Umberto Rocca
Avanti.it
Sebbene poco apprezzata dagli autoctoni, la Milano gastronomica è riuscita a integrare come poche altre grandi città la tradizione culinaria del posto con i due aspetti che contraddistinguono la città della Madunina: la vocazione internazionale e l’anima glamour. Per orientarci nel ricco caleidoscopio del gusto offerto dalla Milano da assaggiare abbiamo deciso di individuare tre categorie: i locali alla moda – cosiddetti glam restaurant, le buone trattorie di un tempo tra innovazione e tradizione, fino ad arrivare al classico lurido di strada.
Da quando vent’anni fa è scoppiato il boom della fusion cuisine e la cucina giapponese, l’offerta della ristorazione meneghina si è allargata a tutti i sapori, e oggigiorno offre una gamma completa di cucine internazionali ed etniche, di ogni genere possibile, come in tutte le maggiori capitali mondiali.
Ma Milano è anche la capitale mondiale della moda, e solo qui la ristorazione si è evoluta in fashion food coinvolgendo i marchi della moda Made in Italy, come Trussardi alla Scala, Nobu/Armani, Dolce&Gabbana, Prada, Bulgari e via dicendo. Dining restaurant, cocktail bar, club privé, cucina d’autore e locali di grido sono i vari aspetti della ristorazione glam. Dove molto spesso il cibo passa in secondo piano. Prezzi stellari, servizio esclusivo per i clienti vip della movida d’alto bordo, locali che hanno spesso una doppia funzione speculare, per chi li frequenta semplicemente per cenare, o per chi poi vuole proseguire la serata accedendo al privé. In questi templi della gastronomia glamour meneghina il cibo non è l’unica cosa ad attirare il pubblico: molto spesso funziona più la formula di un locale – la location, l’assetto delle sale, la discrezione del personale – che la sua offerta gastronomica.
Mi spiego meglio: devi avere dei bagni che consentano un po’ di privacy, un locale glam ma non da strada, in quanto deve darti l’idea che sia un posto a porte chiuse, non accessibile a tutti, offrendo una certa esclusività. I motivi sono tanti, ma quello reale è soltanto uno: la polverina magica. L’uso della cocaina infatti in queste strutture non è certo un tabù, e spesso e volentieri è tacitamente accettato e tollerato dai gestori. Non che questi guadagnino alcunché dallo spaccio di coca, ma lo tollerano e ne approfittano perché la libera circolazione di polvere è tra le principali attrazioni dei loro locali. Per questo particolare attenzione viene fatta in questi locali proprio all’arredamento del bagno, vero punto caldo dei locali glamour, con il suo viavai costante di clienti in cerca di privacy e di superfici piane per le loro carte di credito. Non c’è glam senza coca, evidentemente unico mezzo per togliersi le ultime inibizioni e far serata come si deve, estroversi e sempre sul pezzo – pena dover andare al bagno ogni venti minuti, e il fatto che ancora la si vada a sniffare al cesso è lo strascico residuale di un proibizionismo puramente formale, la cui applicazione concreta sarebbe come voler fermare il mare con una mano.
Lo spot dell’amaro Ramazzotti che battezzò la Milano degli anni Ottanta la contava giusta, ma non tutta. Al celebre “Milano da vivere, da sognare, da godere. Questa Milano… da bere” mancava un tassello fondamentale “…da sniffare”. La polvere bianca, che ormai da lustri ha sostituito le copiose nevicate milanesi, è più facile da trovare che un parcheggio in città, incontrarla a ogni angolo di strada è una certezza assoluta, come cercare paglia in un pagliaio o, per farla più meneghina, come schiacciare una merda di cane al parco Sempione. La cocaina è diventata endemica in tutti quegli ambienti della Milano glamour o aspirante tale: calciatori, veline, indossatrici, attori, agenti di spettacolo, e giovani provenienti da tutta Italia smaniosi di entrare nel giro giusto. La Milano “da vivere, da sognare, da godere” pullula soprattutto dalla manodopera a buon mercato della movida notturna, scalpitante e ansiosa di prendere posto nel luminoso e ammiccante privé della vita, quello occupato dalle star del cinema e della tivvù, dalle ereditiere e i playboy, i pochissimi che, quasi sempre per schiatta e mai per merito, ce l’hanno fatta. All’esuberante vita, intensa ad ogni costo, di tutte queste Andromeda serve spazio e perché no… un colpo ogni tanto, mentre sgomitano per un primo piano, un’inquadratura, una mezza colonna di un rotocalco. Una cosa però è cambiata rispetto alla Milano da bere degli anni Ottanta: oggi pippano tutti. Operai, impiegati, commesse, rider, gente semplice e di buona famiglia che non vuol sentirsi da meno dei propri coetanei inseguiti dai paparazzi. Della vecchia cultura trasgressiva a cavallo della quale le droghe fecero il loro trionfale ingresso in Occidente, non rimane più niente: non serve più farneticare di “viaggi” o dilatazioni della coscienza, sniffare è un consumo di massa come l’alcol, come il porno, come qualunque cosa che si possa comperare. Tutto in nome del “fare serata”, un vero e proprio codice comportamentale definito negli ingredienti – alcool, droga e sesso a gogò.
Nessun moralismo, per intenderci, solo il dato di fatto incontrovertibile che non c’è glamour senza bamba: la cocaina è la normalità nel mondo dei locali della movida. La sua diffusione capillare in ogni categoria sociale l’ha resa la regina indiscussa dell’industria del divertimento di massa. E chi voglia aprire un locale in città non può che adeguarsi allo status quo. Perché lo spazio vitale di questo totalitarismo psicotropo sono proprio i locali notturni.
Ma Milano non è solo glamour: ci sono i ristoranti che hanno fatto la storia della città, dove il cibo era ancora il motivo primario per ritrovarsi seduti intorno ai tavoli di un ristorante. Si tratta dei templi della gastronomia meneghina, risalenti alla fine dell’Ottocento. Per citare i più blasonati, c’è il Giannino in via Vittor Pisani, e poi all’interno della Galleria Vittorio Emanuele, nel cuore pulsante della città, il Biffi e il Savini. Frequentati da musicisti, letterari e artisti, come Hemingway e Toscanini, erano locali all’avanguardia negli anni della Belle Époque, dove una cucina sobria proponeva le ricette tradizionali, dal risotto alla milanese ai tortelli in brodo, piatti freddi e minestre, lessi, arrosti, composte e paste, mentre nelle carte dei vini iniziava ad apparire in bella vista lo champagne, all’epoca non ancora popolare.
Si dice che la storia di un popolo e di una città passi per la tavola, e così la Milano dei primi del Novecento, dove compariva la prima auto a due posti in Italia e la prima macchina del caffè espresso, era la città delle osterie storiche, che fino a qualche decennio fa ancora venivano chiamate “Trani”, per via del vino che proveniva dalla bella città pugliese e serviva da taglio al vino prodotto al nord per dargli maggiore robustezza alcolica. Trani è per il vecchio milanese sinonimo di bettola, osteria, cantina, dove l’oste sfoggiava con nonchalance il suo savoir-faire popolare, cantando il menu a voce alta – rigorosamente del giorno, pochi piatti e vino della casa. Nel secondo dopoguerra fu proprio grazie ai Trani – frequentati da pittori, poeti, scrittori, cantanti e cabarettisti – che poterono affermarsi personaggi come Enzo Jannacci, Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Nanni Svampa, i Gufi e tutti gli altri grandi maestri della risata amara e surreale Made in Milàn. Tra le nebbie dei Navigli si poteva trovare la Briosca, un locale che risaliva al Seicento, la Rampina nata nel Cinquecento, la trattoria Arlati e la trattoria della Pesa, solo per nominarne qualcuna. E come non ricordare Al Punt de Ferr, storico ristorante sui Navigli? Di tutto questo oggi non rimane che qualche residuo sul Naviglio della Martesana, dove ancora esistono osterie non soppiantate dagli esclusivi e costosissimi privé: qui dopo il desinare ancora si può accedere al campo ondulato delle bocce “alla milanese” coi leggeri rialzi che rendono più difficile il gioco, dato che la boccia può retrocedere o acquistare maggior spinta. Tuttavia le osterie milanesi non sono morte: esistono realtà molto apprezzate che, pur mantenendo le caratteristiche della trattoria nell’offerta di cucina classica, hanno un taglio moderno della cucina tradizionale, attualizzata e funzionale. Il fenomeno della trattoria, locanda, bettola o Trani e ancora il punto d’incontro per le nuove generazioni, rinnovando il piacere di un menu del giorno per tutti.
Per concludere le scorribande notturne, alle prime luci dell’alba, che tu sia uscito da una catacomba, un privé o una trattoria con annessa bocciofila, dopo gli eccessi e le bisbocce e l’abuso dell’immancabile bonarda sfuso, è obbligatoria la fermata a un chiosco, “il lurido” come lo chiamano i più aficionados. A Milano (dati del comune) ci sono oggi ottantuno chioschi adibiti alla vendita e somministrazione di cibi e bevande: trattasi di un vero e proprio cult delle notti bianche milanesi e punteggiano tutta la città da un secolo. Alcuni di questi sono diventati delle istituzioni, sia di giorno che di notte, e le proposte sono parecchie. Non sono semplici chioschi o paninari, non sono ristoranti, i luridi a Milano non sono una moda: sono una certezza. Un punto fermo per tutte le orde di famelici balordi arrivati lunghi alle prime luci dell’alba, scortati perennemente dalla fame chimica, che ciondolano in estasi mistica davanti alle vetrine di panini farciti di ogni bene, che poi addenteranno come l’ultimo pasto della propria vita in piedi, appoggiati, seduti o addirittura sdraiati, in religioso silenzio per un rituale mattutino. Le proposte nel girone infernale del “panino giusto” sono tante; le più iconiche, in ordine sparso, sono: il chiosco davanti al tribunale Al Boschetto da Gabry, dove preparano un’ottima salsiccia e friarielli; i meravigliosi panini alla piastra del Chiosco Maradona; Da Poldo ai Bastioni di Porta Nuova; Le luride di Valeria e Brunella, la cui specialità è il Completo, un piatto misto di affettati, sottaceti e salamelle da resuscitare i morti; e poi Il Kiosko di Porta Ticinese che fa verdure grigliate e zucchine a scapece da uscir fuori di testa e tutti gli altri che per mere ragioni di spazio non nominiamo. Certezza assoluta: qualunque sia il tuo stato sociale, tasso alcolico e livello in stallo d’abbiocco tu stia smaltendo, quel panino mangiato in piedi, unto e straunto e farcito di ogni genere di cose, sarà probabilmente una delle cose più gustose mangiate in quella serata. Comunque tu abbia passato la serata, sgomitando e pippando tra i vip veri o aspiranti, che ti sia unito al codazzo della movida omologata e conformista o abbia fatto l’alternativo appresso alle bocciofile e le trattorie di un tempo, sempre là ti ritroverai, dal lurido, dove il mondo notturno nelle sue discrepanze sociali può finalmente rilassarsi – o perdere letteralmente conoscenza… – nel ritrovato egualitarismo del paninazzo unto e bisunto. Salse e condimenti a parte: è qui che si concludono le nocc bianc della Milano che vive.
Ricciardo dice
Umberto, nella dettagliata descrizione dei menu offerti dai liberi chioschetti della città, prendo atto da che parte stai, e me ne compiaccio. Grazie e alegher!