Ieri il Parlamento europeo ha annunciato la chiusura dell’accordo sul cosiddetto European Chips Act, l’insieme di regolamenti e direttive attraverso la quale l’Europa vuole ergersi come nuovo leader mondiale nella produzione di chip e semi-conduttori, necessari per la tanto agognata e propagandata “rivoluzione green”, nell’ambito della quarta rivoluzione industriale.
Al di là degli annunci trionfalistici, l’UE ha raggiunto un accordo che – almeno in teoria – dovrebbe garantirle entro il 2030 la totale indipendenza sia dalla Cina sia dagli USA nell’approvvigionamento di chip di ultima generazione e semi-conduttori; un progetto che richiede investimenti pari a 43,8 miliardi di euro in meno di dieci anni. L’obiettivo a breve termine è – come annunciato ieri dal Commissario europeo per l’energia in conferenza stampa – quello di raddoppiare la produzione di chip che oggi si ferma al 10% del fabbisogno delle industrie europee. “Abbiamo bisogno di chip per alimentare le transizioni digitali e verdi o i sistemi sanitari”, ha dichiarato in un tweet la vicepresidente della Commissione Margrethe Vestager.
In effetti l’Europa è in balìa della produzione americana, per quanto riguarda i chip di ultima generazione nella cui produzione Intel è leader indiscussa; ma è anche fortemente dipendente dalla Cina e da Taiwan per l’approvvigionamento di chip e semi-conduttori più grandi. L’obiettivo della commissione europea è quello di rendere autonomo il Vecchio Continente dai due giganti dell’hi-tech, cercando di sottrarsi alle turbolenze causate dalla rivalità commerciale e geopolitica sino-americana che, negli ultimi anni, ha visto gli USA tentare di tagliare le esportazioni dei chip di ultima generazione verso la Cina, mentre quest’ultima sta già avviando investimenti per recuperare il divario con gli Stati Uniti. Il punto è il seguente: l’Europa sarà in grado di rendersi indipendente sia dagli USA sia dalla Cina? Secondo alcuni esperti, come Paul Triolo, esperto di Cina e tecnologia presso il Center for Strategic & International Studies con sede a Washington, per l’Europa è difficile e sarà molto dispendioso riuscire a raggiungere i livelli di produzione di chip necessari per la sua indipendenza. Ma non solo. Il Chips Act presenta un vulnus normativo che riguarda i chip e i semiconduttori di “vecchia generazione”, quelli di dimensioni più grandi – sempre parlando di unità che vanno dai 60 ai 100 nanometri – la cui produzione oggi è ad appannaggio della Cina e di Taiwan. Si tratta dei chip che si trovano nei sistemi frenanti delle automobili, negli smartphone, nei computer, nelle lavatrici e lavastoviglie, aspirapolveri e macchinari sanitari. Il Chips Act si occupa solo dei chip di ultima generazione che, nel futuro, diventeranno sempre più presenti ed importanti nella produzione industriale, ma non soppianteranno i chip “più grandi” che manterranno la loro importanza. I geni della Commissione europea evidentemente non hanno pensato a questo. Ma non hanno pensato nemmeno ad un altro snodo fondamentale: le terre rare ed i metalli preziosi. Infatti, per produrre chip e semiconduttori, è fondamentale possedere – o avere una fonte di approvvigionamento di – grandi quantità di metalli preziosi da terre rare. E queste risorse sono in gran parte in mano alla Cina o a paesi vicino ad essa. Cosa succede se la Cina dovesse vietare le esportazioni di metalli preziosi verso l’occidente, come sembra intenzionata a fare? Non c’è una risposta a questo quesito, perché manca proprio il quesito.
Al solito, l’UE sembra sempre una nave in mezzo ad una tempesta; e che si tratti di petrolio, che si tratti di chip o si tratti di vaccini, ogni decisione partorita a Bruxelles sembra avere un solo scopo: devastare il tessuto economico ed industriale europeo.
Lascia un commento