Davide Miccione
Avanti.it
Non è semplice non farsi domande, non cogliere incoerenze e omissioni del discorso pubblico, non confrontare ciò che ti veniva detto ieri con ciò che ti viene detto oggi. Insomma, non pensare non è facile. Necessita di un certo allenamento, della costruzione di un habitus. E bisogna pensarci per tempo ad ottundersi, non puoi coltivare una coscienza sveglia e poi pretendere di colpo di non capire un tubo. Certo, puoi raccontartela, puoi mentire a te stesso, ma mai riuscirai a provare la pace dell’inconsapevolezza, di chi raggiunge una vera incapacità di capire.
Ma quando si è in tanti a non capire la questione abbisogna di una comprensione più generale. Non basta la pur rimarchevole forza di “noluntà” del soggetto a spiegare un tale gran numero di individui. È necessario allora precisare quale fitness cognitivo discensivo serva, quali idee ritornanti assicurino prestazioni cognitive adatte, ad esempio, a coprire uno sviluppo economico e sociale occidentale sciancato e ritorto che si riesce a far finta tra noi che sia dritto. È necessario individuare le tecniche per ridurre lo spazio della pensabilità di ognuno, cioè per far sì che ognuno pensi solo a partire da una struttura data ben definita e solo all’interno di essa eserciti residua vigilanza di pensiero.
Restringere il campo di pensabilità significa, per chi ci è riuscito, riflettere su come migliorare il gioco ma mai se il gioco sia un bene o un male; significa lavorare a una migliore applicabilità delle regole ma non pensare se le regole possono cambiare o se sono o meno necessarie, significa muoversi in un campo dato non accorgendosi neppure più che esistano, i limiti di quel campo.
Lavorare a un restringimento del campo di pensabilità in un epoca di ricchezza, di iperinformazione, di disponibilità culturale (un umanista quattrocentesco avrebbe ucciso per avere accesso a un quarto di quello a cui chiunque di noi può avere accesso con estrema facilità e quasi gratuitamente), di formale alfabetizzazione totale della popolazione non è facile. Potremmo persino sostenere che non basti l’intelligenza per toglierla agli altri ma serva persino del genio. Solo un genio può consapevolmente formare un cretino.
Bisogna trovare dei metodi e delle concezioni che restringano il campo della pensabilità e più che frenare il desiderio per certi versi naturale di conoscenza, lo indirizzino, lo canalizzino all’interno di un preciso spazio, dunque la costruzione di quel che potremmo definire il range della pensabilità (da qualche tempo va di moda su temi simili citare la finestra di Overton) e soprattutto lavorare a renderne invisibili i limiti.
La costruzione dell’ecologia mentale della riduzione di pensabilità è dunque complessa e piena di sfumature che vale la pena andare ad analizzare da presso e separatamente. Il primo tema che viene alla mente è proprio la cultura della applicabilità. Cioè il semplice uso in vari ambiti di qualcosa già esistente e che non va indagato. Tutti cercano qualcosa da applicare: ricette, protocolli, modelli, format. La richiesta è spasmodica e imperiosa. Si provi in un contesto d’insegnamento a fare un giro pedagogico diverso che pretenda di analizzare il modello, valutarlo e finanche mutarlo e vi troverete travolti dalle proteste. Una cultura pragmatica di basso conio vede come una perdita di tempo qualsiasi movimento retrogrado che pretenda di non procedere velocemente verso la mera applicazione ma torni indietro a capirne e valutarne la genesi e la necessità. È l’effetto che conta, il finale, la soluzione; perché mai andare all’indietro? A che servirebbe? La mente contemporanea inizia così a odiare i discorsi che cerchino di educare a una finezza interpretativa, un abito e non semplicemente a favorire l’applicazione.
A quel punto anche ciò che per sua natura dovrebbe mostrare un’eccedenza rispetto al barbaro soluzionismo, come la letteratura ad esempio, sembra disturbare se non si piega in qualche modo alla soluzione e all’applicabilità. La facilità con cui giovani iscritti in lettere ripetono giulivi le forme retoriche diligentemente studiate a scuola o le griglie di analisi di sonetti (evviva, si applica la griglia!) e ti confessano però di leggere abitualmente pochissimo se non nulla, convince dell’avvento del transumano ben più di un chip sottopelle. Il passaggio storico dall’uomo delle risposte all’uomo delle domande e dell’esplorazione e dall’uomo delle domande all’uomo delle applicazioni (l’ultimo uomo di cui parlava Nietzsche?) è compiuto.
L’uomo delle applicazioni vede il movimento di risalita alle cause e al senso dell’insieme e alla valutazione sulla necessità delle cose come un lusso che non può permettersi, qualcosa che rallenta. In questo senso egli è perfettamente sintonico con “l’uomo delle emergenza” prodotto dai media, per cui ogni cosa ci minaccia e va rapidamente rintuzzata, anche “l’emergenza caldo” e “l’emergenza freddo” (della cui presenza dovremmo da parecchie decine di migliaia di anni essere edotti) che mal si presta ad essere considerato un evento insolito come lo stesso concetto d’emergenza pretenderebbe. L’emergenza accelera la soluzione, l’assegnazione di fondi, la conclusione degli appalti, le nomine rapide. Tutto si applica, poco si giustifica, su niente si riflette. Ma il fattivo uomo dell’emergenza, per dominare, ha bisogno della solidarietà del grande numero degli uomini dell’applicazione.
Non la differenza tra scienza e umanesimo (le vecchie due culture) ma quella tra teoria e applicazione ci aiuta a orientarci. La mente di un fisico teorico dista da un ingegnere più di quanto non disti da quella di un filosofo. Difficile per l’applicatore capire ed essere solidale o complice con chi problematizza quando l’attesa sociale nei suoi confronti è quella che lui risolva il problema e ne spieghi la ricetta.
L’applicazione diventa così il luogo della ripetibilità del modello e abitua a pensare la ripetizione più di quanto non porti a pensare l’irripetibilità. Ma se siamo abituati alla ripetizione e alla previsione che solo la ripetizione può assicurare quanto è ormai pensabile l’individuo in quanto individuo? Siamo pensabili in quanto diversi e irripetibili? La mente di un “applicatore soluzionista”, cioè di qualsiasi tecnocrate mascherato da politico può reggere l’idea di considerare gli uomini come individui diversi? E qualora lo pensasse, a cosa gli servirebbe?
Sbarrato l’accesso alla riflessione sull’irripetibile e l’individuo, si può edificare solo una cultura del fare che elimini la riflessione sul non fare, sul contemplare, sul problematizzare, sull’essere. Si pensi solo all’apoteosi recente nelle figure politiche che più hanno lavorato sul proprio personaggio in questi trent’anni, cioè Berlusconi e Renzi (ma il discorso potrebbe risalire ai prodromi craxiani), e si troverà una incredibile centratura del loro discorso pubblico sul “fare” e sulla relativa caratterizzazione antropologica come “uomini del fare”. Centrare il discorso sul fare significa già non riflettere più sul “poter non fare”, scompare dalla nostra percezione di cosa possa essere un’azione il limare, l’adattare, l’alleggerire, l’armonizzare e infine anche il “manutenere”. L’idea che la manutenzione significhi non aver fatto nulla potrebbe spiegare una buona parte delle disgrazie italiane: avete mai sentito un politico lanciare un grande piano di manutenzione o vantarsi come successo di questo? Insomma, il campo di oscillazione della pensabilità e quindi di ciò che si riesce a vedere si assesta lì. La coazione all’azione, una delle migliori armi contro il pensiero, si asside sul suo trono.
Del resto, scrive giustamente Zhok, «il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, mentre tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema» (Andrea Zhok, Lo stato di emergenza, Meltemi 2022)
L’uomo contemporaneo inizia così a stagliarsi in tutta la sua energumenica figura: un applicatore, un devoto del fare. Ma la devozione al fare e l’applicazione di prefabbricati del pensiero come modalità privilegiata del fare portano anche ad una progressiva scomparsa degli stessi strumenti del pensiero, la cui moltiplicazione e il necessario impadronimento di nuove prospettive cadono sotto la medesima tagliola del soluzionismo. Una visione del mondo a tunnel, monoculturale. Chi vuole avere un esempio del processo paragoni la psicoanalisi novecentesca alle terapie brevi di oggi o alla PNL e potrà scorgere la tipologia della intera parabola in corso e il tipo di richieste che l’uomo contemporaneo fa oggi alla cultura.
Quando Maria Zambrano scriveva della raffinatezza e completezza del Sapere dell’anima contenuto nella grande teologia, nella mistica, nella poesia e ne temeva l’estinzione nel generale processo di disincanto novecentesco non le si può che dare ragione ma non bisognerebbe dimenticare che il cibo dell’anima per le masse non era Giovanni della Croce o Pascal o Agostino o la pratica della direzione spirituale bensì catechismi fatti a domande e risposte, che era perlopiù anche la forma dell’esperienza della Confessione. La tendenza della massa non subiva però una potenza di fuoco come quella contemporanea e bastava poco per tirarsene fuori.
Ovviamente la tendenza degli esseri umani a dotarsi di una griglia di azione e limitarsi ad applicarla è connaturata alla specie, alla sua tendenza a sottrarsi all’insicurezza della scelta. Ma la grandezza e complessità delle passate griglie di applicazione, pur non eliminando il peccato originale della applicazione, costringevano in qualche modo a degli sforzi intellettuali in grado di innescare movimenti retrogradi di riflessione. Insomma applicare la psicanalisi o il marxismo come griglia non è la stessa cosa che applicare il didattichese delle competenze. Nel primo caso, una certa complessità, una qualche forma di articolazione concettuale si raggiunge come effetto collaterale persino nella costruzione dell’uomo applicans.
Paradossalmente: più il soggetto deve faticare per impadronirsi della griglia, più trova la griglia collocata in un discorso di contrapposizioni e difese rispetto ad altri modelli (la difesa è sempre da qualcosa, quindi apre all’alterità. Devo studiare e capire quel qualcosa) più c’è speranza nella sopravvivenza, almeno laterale e secondaria di un pensiero nel soggetto applicante. Meno la griglia è modellizzata, meno è ridotta all’essenziale per la sua applicabilità, insomma meno è efficiente, più lascia la speranza di non eliminare la capacità di pensare. Conoscere poco e pensare che quel poco sia già funzionante invece significa poter simulare che intorno a sé la realtà non sia complessa. Il passaggio è naturale, accontentarsi della versione che ne danno i media integrati alla dorsale del potere ne è la più facile conseguenza.
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