Riccardo Giordano
Avanti.it
In un tempo come il nostro, dominato dal pensiero scientista e dalla tecnica; in un occidente sempre più schiacciato su un piano meramente orizzontale dell’esistenza e imprigionato nella dimensione dell’immanente, di ciò che può essere calcolato solo nei termini della “quantità” o con i freddi numeri dell’economia, persino la religione – potrà sembrare forse strano – si è snaturata, perdendo la sua funzione originaria: quella di gestire il rapporto dell’uomo con il sacro. E cioè col piano del trascendente e dell’invisibile, con tutto ciò che accade intorno al ristretto ambito della sola percezione sensibile.
Quando oggi si affrontano i temi della religione, lo si fa generalmente in riferimento a questioni politiche o sociali; tanto che oggi fra gli stessi sacerdoti vi è una larga maggioranza che, ridotta al rango di semplice assistente sociale o di consulente morale, è assai scettica rispetto a quei dogmi che pure professa ogni domenica.
La recente morte di papa Benedetto XVI ha riportato al centro dell’attenzione l’annosa questione del vero ruolo della Chiesa che, come ancora sostiene quella sparuta minoranza di tradizionalisti, dovrebbe essere invece il luogo dove l’uomo, assetato dell’ignoto, può attraverso il rito ricostruire il suo rapporto col mistero.
Ovviamente è più che legittimo guardare con sospetto a certe fantasie religiose e fanatismi dogmatici, che richiamano pagine oscure del nostro Medioevo; tuttavia non si può negare che solo nella dimensione verticale di ciò che trascende il piano umano è dato di trovare il senso della vera spiritualità. L’uso esclusivo della lingua latina nella recitazione della messa, ad esempio, aveva lo scopo non solo di creare una “comunione sottile” tra i fedeli di ogni tempo e latitudine, ma soprattutto faceva appello a un principio fondamentale: che cioè il rito deve parlare non alla mente cosciente di chi vi partecipa, ma piuttosto alla sua mente profonda, il cui linguaggio è dato dal simbolo e dal ritmo.
Nell’occasione di un’omelia pasquale del 2007, papa Benedetto XVI ebbe a dire che ogni agire umano, per quanto eroico, se non nasce da una profonda e intima comunione con Dio non ha reale efficacia.
Nell’insegnamento cattolico, tuttavia, all’uomo non è riconosciuta la capacità di iniziativa riguardo alla possibilità di una sua trasformazione interiore, di realizzare un contatto con Dio; ciò che invece può essere ottenuto solo mediante una grazia superiore, di cui l’uomo deve rendersi degno.
Al contrario, invece, nella tradizione greco-ortodossa (pensiamo all’esicasmo, o preghiera di Gesù nel cuore, definito anche come una sorta di yoga cristianizzato), attraverso una preghiera ritmica, la postura del corpo e il respiro associati, l’uomo può su sua iniziativa interiore cercare il contatto con Dio nel segreto della sua anima.
L’anelito verso il trascendente è quanto di più profondo e radicato, di ancestrale, ci sia nell’essere umano. E tutte le volte che si è provato a negarlo, politicamente o filosoficamente, esso è riaffiorato più potente di prima, a volte in maniera scomposta e irrazionale, in tutti i campi della vita. Pensiamo ad esempio alla reazione che ha fatto seguito all’illuminismo, al positivismo, in tutti i campi: dalla filosofia all’arte, come anche nella scienza, con l’affermarsi di nuove discipline che si spingono verso ciò che sta oltre i sensi, o che si lasciano ispirare dall’intuizione e dai miti sacri delle più antiche civiltà (al riguardo si può leggere l’opera Il mattino dei maghi, di J. Bergier e L. Pauwels).
Più si reprime nell’uomo il bisogno del sacro e più questo risorge potente, come se si spingesse qualcuno con la testa sott’acqua e questi, sentendosi vicino alla fine, con un impeto possente si liberasse dalla presa per tornare a respirare.
Non potrà sfuggire come, e proprio nella nostra civiltà dominata dal materialismo – che, come abbiamo visto, coinvolge anche l’ambito religioso – vi sia in realtà un grande rifiorire dei più strambi spiritualismi, per quanto comunque associati alla moderna logica dell’interesse economico.
La natura dialettica della nostra mente, sempre abituata a tutto tagliare e dividere, ci spinge a pensare allo spirito e la materia come due realtà contrapposte. In conseguenza di ciò, la materia diviene un qualcosa di morto, mentre lo spirito talmente lontano e astratto da risultare fumoso. In questa prospettiva, l’agire si riduce a una mera reazione meccanica, e la politica diventa un fatto strettamente pragmatico, come se si trattasse di dover trovare sistemi migliori per gestire un’attività o un’azienda. In tal modo è impossibile uscire dalla prigione transumanista, dalla gabbia dell’uomo ridotto a numero, a cosa biologica, la cui vita vale solo nello stretto orizzonte della sopravvivenza materiale. Un simile individuo, la cui sola prospettiva è il disbrigo dei piccoli e grandi affanni della quotidianità, è “un borghese piccolo piccolo”, incapace di una visione che gli permetta di respirare veramente, e sentire in sé tutta la dignità e la potenza che corrisponde alla parola “Uomo”.
La storia ci insegna, così come l’esperienza personale insegna all’individuo, che quando un popolo perde la capacità di sognare, di concepire il bello come ispirazione a varcare le colonne d’Ercole del già noto, si ammala e muore. La sua civiltà è come un albero secco che non produce più frutto, e avvizzisce su se stesso.
L’uomo deve oggi tornare padrone di un pensiero in grado di operare la sintesi tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. Solo un tale pensiero è capace di aprire spazi nuovi e restituire alla politica la sua dignità, che, come arte, la fa portatrice di una visione del mondo, dell’uomo e della vita. Solo in presenza di questa superiore visione sintetica, che vada a risvegliare ciò che di più profondo c’è nell’uomo, è possibile veramente cambiare il mondo intorno a sé.
Perché, se è vero come è stato detto che l’uomo è ciò che mangia, è pur vero che se l’uomo è pienamente cosciente di sé allora può scegliere cosa mangiare.
Tutto questo è l’esatto rovesciamento di quanto si diceva all’inizio: se infatti ci troviamo a vivere nel tempo in cui la spiritualità è degradata a politica, noi dobbiamo invece fare in modo che la politica ritorni spiritualità.
Come ha scritto lo storico delle religioni Walter Otto (Teofania, Adelphi Edizioni), l’esperienza del sacro ha una duplice valenza. Da una parte atterrisce, spaventa; dall’altra invece procura una gioia, un’esaltazione. È come affacciarsi sull’abisso dell’eterno e dell’infinito: l’uomo ne è attratto irresistibilmente, eppure avverte, ha il presentimento che il confronto con questa dimensione, che pure lo richiama profondamente, potrebbe distruggere la sua individualità. Pensiamo a quelle notti d’estate in cui ci siamo fermati a guardare un cielo stellato, e abbiamo avuto chiaro il sentore di una dimensione più profonda, eterna. La abbiamo sentita, non pensata, in quanto la mente non può pensarla, eppure l’abbiamo sentita in tutto il nostro essere, e questa percezione non ci risultava estranea, seppure non riuscivamo a comprenderla.
Questa è l’esperienza radicale dell’essere umano e della vita dell’uomo: l’intera sua vita si traduce in questo, nel rapporto con l’infinito e nel modo in cui noi ci comportiamo rispetto a questo rapporto.
C’è chi lo rifugge, ne ha paura, tenta di negarlo, ed è il materialismo. C’è chi invece si sente infinitamente piccolo al confronto, e vi si abbandona misticamente, come se questo “infinito” potesse essere una sorta di padre a cui la coscienza si abbandona, come un bimbo si abbandona al sonno.
Vi sono poi alcuni – ed è questo il senso delle grandi esperienze religiose legate ai culti misterici e ai riti di iniziazione – che davanti a questa esperienza cercano di conciliare i due opposti: l’individuo e l’infinito, e trovare una sintesi di questi due grandi contrari. Questo è il vero scopo dell’esperienza sacra, come ha intuito nei suoi studi sull’alchimia il grande psicologo Carl Gustav Jung. Noi “moderni” abbiamo un concetto distorto della spiritualità, che viviamo solo nei termini del lettino dello psicanalista o del confessionale del prete, e in entrambi i casi ci portiamo questa cosa come fosse un fardello, un qualcosa di patologico da affrontare e risolvere. Lo spirituale, invece, è quella dimensione di profondità (di cui alcuni avvertono la mancanza, quel senso di vaga e struggente nostalgia per qualcosa che, seppur familiare, tuttavia non riusciamo pienamente a ricordare) che amplia la percezione ordinaria del mondo e si apre quando, immergendoci consapevolmente nell’intensità dell’esperienza dei sensi fisici, portiamo l’attenzione sul riverbero interiore, sottile, che l’accompagna.
Abbiamo smarrito la chiave di una conoscenza antica che, attraverso il linguaggio complesso di miti e simboli, ha trasmesso all’uomo la possibilità di accedere a determinati atti e azioni interiori, determinate esperienze che possano condurre l’anima a riscoprire il collegamento con il divino – che è il senso, appunto, delle grandi cerimonie di passaggio.
Il rapporto dell’uomo con l’infinito; questo è il grande tema che l’uomo deve affrontare oggi, ed è la grande sfida che mette l’uomo nella condizione di riuscire a essere veramente e pienamente se stesso. Libero di trovare il senso profondo della sua esistenza, ciò che permetterà all’uomo di dare anche un senso al mondo e al suo stare nel mondo, che non sia un semplice far conti di aritmetica.
[in coperina: Ubaldo Oppi, Nudo disteso. La figlia di Jefte, 1925-27]
Andrea dice
Oggi abbiamo la religione olocaustica che si incarica di fornire la salvezza dal male, la divinizzazione del popolo dio – oltre che eletto da dio – che è stato immolato per la salvezza di tutti i popoli che accettano finitudine e colpa dell’uomo europeo. È finita così la guerra mondiale, con “dolcetto o scherzetto” dell’antifascismo come religione politica e una metafisica religiosa legata a delle baracche continuamente contraffatte, dove non si dovrebbe andare in pelliccia (Segre dixit), perché è un dio che pretende al sacro pur essendo molto, molto bizzarro. Sul problema dell’infinito, il ballo numerologico sulla cifra degli immolati può surrogare l’osservazione del cielo stellato.