terra dei sogni, dove l’immaginazione prende vita, permettendoci di osservare gli aspetti conflittuali della nostra psiche – quegli aspetti che ordinariamente agiscono dietro le quinte della coscienza – oppure di gettare uno sguardo in quella dimensione in cui la linearità del tempo lascia il posto alla profondità dell’attimo, dischiudendo l’accesso al regno della sincronicità e della intuizione.
Secondo gli antichi, dormendo l’uomo poteva entrare in contatto con le potenze celesti, con forze sottili della natura, per mezzo delle quali sviluppare determinate facoltà sovrasensibili oppure guarire, sanando il corpo e l’anima.
È così che fu sviluppata una vera e propria arte dell’addormentarsi, in cui si insegnava all’uomo come focalizzare la propria intenzione sulla immagine del dio con cui si voleva entrare in contatto e, in sogno, il miracolo accadeva. “Suggestione!” urla lo scienziato moderno. Bene, ma se la mente è capace di indurre una trasformazione reale, in sé o intorno a sé (ed è lunga la lista dei fatti inspiegabili che la letteratura antica e moderna ci tramandano), allora si pone il problema di indagare l’esatta natura della mente e della sua forza.
Secondo l’insegnamento ermetico, ogni notte la coscienza compie un viaggio in se stessa, discende nelle profondità fino ad avere accesso a quel punto in cui dal campo individuale si entra in quello universale (in un certo senso, l’inconscio collettivo), realizzando il contatto con il piano trascendente, con le forze che agiscono determinando la manifestazione fisica. Dal punto di vista di quella che si potrebbe chiamare fisiologia occulta, che vede negli organi fisici dell’uomo la manifestazione microcosmica di potenze macrocosmiche, Rudolf Steiner identifica questo viaggio nella traslazione della coscienza dalla testa (veglia, terra) prima nel cuore (sogno, sole) e poi nella zona degli organi del ricambio (sonno profondo senza sogni, stelle fisse).
Quel che è certo è che il mistero della notte ha da sempre esercitato sull’uomo un duplice e contrastante sentimento. Da una parte l’irresistibile fascino per l’ignoto, per una dimensione magica dell’esistenza; dall’altra, invece, immergere la propria individualità nell’oceano dell’infinito, dove incontra la sua dissoluzione, non può che evocare una profonda inquietudine.
Questa duplicità è ciò che maggiormente caratterizza il sacro, che se esprime la struggente nostalgia per la nostra origine remota, ci mette anche dinnanzi alla necessità di trasformare noi stessi, di sciogliere i vincoli che impediscono di scorgere la sintesi del tutto. E noi, di là dalle parole, siamo profondamente legati a tutto ciò che attiene alle forme della personalità che, ordinariamente, ci permettono di dire “io” a noi stessi.
Vi è di più: di notte, mentre si compie il viaggio iniziatico tra uno spazio e l’altro della coscienza, tra la nostra “casa” (la corporeità) e il cosmo, noi siamo soli. È questa solitudine a rappresentare il grande limite che ci impedisce di giungere a una più vera conoscenza di noi stessi e dell’universo; di svelare il mistero del sonno e, quindi, della morte. Appare chiaro, dunque, come sia proprio la solitudine il veleno che alchemicamente occorre assumere e trasmutare, giacché come vedremo esso cela il mistero dell’Io, di là dalla veste profana dell’ego.
Come il miste – cioè colui che si avvicinava alle cerimonie iniziatiche degli antichi misteri, per mezzo delle quali l’uomo poteva giungere a fare esperienza della vita divina – era accompagnato sulla soglia dell’invisibile dallo ierofante, così i genitori ci accompagnavano da bambini nel sonno: una favola, un bacio, il rimboccare le coperte. E ancora oggi ciascuno di noi ha i suoi “riti” che lo accompagnano al sonno: persino l’abbandono meccanico del materialista è, inconsciamente, un rito di difesa dall’atavica paura dell’anima che si immerge nel buio. In questa prospettiva, le immagini sacre visualizzate al momento dell’addormentamento vengono ad essere dei supporti a cui la coscienza può aggrapparsi, per non sperimentare la sensazione di smarrimento di chi si affaccia sull’ignoto.
Dobbiamo riaccendere in noi la consapevolezza della sacralità del sonno e del sogno e, soprattutto, comprendere che essa può essere la chiave per accedere a una profonda trasmutazione di tutto il nostro essere, la chiave per accedere a una più ampia percezione della realtà.
Si è già avuto modo di scrivere che in noi vivono due forze distinte identificate con Apollo e Dioniso, rispettivamente la coscienza individuale e quella universale. Tutta la nostra esistenza è determinata dall’alternarsi e dalla lotta tra queste due opposte polarità che, specialmente di notte, stanno una dinnanzi all’altra. È la sintesi dei due che noi dobbiamo cercare, poiché questa sintesi è la sorgente della pace e dell’equilibrio di tutta la nostra vita.
La chiave operativa è celata nell’immagine del dodicesimo arcano dei tarocchi: l’Appeso. Questa figura ci suggerisce l’idea dell’abbandono che, tuttavia, non deve essere confuso con il lasciarsi andare, con l’annullarsi per essere “altro”, per lasciarsi guidare da “altro”, ma è lo sguardo impassibile di chi riconosce se stesso nell’altro. Io sono te, dunque, tu sei me. Questo il mistero alluso nella Trinità cattolica dove, per citare Tommaso d’Aquino, lo Spirito santo, in quanto amore che unisce il Padre al Figlio e il Figlio al Padre, è la “forza” che fa dei due uno, e dell’uno due: in unità che unisce senza confondere.
L’universale senza l’individuale sarebbe caos (pensiamo al corpo di Dioniso lacerato dalla furia delle baccanti), l’individuale senza universale resterebbe drammaticamente soggetto alla inesorabile legge della morte, e quindi della solitudine, che domina su tutto ciò che per essere ha bisogno di identificarsi con una forma specifica. La disciplina ermetica ci insegna a percepire noi stessi in un senso assai diverso rispetto all’ordinario. “Io sono l’asse immobile che non vacilla al centro della tempesta”.
La coscienza, ridotta alla sua nuda essenzialità, deve osservare il caos dell’anima senza lasciarsene toccare, immobile. Non deve fuggire il caos, al contrario: deve amarlo come ciò che insegna al suo centro a non vacillare. Allora i due, poco alla volta, trasmuteranno il caos in ritmo: insieme. In questa nuova condizione, la solitudine viene trasformata nella capacità di conservare in sé, come un tepore nel cuore, la presenza dell’altro. Un tepore che non si estingue come il calore delle belle giornate estive, un tepore che è la vita intima del sangue in cui la presenza dell’altro non è più il fantasma di un ricordo, ma incontro reale.
I grandi poeti hanno presentito, parlando ad esempio dell’amore e dell’eros, questa realtà: «Ti sento mia fin nell’ultima profondità, in me come l’anima è confusa al corpo» (D’Annunzio, Il Fuoco); «È come se l’anima mi penetrasse tutti i nervi» (Goethe, I dolori del giovane Werther).
E, similmente, nei versi della grande poesia mistica: «Oh notte che mi guidasti, oh notte più dell’alba compiacente! Oh notte che riunisti l’amato con l’amata, amata nell’amato trasformata» (san Giovanni della croce, L’oscura notte dell’Anima).
[in copertina: Gino De Dominicis, Tentativo di volo, 1970]
Maria Rivelazione dice
Grazie, bellissimo articolo! Quando dici “Si è già avuto modo di scrivere che in noi vivono due forze distinte identificate con Apollo e Dioniso…”, ti riferisci ad altri articoli qui, o a cosa?
Redazione dice
Salve, le basta cliccare sul nome dell’autore per poter leggere tutti i suoi contributi sulla nostra testata. Grazie