L’Arabia Saudita è ormai una scheggia impazzita nello scacchiere internazionale, almeno secondo gli standard geopolitici occidentali ai quali siamo abituati da oltre un trentennio.
La monarchia saudita guidata dal principe ereditario Mohammed bin Salman, vero deus ex machina della politica del regno, ha ormai indossato i panni del pivot, per usare una terminologia cestistica, delle relazioni diplomatiche nell’area del Golfo Persico e di tutto il Medio Oriente. Dopo l’incontro e la (quasi) pace stabilita con l’Iran, sotto il patrocinio della Cina, che ha permesso una drastica frenata della sanguinosissima guerra in Yemen e un riavvicinamento con la Siria dopo 11 anni dalle interruzione dei rapporti politici e diplomatici. Ma la “missione” diplomatica saudita non si ferma soltanto alla sua area geografica di pertinenza. Lunedì scorso, infatti, è giunto a Jeddah il presidente egiziano Al-Sisi, un incontro importante soprattutto per il generale alla guida dell’Egitto dal 2014. L’Egitto infatti sta attraversando un periodo di forti turbolenze economiche e sociali e vede nell’Arabia Saudita – già secondo maggiore investitore nel paese che si affaccia sul Mediterraneo – un partner affidabile e in grado di poter aiutare e sostenere le sorti economiche degli egiziani. La visita di Al-Sisi conclude un ciclo di incontri ai massimi livelli tra i due paesi, con l’Arabia Saudita che ha deciso – dopo l’incontro dei suoi due ministri delle finanze – di rafforzare gli investimenti in Egitto che ad oggi ammontano a più di 6,8 miliardi di dollari in migliaia di progetti in infrastrutture e sviluppo industriale. E, a proposito di Siria, dopo l’incontro la Reuters ha confermato l’indiscrezione secondo la quale a maggio Assad sarà invitato all’incontro dei capi di stato della Lega Araba che si terrà nella capitale saudita; invito che pare essere arrivato direttamente dal principe Mohammed bin Salman.
Intanto procede il processo di dedollarizzazione anche da parte saudita – che già ha accettato di effettuare scambi commerciali in yuan (moneta cinese) e non più soltanto in dollari – che comporta anche un forte avvicinamento commerciale e finanziario con Pechino. È notizia di questa settimana che la compagnia petrolifera statale dell’Arabia Saudita, Aramco, sta rafforzando ulteriormente le sue relazioni con il mercato cinese. L’ultimo accordo di Aramco è l’acquisizione del 10% della società di raffinazione del petrolio Rongsheng Petrochemical Co. per 3,6 miliardi di dollari. Questo accordo è stato annunciato il giorno dopo che Aramco ha confermato una nuova impresa con altre due compagnie petrolifere cinesi per costruire una raffineria nel nord-est del Paese. E secondo alcuni analisti, questo potrebbe comportare l’apertura di una filiale cinese della Aramco e il conseguente sbarco presso la borsa di Hong Kong.
L’Arabia Saudita pare ormai fuori dal controllo statunitense e le sue iniziative ormai preoccupano pesantemente Washington, soprattutto allarmata per la perdita di forza e valore che il dollaro sarà costretto a subire. E ormai sembra tardi per applicare il solito schema dell’esportazione della democrazia pure nel regno saudita.
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