Carlo Formenti
Avanti.it
Nel corso di una presentazione del libro Stati uniti e Cina allo scontro globale, di Raffaele Sciortino (Asterios ed.), ho ascoltato una battuta provocatoria dell’autore, il quale ha affermato che, a suo avviso, la Cina, etichettata da tutti i partiti e i media occidentali come un regime “totalitario”, è il Paese più democratico del mondo. Dopodiché ha motivato tale asserzione spiegando che lo stato-partito cinese mantiene un rapporto di confronto dialettico con le masse operaie e contadine le quali, con le loro lotte, possono fare pesare i propri bisogni e interessi, influenzando le scelte politiche del governo.
Lo stesso Sciortino mi ha segnalato un libro di Sandro Saggioro, In attesa della grande crisi (Colibrì ed.) uscito nel 2014 e dedicato alla Storia del Partito Comunista Internazionale (in precedenza Internazionalista), una piccola formazione guidata da Amedeo Bordiga, co fondatore con Antonio Gramsci del Partito Comunista d’Italia, dal quale fu poi allontanato per contrasti con la Terza Internazionale di Stalin, rivelandomi che in quel libro era citato mio padre, Attilio Formenti, che in quel partito aveva militato fino al 1963. Ai tempi ero sedicenne, ma ricordo perfettamente l’amarezza di mio padre, isolato e cacciato dopo anni di militanza per avere sollevato, insieme ad altri compagni, il tema della democrazia interna all’organizzazione. Un documento sul tema da lui cofirmato (inserito in appendice al libro di Saggioro con altri testi), avanzava una tesi chiara e ben argomentata: se fino ad allora le ridotte dimensioni del gruppo avevano giustificato una prassi organizzativa fondata sulla insindacabilità delle decisioni personali del capo e dei suoi fiduciari locali, il salto alle dimensioni di un sia pur piccolo partito imponeva l’adozione delle regole del centralismo democratico canonizzate da Lenin (e adottate dal PCd’I fondato a Livorno nel 1921). Si trattava cioè di sostituire alla dittatura del leader (una prassi che Bordiga definiva eufemisticamente “centralismo organico”) un assetto rigorosamente centralizzato (niente a che vedere quindi con il “democraticismo” borghese) ma aperto alla discussione e al confronto critico interni, pur evitando la cristallizzazione delle posizioni in frazioni organizzate.
I due episodi appena citati, separati da più di mezzo secolo, sembrano avere relativamente poco in comune, accomunati solo dalla parola “democrazia”. Eppure non è così, nella misura in cui testimoniano entrambi della difficoltà della cultura comunista di rapportarsi al concetto di democrazia (pur ricorrente nell’autodefinizione dei regimi socialisti in quanto democrazie popolari). La questione parrebbe anacronistica ove si tenga conto dell’evoluzione storica successiva alla Seconda guerra mondiale, in particolare in quell’Italia che ha ospitato la “lunga marcia” che ha condotto il PCI dalla togliattiana “democrazia progressiva” all’autoscioglimento e alla successiva trasformazione in PDS e infine PD. L’eurocomunismo, non solo in Italia, ha infatti sancito di fatto la piena e totale conversione dei comunisti alla democrazia borghese.
Con un piccolo particolare: nel frattempo la democrazia borghese si era estinta, sostituita dai regimi post-democratici (vedi Colin Crouch e altri) generati dalla controrivoluzione liberal liberista, i quali si presentano ormai come vere e proprie oligarchie di censo in cui le cariche pubbliche si comprano attraverso massicci investimenti in campagne elettorali, finanziamenti lobbistici e reti di relazioni clientelari; in cui la partecipazione popolare alle elezioni è calata in misura impressionante; in cui i parlamenti sono ridotti ad adunate di tifosi che plaudono a esecutivi blindati e spesso nominati più che eletti; in cui i partiti sono correnti di opinione senza circoli di base e militanti; in cui la sovranità popolare è ridotta al simulacro di mere procedure formali.
Ecco appunto, le procedure: secondo certi politologi (vedi, fra gli altri, Nadia Urbinati) la superiorità della peggiore democrazia nei confronti di qualsiasi altra forma di governo si fonda appunto sul rispetto delle regole procedurali. Purtroppo questo argomento appare svuotato dal fatto che tali regole non appaiono più in grado di garantire alcunché: non contribuiscono a selezionare una classe dirigente degna di questo nome; non garantiscono il rispetto dei bisogni e delle esigenze della maggioranza dei cittadini; vengono facilmente aggirate dalla manipolazione dell’opinione pubblica da parte di un sistema mediatico ultracentralizzato e controllato da una ristretta élite di professionisti al servizio delle oligarchie dominanti. Eppure, mi si potrebbe obiettare, nel suo piccolo anche la richiesta di mio padre di sostituire la dittatura personale del leader di un piccolo partito con il centralismo democratico di leniniana memoria presupponeva l’adozione di una serie di regole procedurali. Vero, tuttavia si sa che gli statuti di partito, per quanto articolati e complessi, non sono mai riusciti a fare da contraltare alla leadership di personalità carismatiche (finché visse, Lenin mantenne un ferreo controllo sul partito in barba alle regole del centralismo democratico da lui stesso imposte).
E allora? Scendendo dal cielo delle idee (il dibattito accademico sulla democrazia come categoria astratta ha il vizio di partire da Aristotele per arrivare alle costituzioni novecentesche, passando dai padri fondatori del liberalismo moderno come Hobbes e Locke, senza preoccuparsi dei concreti contesti storico sociali che hanno generato le idee in questione e condizionato al loro messa in pratica), provo a riformulare il nodo in termini di rapporti fra forze sociali, ripartendo dalla provocazione di Sciortino citata in apertura di articolo.
Posto che il sistema politico della Cina Popolare non è privo di istituzioni che prevedono e promuovono la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica (900 milioni di persone partecipano alle elezioni di villaggio, alle quali si presentano candidati indipendenti e non i rappresentanti del partito, e nell’assemblea Nazionale del Popolo siedono rappresentanti di otto partiti non comunisti e delle minoranze etniche) è indubbio che l’apparato decisionale centrale è saldamente nella mani del PCC. Perché malgrado ciò ha senso affermare che la Cina è, se non il, sicuramente uno dei Paesi più democratici del mondo? La risposta è che i feroci metodi di selezione della classe dirigente fanno sì che ai vertici del potere accedano figure di alto profilo, impegnate – in continuità con la tradizione confuciana che regolava le istituzioni imperiali – a ottenere il consenso popolare più ampio possibile . Misura di tale consenso è il tasso di conflittualità messo in atto dalla popolazione (già le antiche rivolte contadine erano solite fare e disfare le dinastie). La conflittualità sociale in Cina, contrariamente a quanto sostengono i media occidentali, non è tanto sintomo di dissenso quanto un prezioso strumento di governance che consente allo stato-partito di adattare di volta in volta le proprie decisioni agli umori delle masse.
Se il modello cinese suona alieno per la nostra tradizione politico-culturale, il discorso cambia se guardiamo alle rivoluzioni bolivariane in America Latina, in particolare al Venezuela e alla Bolivia. Qui i governi socialisti sono nati da vittorie elettorali che hanno rispettato le regole “classiche” della democrazia borghese (checché ne dicano i media occidentali) e resistito a reiterati tentativi di golpe ispirati da Washington. Al tempo stesso sono state approvate riforme costituzionali che promuovono nuove istituzioni di democrazia diretta e partecipativa, in quanto le leadership rivoluzionarie sono consapevoli che la democrazia rappresentativa (per le ragioni illustrate in precedenza) non è un canale sufficiente e adeguato per dare voce alla spinta conflittuale che sale dal basso, rivendicando risposte e soluzioni per problemi che stato e governo hanno ignorato, o non sono riusciti a risolvere in modo soddisfacente.
Per dirla in poche parole: e se la democrazia non fosse questione di regole e procedure, e forse nemmeno di principi e valori, ma fosse soprattutto questione di riconoscimento e saggia amministrazione del conflitto in quanto espressione della volontà popolare?
Lascia un commento