Davide Miccione
Avanti.it
Chi è cresciuto alla ragione tra gli anni Ottanta e i Novanta, chi abbia letto i suoi primi giornali, fatto le sue prime conversazioni politiche con amici, vergato la sua prima croce nelle cabine elettorali proprio in quel torno di tempo, ricorderà quella musica di fanfare in sottofondo che cantava le meraviglie della libertà, della società liberale, del san Giorgio della liberaldemocrazia che proprio allora sembrava aver calcato con forza la suola, in posa plastica da trionfatore, sul corpaccione ormai esanime di ogni autoritarismo, fideismo, comunismo e fascismo. Che ad assicurarcelo fosse poi un tizio docente in America, ma dal cognome indubitabilmente nipponico e attraverso movenze teoriche da filosofo continentale (mi riferisco ovviamente a Francis Fukuyama) ci confermava “trilateralmente” che la battaglia era vinta urbi et orbi. Questa vittoria era senza ombre e necessitava solo di ulteriori miglioramenti. Nessun elemento di rilievo era posto a rischio in questa marcia trionfale. Si sarebbe avuto più libertà ma anche più diritti, più soldi, più possibilità.
Sfogliando un giornale di sinistra della prima metà degli anni Novanta si coglieva ininterrottamente la necessità della sinistra di modernizzarsi aprendosi alle ragioni del mercato in economia e dei diritti individuali nella società e di come il mercato aprisse ai diritti e i diritti abbisognassero del mercato, che più capitalismo e più libertà fosse insomma una connessione ovvia. Sfogliando un giornale liberalconservatore (il Giornale di Indro Montanelli era in questo esemplare) si srotolava innanzi a noi una lunga omogenea teoria di politici da Cavour a De Gasperi, da Einaudi a Reagan, quali diverse incarnazioni di un medesimo progetto che solo minimamente cedeva allo spirito del tempo quasi impersonando un “liberalismo eterno” (per parafrasare un non del tutto felice concetto echiano) in cui benessere e libertà, governabilità e democrazia, economia e società avevano smesso ogni attrito reciproco e crescevano simultaneamente.
Qualche nota stonata arrivava solo da chi aveva deciso di restare indietro in questa marcia trionfale: coloro, per restare in Italia, che non avevano accettato la rapida mutazione (adeguamento) del PCI o quella di poco successiva del MSI e delle loro aree culturali di riferimento e a cui comunque era già stata assegnata, ne fossero consapevoli o meno, la parte in copione dell’ultimo giapponese, dell’attardato, del residuale a cui volgere quello sguardo imbarazzato e perfino compassionevole che si rivolge a un parente anziano non più in grado di orientarsi nel presente. Costoro erano talmente “perdenti” da risultare persino simpatici nel loro non rendersi conto che il gioco era finito. Una mozione di minoranza che dimostrava, nella sua scarsa rilevanza numerica e mediatica, l’immancabilità dei destini della maggioranza e perciò con la sua stessa esistenza confermava la (falsa) polifonia del grande romanzo della libertà. Il desiderio “di essere come tutti” e partecipare a questo momento apicale era talmente sentito da portare gli italiani perfino a convincersi (la prima di una considerevole serie di autoipnosi) che la costruzione del finora mancante “grande partito liberale di massa” potesse essere opera di un spudorato monopolista come Berlusconi.
A distanza di trent’anni da quella stagione questo nesso così pacifico e aproblematico tra il capitalismo e il liberalismo sembra del tutto scomparso, o meglio, ad essere del tutto scomparsa sembra la cultura liberale, relegata in una posizione esornativa ed epifenomenica rispetto ad un capitalismo mutaforma e ogm, in grado di perdere o acquistare vorticosamente funzioni restando se medesimo: di essere produttore di merci o smaterializzato, liberomercatista sfegatato o monopolista in perenne costruzione di “cartelli” a seconda di quello che può farlo ulteriormente arricchire.
Il futuro sembra passare ormai da enormi conglomerati digitali, la cui clientela si conta in miliardi, entro cui si veicolano le informazioni e dove la forma pura tipica dell’Homo oeconomicus nella sua declinazione attiva, cioè l’imprenditore, sembra obsoleta tanto quanto quella dell’operaio. Al massimo possiamo essere dei “sub-imprenditori” aprendo il nostro negozietto o la nostra piccola agenzia di informazione all’interno del mega-portale del grande magnaccia digitale sentendocene protetti, pagando la protezione per ogni affare che facciamo, non violandone le regole (ormai prioritarie rispetto a quelle della legge), avendo difficoltà ad abbandonarlo, giungendo perfino ad amarlo. Insomma tutto come va di solito quando si è nelle mani di un bravo magnaccia.
Negli anni del Covid la cultura liberale, che avrebbe dovuto fare da prima barriera alla pressione fobocentrica e securitarista, è stata del tutto vergognosamente silente. A salvare la bandiera, tra i pochissimi, il vecchio Antonio Martino (un cursus da economista, ministro degli esteri, dirigente del Partito Liberale Italiano, tessera numero 2 di Forza Italia, figlio di Gaetano Martino). In un intervista concessa qualche mese prima di morire Martino esprimeva tutto il suo stupore di fronte alla spinta liberticida in atto. Si salvava la bandiera, in questo caso, perché si mostrava perlomeno che qualcuno nella classe dirigente liberale italiana aveva creduto nella libertà come qualcosa di estensivo e maggiore rispetto ai desiderata di Confindustria che la pensavano come assenza di lacci e lacciuoli affinché si potessero esprimere gli spiriti animali del capitalismo. Al contempo e ovviamente, la solitudine di Antonio Martino mostrava ex contrario che per il resto dei sedicenti liberali la questione di non poter uscire di casa o cambiare comune o decidere (questo lo si dimentica sempre) quale vaccino fare, se farlo o, se fatto all’estero, quale vaccino valesse e quale, sa Dio perché, non valesse niente, non era una questione che li turbava né li interrogava.
Anche in questo caso il triennio che stiamo attraversando ci ha rivelato con chiarezza molte cose, forse persino troppe, e a noi tocca lentamente provare a digerirle. Sono scomparsi e sembrano lontani gli elogi della capacità di dialogare, le apologie della natura intrinsecamente e felicemente problematizzante del nostro Occidente, della nostra democrazia, del nostro costituzionalismo liberale. Che la decisione politica si ponga alla fine di un dialogo e non all’inizio, che sia il dialogo a costruire le nostre idee e non le idee a decidere prima il corso e la liceità del dialogo e i confini oltre cui mai deve tracimare sono ovvietà degli anni Settanta e Ottanta che adesso abbisognano di un coraggio leonino per essere poste in atto.
Se prima la strutturale complessità di idee presente nella nostra democrazia veniva esaltata per contrapporla all’unità opprimente dei regimi fascisti e comunisti, oggi Ugo Mattei si sente costretto a scrivere un intero volume per poter riaffermare “il diritto di essere contro” e Bruno Latour, in un’intervista, senza imbarazzo alcuno, suona le campane a morto su ogni critica radicale: “le autorità scientifiche, religiose o politiche, si sono talmente indebolite che criticarle equivale ad annientare qualcosa che è già distrutto. Si può dire che, a partire dagli anni Ottanta, il compito è stato piuttosto quello di restituire alle istituzioni la loro antica forza”. A ben vedere anche nelle parole di Latour appare una logica emergenziale, qui allargata a un quarantennio. Ci sarà anche un momento opportuno per criticare, sembrano dirci in coro politici, scienziati e intellettuali incistati nel potere, ma quel momento non è mai adesso. Un buon metodo per sospendere la vera dialettica delle idee, senza affrontare la colpa morale dell’eradicazione della libertà di pensiero e opinione. Ben più che qualche decennio sembra passato da quando Kolakowski scriveva che “è il conflitto di valori, piuttosto che la loro armonia, a mantenere viva la nostra cultura”.
Tra i tanti “doni” che questo triennio ci ha portato, uno dei più importanti è allora l’apocalissi del liberalismo, nel senso proprio di fine e di rivelazione di ciò che esso è stato. Cosi come l’autoritarismo non è un incidente di percorso del comunismo ma, ad essere buoni, un suo consueto errore di replicazione, dovremmo accettare, con dolore per chi ci ha creduto, che forse il liberalismo è stato solo l’adenovirus del neoliberismo: il vettore su cui questo è stato montato per penetrare in una natura umana che all’individuo e ai suoi interessi ha sempre privilegiato il clan, il villaggio, la comunità. Appena il vaccino liberismo-liberalismo non ha avuto più competitors è stato progressivamente espulso dal sistema la parte non essenziale (il liberalismo) che rischiava di rallentarlo. Se “there in no alternative” possiamo buttare la zavorra e andare più veloci. Così il canadese Trudeau può sentirsi compiutamente liberale bloccando i conti correnti di chi non la pensa come il suo governo e i grandi aggregatori digitali di informazioni decidere quali opinioni siano lecite e quali no e sentirsi fari della democrazia.
Il liberalismo è stato l’uomo onesto, ma sciocco, prestato agli interessi dello speculatore. Dobbiamo ammettere che quel volto di libertà, magnanimità, comprensione per la complessa fioritura umana in tutte le sue differenziazioni funzionali (a patto, beninteso, che di fiorire se ne occupasse senza aiuti lo stesso soggetto interessato) era una maschera; il discorso filosofico e morale che per accidens arricchiva il mercante e il banchiere era invece una omelia per convincerci che gli interessi del mercante e del banchiere fossero gli interessi di tutti.
Non suoni eccessiva la condanna. Se il socialismo reale ha messo fine alla presenza massiccia del socialismo come progetto di realizzabilità sociale allora il “liberalismo reale” per coerenza dovrebbe subire la stessa sorte. La sua trasformazione in un capitalismo dei monopoli, delle multinazionali, il suo disinteresse assoluto per i singoli qualora non riescano ad appartenere a categorie che il sistema economico ritiene utile includere, la violazione di parti importanti delle tante carte e convenzioni con cui dal dopoguerra ha inteso costruire la sua superiorità morale rispetto agli autoritarismi di vari colori, sono fatti che non vanno lasciati lì, irrelati e disanimati. È il Novecento che va in pezzi e, in epoca di riciclo ecologico, sarebbe il caso di andare a vedere se ciò che è stato buttato è ancora utile. Anzi, sarebbe il caso di iniziare a considerare l’essere stato scartato da questo sistema di potere come una segnalazione del valore del “rifiuto”. Chissà che tutti questi scarti non possano tornare buoni per dopo.
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