Giorgia Audiello
Avanti.it
Tra i tanti problemi che affliggono l’Italia, il calo demografico è sicuramente quello più strutturale e profondo che torna ciclicamente alla ribalta nel dibattito pubblico e politico, senza però che la classe dirigente del Paese sia mai riuscita davvero a trovare e adottare misure sociali ed economiche in grado di arrestare un fenomeno che potrebbe progressivamente far scomparire la popolazione italiana nell’arco di alcuni secoli. Le cause dell’allarmante inverno demografico vengono indagate sempre in maniera superficiale e approssimativa così da non fare luce sul fenomeno, facendo emergere come in realtà esso sia il frutto non solo di precise scelte politiche, ma anche di una trasformazione socio-antropologica che ha disgregato quella che è considerata la cellula, nonché il pilastro, della società: la famiglia, sostituita dal culto liberale dell’individualismo, del progresso e dell’emancipazione. A conferma di ciò, vi sono i dati Istat, i quali non mettono solo in rilievo l’inarrestabile calo demografico, ma anche come esso si accompagni al sempre minor numero di matrimoni.
Secondo quanto rilevato dall’Istat, la fase di declino della natalità è cominciata nel 2008, anno rispetto al quale, nel 2020, le nascite sono diminuite di 171.767 unità (-29,8%). Il calo è attribuibile per la quasi totalità alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani (316.547 nel 2020, oltre 163 mila in meno rispetto al 2008). Inoltre, il report dell’istituto di statistica spiega come «A diminuire sono soprattutto le nascite all’interno del matrimonio, pari a 259.823 nel 2020, quasi 20 mila in meno rispetto al 2019, 204 mila in meno nel confronto con il 2008 (-44%). Ciò è dovuto anche al forte calo dei matrimoni che si è protratto fino al 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze (rispetto, ad esempio, al 2008 quando erano 246.613) per poi proseguire con un andamento altalenante». Il calo delle nascite è allarmante in quanto ha importanti ripercussioni in campo socioeconomico comportando invecchiamento, squilibrio tra generazioni, insufficienza di forza lavoro, minori contributi sociali, perdita di produzione e innovazione e ristagno economico. Tuttavia, non solo non si prevede un’inversione di questa tendenza, ma essa pare destinata ad accentuarsi.
Sulla base dei dati disponibili, infatti, si prevede un’ulteriore decrescita della popolazione residente nel prossimo decennio: da 59,2 milioni al 1° gennaio 2021 (punto base delle previsioni) a 57,9 milioni nel 2030, con un tasso di variazione medio annuo pari al -2,5%. La situazione potrebbe essere ancora peggiore nel medio e lungo periodo se la tendenza di declino delle nascite proseguisse invariato. Tuttavia, quanto più ci si allontana dall’anno base, tanto più le previsioni demografiche risultano incerte. Così, si legge nel report dell’Istat, «se dal lato più favorevole la popolazione potrebbe subire una perdita di “soli” 4,2 milioni tra il 2021 e il 2070, dall’altro si potrebbe pervenire a un calo di ben 18 milioni. Risulta pertanto pressoché certo che la popolazione andrà incontro a una diminuzione. Infatti, sebbene non sia esclusa l’eventualità che la dinamica demografica possa condurre a una popolazione nel 2070 più ampia di quella odierna, la probabilità empirica che ciò accada è minima, risultando pari all’1,0%».
Nel quadro descritto, dunque, le politiche per la natalità introdotte dai governi – come, ad esempio, l’assegno unico famigliare – risultano assolutamente insufficienti, in quanto si presentano solo come un palliativo a un problema più profondo che coinvolge sia il piano economico che quello socio-antropologico: dal punto di vista economico, infatti, a causa delle politiche di austerità – di cui l’Italia è stato uno dei Paesi pilota – si è notevolmente indebolito lo Stato sociale e si è assistito a una precarizzazione del lavoro e della vita che non permette una “pianificazione famigliare”. Emblema di tale precarizzazione è il Jobs Act che si fonda sulla cosiddetta “flessibilità” del lavoro, che altro non è che uno stato di perenne precarietà giustificata in nome del libero mercato e della concorrenza: uno schema che, se conviene certamente alle aziende e alle multinazionali, riduce ancora di più l’individuo ad atomo intercambiabile, senza prospettive a lungo termine, tanto che la legge è stata giudicata incostituzionale. Lungi dall’essere casuali, tali politiche sono la perfetta applicazione della dottrina neomalthusiana secondo cui occorre contenere il numero della popolazione eliminando il sostegno alle fasce sociali meno abbienti e, in termini contemporanei, precarizzando l’intera esistenza. Secondo una tesi molto ricorrente sia tra gli esponenti dell’ecologismo radicale che tra molte personalità di rilievo dei vertici del potere e alcuni organismi internazionali, infatti, il pianeta è sovrappopolato e il contenimento del numero della popolazione è una priorità dell’agenda politica. Sul piano socio-antropologico, invece, la presunta emancipazione femminile, che ha portato a svilire il ruolo e la figura della madre, insieme alla “cultura” dell’aborto e al primato dell’individualismo, ha contribuito a disincentivare le nascite.
Interessante notare, inoltre, come proprio coloro che hanno messo in atto i tagli draconiani della spesa pubblica, siano gli stessi che ora denunciano l’allarmante calo demografico proponendo le soluzioni più congegnali alla plutocrazia liberale internazionale. Elsa Fornero, ad esempio, appartenente alle fila del governo Monti, che ha inaugurato la stagione dell’austerity, circa un anno fa scriveva su La Stampa che «Se la popolazione italiana continuasse a diminuire ai ritmi di questi anni non ci vorrebbero tre secoli perché scomparisse». Tuttavia, Fornero spiega anche che «Potremmo non preoccuparci, perché ci sarà verosimilmente qualcuno pronto a prenderne il posto. Basta guardare all’altra sponda del Mediterraneo, dove si affacciano Paesi con popolazioni fortemente dinamiche e una struttura per età molto diversa dalla nostra, con molti neonati, bambini e giovani e relativamente pochi anziani. Perché negare allora ai giovani africani le opportunità di spostamento?». Così, dopo aver creato il problema attraverso modelli economici disfunzionali, la stessa élite liberale fornisce la soluzione ad essa maggiormente conveniente.
L’inverno demografico, infatti, da un lato, permette di considerare come un’opportunità l’immigrazione, importando manodopera straniera a basso costo che contribuisce ad abbassare il costo del lavoro; dall’altro, è il risultato più concreto e tangibile dell’agenda globale di riduzione della popolazione, sostenuta da enti pubblici e privati enormemente potenti come la Fondazione Rockefeller, il Club di Roma e la stessa ONU. Nel documento intitolato Agenda 21, ad esempio, si legge che «La crescita della popolazione e della produzione mondiale, combinata con modelli di consumo insostenibili, pone uno stress sempre più grave sulle capacità di sostegno della vita del nostro pianeta», un invito nemmeno troppo velato a incentivare politiche di contenimento della popolazione.
Le tendenze demografiche italiane non lasciano adito a dubbi: la popolazione del Belpaese è destinata progressivamente a diminuire fino alla sua quasi totale scomparsa nell’arco di alcuni secoli. Il che non è certamente un fenomeno casuale, ma è la diretta conseguenza di determinate politiche e dell’imposizione di modelli sociali “disgreganti”. Se, da un lato, oggi le famiglie numerose con tre, quattro o cinque figli sono ormai una rarità, dall’altro, esse sono anche il segno dell’opposizione più autentica a un potere che è “nemico della vita” e che, allo stesso tempo, progetta il mondo transumano propugnato dalle élite liberali di Davos.
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