Davide Miccione
Avanti.it
Non tutti gli intellettuali si limitano ad assecondare il nostro declino fingendo di non vederlo. In questo senso, una delle interviste più interessanti dell’anno passato è stata quella al politologo francese Olivier Roy apparsa il 30 ottobre scorso su La lettura, inserto culturale domenicale del Corriere della Sera in occasione dell’uscita di un suo libro (L’aplatissement du monde per Editions du Seuil).
Roy esplicitamente sostiene di cogliere nel mondo contemporaneo la fase terminale di un processo che chiama “deculturalizzazione”, da lui vista come «una crisi a due livelli: crisi della cultura in senso antropologico e crisi della cultura alta». Se la crisi della cultura alta e in generale della cultura umanistica è ormai un’evidenza ed è stata segnalata già da qualche anno da altri studiosi (Nuccio Ordine, Enzo Di Nuoscio e Federico Bertoni in Italia, Martha Nussbaum all’estero eccetera), più interessante è l’idea di una crisi culturale in senso antropologico. In che senso, ci si potrebbe chiedere? È possibile immaginare un uomo senza alcuna cultura in senso lato? Per quanto rozza e inarticolata possa pur essere, ogni uomo esprime comunque una struttura di risposte e di prassi nel suo stare al mondo.
Per capire meglio cosa intende Roy, e ne vale la pena, bisogna seguirlo nel suo punto di attacco alla questione: la scomparsa dell’implicito. Qui bisognerebbe richiamare, non in un senso giuridico ma piuttosto profondamente antropologico, la differenza tra aspetti esplicitamente normati e aspetti impliciti nella nostra società. Per Roy dunque non c’è più un tessuto comune di precomprensione tacita su cui si possa costruire l’interazione sociale. Come se tutti fossimo diventati degli idioti sapienti in grado di conoscere le norme sociali ma solo faticosamente (come si conosce un programma di esame) senza saperle utilizzare con naturalezza né poterle identificare quando esse vengono utilizzate dagli altri. Tutto, ci dice Roy, di conseguenza «deve essere esplicito e tutto diventa normativo. Come quando si gioca a carte. (…) Di qui la codificazione e la normativizzazione crescenti delle relazioni umane. La tendenza è sotto gli occhi di tutti. Se si chiede a lavoratori con una certa anzianità di comparare il regolamento della propria istituzione di vent’anni fa con quello di oggi, si osserverà che le norme si sono moltiplicate per 3, per 6, per 10».
Ne ha fatto una buona illustrazione altrove, e qualche anno prima, Slavoj Žižek in un suo acuto libretto, Il segreto sessuale della chiesa, uscito per Mimesis. Scrive Žižek: «qualsiasi ordinamento (…) di esplicita normatività deve contare su una complessa rete di regole informali che ci dice in che modo rapportarci a norme esplicite; come dobbiamo applicarle; fino a che punto dobbiamo prenderle alla lettera; e come e quando siamo autorizzati, persino sollecitati, a ignorarle». Conoscere questo codice significa sapersi muovere in una cultura e non limitarsi a ingoiare il manuale delle sue norme esplicite.
Žižek continua facendo diversi esempi. Forse il più chiaro è il seguente: «se offendo qualcuno con una osservazione sgarbata, la cosa giusta da fare per me è porgergli le mie sincere scuse, e la cosa giusta da fare per l’altro è dire qualcosa tipo: “Grazie, lo apprezzo, ma non mi sono offeso, so che non l’hai fatto apposta, perciò non mi devi nessuna scusa”. Il punto, naturalmente, è che quantunque il risultato finale sia che non c’era bisogno di scusarsi, uno è comunque tenuto a farlo: “non mi devi nessuna scusa” può essere detto solo dopo che ho davvero chiesto scusa, cosicché, sebbene formalmente non sia successo nulla, e l’offerta di scusa sia stata dichiarata superflua, c’è un guadagno al termine del processo, e forse è stata salvata un’amicizia». Žižek non segnala in questo libretto (sono passati una quindicina di anni da allora) una specifica crisi dell’implicito ma la stessa quantità di pagine in cui ritiene di dover spiegare con molteplici esempi un processo che è, appunto, implicito ne segnala, che il pensatore sloveno ne sia consapevole o no, già la crisi.
Oggi Žižek scriverebbe probabilmente altro. Ad esempio, in quel libretto illustra la questione dell’importanza e pervasività del linguaggio implicito occupandosi del linguaggio intimo della passione e della sessualità con una frase (spero che la citazione non funga da delazione) che oggi lo spingerebbe in un sol colpo al di fuori del circuito delle persone che possono essere ascoltate e dentro il ghetto sociale del sessismo e forse anche dell’istigazione alla violenza. Scrive Žižek: «con molti dinieghi sessuali, la situazione è opposta: un “no” esplicito in realtà funge da implicita ingiunzione ad andare avanti, ma in modo discreto». Una frase gravissima per i parametri del politicamente corretto. Si pensi solo che nel programma per le elezioni italiane del 2022 di un partitino di sinistra un po’ snob, fatto perlopiù di brave persone con venature wokiste, si scrive che lo stupro si combatte «inserendo il principio per cui qualsiasi atto sessuale non consensuale sia punibile», il che appare come un’ovvietà, e prosegue con l’introduzione di un «obbligo formativo e informativo sul consenso» con «adeguati protocolli operativi da sottoscrivere con regioni e comuni» indicando l’esempio degli stati più avanzati come la Spagna.
Insomma, come sempre una esplicitazione burocratica come soluzione per tutto. Ma giacché il consenso esplicito avverrebbe in una “attività”, per così dire, che si svolge perlopiù in intimità tra sole due persone, la questione si sposterebbe di poco: come fare a dimostrare che lei o lui hanno dato il consenso? Possiamo supporre che si produrranno adeguati moduli di consenso informato (io Tizio, nel pieno delle mia facoltà mentali, affermo di voler scopare con Caia, escludendo però il sesso orale eccetera). Però in una situazione di violenza il foglio mi potrebbe venire strappato e in una situazione di ebbrezza alcolica potrei sottoscrivere ridacchiando ma senza capire. E allora? Accludere la foto di una prova etilometrica? Spedire la scansione del foglio ad un apposito ufficio comunale per il recepimento delle volontà sessuali? Oppure usare lo smartphone e registrare un videomessaggio? Ma se “il consenso” mi “passasse” dopo aver firmato il modulo? E se mi “venisse” dopo aver negato il consenso? Forse servirebbe un’assistente vocale (un’alexa specializzata) che discretamente registri tutte le variazioni della umana volontà man mano che esse si susseguono. Avvertendoci con un apposito cicalino, magari ogni tre minuti, e mandando subito in cloud il dato, lo smartphone recepirebbe ed ascolterebbe le nostre glosse al consenso: “sì, ho ancora voglia”, “no, mi è appena venuto il mal di testa”, “sì, ma non voglio cambiare posizione”.
Appare evidente, anche in questo caso, come un problema complesso e delicato come il rapporto tra sessi e il rapporto tra sessualità e società verrebbe trasformato nell’ennesimo ridicolissimo tentativo di normazione intima. Certo è che la sessualità appare sempre più come il letto di Procuste della contemporaneità in cui il malcapitato si “stende”. Egli godrà di una società dove l’accesso diffusissimo al porno gli farà esperire in imago accoppiamenti multipli ancora prima di aver dato il suo primo casto bacio consegnandogli telematicamente accesso ad ogni eccesso visivo mentre gli verrà però spiegato che la seduzione, in quanto forma dell’implicito e dello sfumato, è luogo periglioso e da evitare. Una situazione da età “pornovittoriana” pronta a rendere il nostro eroe e la nostra eroina oggetto di una enorme pressione schizoide.
Se la direzione sociale è questa, come vedete, né Huxley, né Orwell né Dick sono in grado di starle dietro. Manca loro il passo grottesco per descrivere tutto questo, manca lo sguardo assorto e incantato sulla idiozia umana. Forse una commedia fantascientifica di qualche anno fa (Idiocracy, un film del 2006 di Mike Judge) che parte dall’idea, con conseguenze comiche, dell’estinzione dell’intelligenza sulla terra, potrebbe meglio guidarci.
Sembra evidente come la crisi dell’implicito non sia crisi morale o concettuale bensì più radicalmente e spaventosamente crisi sociale, cognitiva e persino antropologica. Se sono saltate le capacità di leggere i messaggi propri e altrui di apertura alla passione amorosa, l’uomo e la donna accedono ad una dimensione di dipendenza che non hanno mai raggiunto prima, non possono stare più da soli, non possono produrre relazione e tanto meno comunità, hanno bisogno di un terzo (umano, simbolico o elettronico che sia). Hanno perenne bisogno di una struttura formale e burocratica che li assista in ogni momento della loro vita. Infatti, una società che non sa distinguere la molestia dal desiderio come potrebbe distinguere lo scherzo dall’offesa, la zuffa adolescenziale dalla violenza, il dolore di chi ci sta accanto dalle pose, i bisogni di un figlio dalla loro recita?
Persa questa dimensione che tutti gli animali conoscono in sommo grado e che noi stiamo rapidamente smarrendo, dovremo farci simbionti (esseri perennemente in contatto con intelligenze artificiali) non per transumanarci ma per sopravvivere, non per diventare come dei, ma per non ammazzarci da soli o tra noi. È ormai evidente: l’anima vibrante del transumanismo è il subumanismo.
A questo punto forse la posizione di Roy sembrerà più comprensibile: «l’implicito scompare. Nella comunicazione della società tutto deve essere esplicito. Ci si aspetta che tutto sia univoco, che ciò che si dice abbia un solo senso immediatamente comprensibile. (…) si diffida sempre più delle battute. Si può fare una battuta ma deve essere politicamente corretta e poi deve essere immediatamente percepita come uno scherzo. Quindi dobbiamo precisare: sto per fare una battuta, ora la battuta è finita».
In questo appiattimento (che sembra nondimeno anche rimbecillimento) tutto cospira per demolire la cultura come risposta ai problemi della relazione umana. La spada di Damocle delle cause di risarcimento è già il segnale di una morte dell’implicito condiviso. Il fatto che l’innesco sia spesso un implicito rimosso in malafede dai legulei (“l’azienda produttrice non ha scritto esplicitamente che non potevo mettere il naso nel frullatore dunque ho diritto a un risarcimento!”) segnala, comunque, nella cultura sociale a cui i tribunali non sono estranei, la disponibilità a eliminare l’implicito. Questa eliminazione, con orribile retroazione, aumenta la produzione di una normatività “esplicatoria” a fini di tutela del produttore o dell’utente. Dunque, a scanso di equivoci e processi, la “soluzione” sarà scrivere nella confezione e nel foglio illustrativo: “è vietato inserire parti del proprio corpo nel frullatore” in attesa di scoprire che vi era ancora dell’implicito e provare a normare anche quello.
Cosa alimenti la nascente l’idiocrazia subumanista, la dittatura dell’esplicito, è tema da dragare. Roy fa notare ad esempio, ed anche questa annotazione apre ad alcune riflessioni molto interessanti, come l’incontro umano sempre più si svolga in lingua inglese, lingua non particolarmente adatta a sfumature e sottintesi (ma aggiungiamo noi, soprattutto agita da parlanti non madrelingua e quindi non edotti alle sue sfumature).
Ma a meno di non essere già stati contagiati dal morbo idiocratico non si può fare finta di ignorare che ogni anno che passa muoiono uomini formati da altri uomini e diventano adulti individui che sono stati formati alla vita e all’interazione umana da realtà artificiali e non da altri esseri umani, che hanno fissato uno schermo ben più di quanto abbiano guardato il volto di un altro, che hanno mosso il proprio avatar in un videogame più di quanto abbiano mosso il proprio corpo. Quale livello di malafede o di integrazione al sistema o di stupidità si deve raggiungere per pensare che un cambiamento simile non produca nulla di radicalmente diverso e forse mostruoso?
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