Riccardo Giordano
Avanti.it
Se nel ciclo de L’anello del Nibelungo (L’oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido, Il crepuscolo degli dei) la visione di Wagner era stata dominata dal pessimismo tipico della mitologia antica caratterizzato dall’ineluttabilità del destino, dell’eterno ritorno dell’uguale, secondo cicli di morte e rinascita che coinvolgono le stesse divinità, nel Parsifal (1882) – che lo stesso autore ebbe a definire come un vero e proprio dramma sacro – si affaccia l’idea di potersi liberare da questa ruota senza fine. Non a caso l’opera dedicata al mistero del Graal segnerà la rottura definitiva tra il grande compositore e il Nietzsche – nonostante questi avrebbe continuato ad amarne sempre la potenza evocatrice della musica – per il quale l’unica saggezza sta nell’accettazione incondizionata della tragicità della vita, rifiutando come illusione metafisica ogni tentativo di comprensione e di liberazione. Come si scriveva dunque, la trama del Parsifal ruota tutta intorno al grande tema della redenzione, l’alchemica trasmutazione della pietra nera in diamante lucente: l’eroe atteso dalle profezie dovrà salvare la terra del caos in cui l’ha gettata l’errore compiuto da Amfortas, il legittimo re del Graal. In altri termini, redentore sarà colui che riuscirà a compiere consapevolmente, cioè con chiarezza di coscienza, ciò che altri ha compiuto incoscientemente, cioè in preda alla meccanicità della reazione istintiva. La chiave di questa impresa sta nella capacità di riuscire a sentire – realmente, e quindi con la stessa evidenza della percezione sensibile – il dolore provocato in Amfortas dal suo errore: è esattamente in questo punto che si accende la luce della coscienza superiore.
Per comprendere il legame tra i simboli su cui poggia il regno cavalleresco del Graal, tra la coppa e la lancia, tra il principio femminile e quello maschile, occorre tenere sempre ben presente la corrispondenza analogica tra il mondo esteriore e il mondo interiore per mezzo della quale il mistero dell’eros coinvolge sia il rapporto tra l’uomo e la donna, sia la relazione tra i poli opposti dell’anima. Se da un lato, infatti, la coppa e la lancia vengono a rappresentare il pensiero e la volontà, la comprensione e l’azione, il cui accordo perfetto e immediato è foriero della pace dell’anima; dall’altro l’allusione è alla reintegrazione delle forze creatrici che si realizza nell’istante supremo della congiunzione carnale. Contrariamente alla opinione comune, il regno del Graal non poggia sulla castità: questa è solo il velo che serve a nascondere un mistero più profondo ed è la capacità per mezzo della quale, ponendo un argine a un impulso meccanico, si permette alla luce della consapevolezza di penetrare nelle profondità di atto che, pur svolgendosi nel corpo e attraverso il corpo, riguarda l’essenza stessa dello spirito. L’errore di Amfortas sta non nell’aver ceduto alla tentazione di Kundry, la bellissima donna sempre in bilico tra luce e ombra, ma nell’essersi abbandonato alla passione perdendo così il controllo della lancia (simbolo dell’energia virile di cui il fallo è immagine fisica). Egli, in altri termini, non è stato all’altezza di padroneggiare la forza evocata che, passando sotto il controllo dell’inconscio (Klingsor, il re oscuro che si oppone ad Amfortas e ai suoi cavalieri), finisce col travolgerlo e spezzarlo procurandogli la ferita che mai guarisce, la sete inestinguibile del desiderio (la brama) che tiene l’anima in balia della seduzione delle forme.
Il guasto che colpisce la terra sta nella separazione tra la coppa e la lancia (la prima rimasta in possesso dei cavalieri, l’altra finita nelle mani di Klingsor): senza la loro unione, il potere della vita non può più fluire spiritualmente verso l’alto, come corrente animatrice dei corpi sottili dell’uomo, ma precipita in basso nella direzione di una creazione puramente materiale. Occorre, dunque, che giunga colui che sappia ritrovare l’unione delle polarità, riponendole entrambe sotto la luce della coscienza finalmente in grado di vivere il rito della loro unione senza lasciarsene travolgere. Parsifal, l’eroe designato secondo il mito, è il seme dell’Io spirituale (che all’inizio del cammino non si riconosce, neppure ricorda il suo nome), è colui che, tentato da Kundry, non si abbandona al piacere ma nell’intensità dell’atto è capace di separare il sottile dallo spesso, il calore tellurico dal fuoco celeste che risveglia l’anima su un piano più alto. Nell’istante in cui Kundry lo bacia egli sente tutto il dolore di Amfortas, percepisce le conseguenze fatali del suo atto incosciente, e così lo redime trasmutando se stesso. Così, allora, gli si rivolge la donna: “Se nel cuore senti gli altrui dolori, senti ora anche i miei! Se sei il redentore, cosa ti vieta di unirti a me per la mia salvezza?” Il rifiuto di Parsifal non va letto come una negazione dell’eros, al contrario. Il simbolismo del racconto serve a farci capire che deve avvenire un passaggio di piano, che il mistero dell’eros parte dal corpo ma deve condurre su un altro piano perché è su un livello più sottile che si gioca la partita. Vediamo infatti che alla immobilità fisica dell’eroe corrisponde la nuova apparizione di Klingsor che, come già fu per Amfortas, tenterà di colpirlo con la lancia caduta in suo possesso: è chiaro, dunque, che l’azione erotica non viene interrotta, che la forza virile viene scatenata in tutta la sua potenza, ma quel che accade – e che Wagner ci racconta perfettamente, dimostrando ancora una volta come il vero artista è in grado di intuire i significati profondi della ricerca ermetica – è che la lancia scagliata si arresta sul capo di Parsifal che può così afferrarla per tracciare con essa una croce, simbolo dell’unione tra il maschile (braccio verticale) e il femminile (braccio orizzontale). L’allusione è chiara: l’uomo risvegliato afferra la potenza della vita prima della sua manifestazione fisica, nella testa, lì dove essa si manifesta come la vita del pensiero, la forza che permette ai pensieri di articolarsi l’uno dietro l’altro: il movimento segreto, che sempre sfugge all’attenzione cosciente, che occorre imparare ad evocare e a fissare mediante la disciplina della concentrazione. Nel capo, dove si accende la luce dell’autocoscienza, la corrente erotica può essere afferrata e vissuta nella sua essenza, come energia pura, indipendentemente da tutte le forme che ordinariamente servono a suscitarla e allora, solo allora, portata nel corpo dove può essere lucidamente sperimentata fin nelle sue più profonde radici. In oriente si parla di agire senza agire, di una azione sciolta da ogni vincolo che, per così dire, può esser contemplata dall’esterno, senza alcun coinvolgimento egoico. Nei Vangeli leggiamo che ciò che viene dalla carne è carne, ma ciò che nasce dallo spirito è spirito: queste parole vogliono dirci che laddove l’uomo ordinario viene trascinato nell’azione dalla reattività fisica, dalla istintività, colui che segue la via del risveglio interiore lascia che l’agire materiale fluisca spontaneamente dalla contemplazione interiore: il corpo obbedisce a un potente atto immaginativo.
Lo scopo di tutto ciò, come detto, è far si che le forze che presiedono alla creazione del mondo materiale possano essere ricondotte ad agire sul piano interiore, della formazione e della trasmutazione di sé poiché, come ci ricorda l’alchimia, Tutto è Uno. Chi trova la chiave per realizzare se stesso, ha anche la chiave per trasmutare il mondo. Non si creda che un tale lavoro vada a degradare il principio del piacere, al contrario questo diviene più intenso e profondo poiché vissuto nella totalità di sé, su tutti i piani: è l’intensità della presenza che si estende in tutto il nostro essere e, quindi, nell’essere del mondo, vibrando dalle profondità dell’abisso fino all’immensità degli spazi più elevati. È la nostalgia di questa pienezza che spinge l’uomo a interrogarsi su se stesso, che gli fa percepire tutta l’inadeguatezza della percezione ordinaria e lo spinge a mettersi in viaggio alla ricerca di ciò che è stato perduto: il Graal. Tutti i personaggi della trama wagneriana, così come di ogni mito, devono esser letti sub specie interioritatis, cioè come parti di noi: Amfortas è la coscienza ordinaria, Klingsor l’aspetto oscuro e abissale di essa, Parsifal il seme dell’Io immortale, Kundry è l’Anima continuamente in bilico tra la luce e l’ombra, il Graal e la Lancia sono ciò che di meglio c’è nell’uomo, ovvero la complementarità perfetta del puro maschile e femminile. Se l’azione redentrice, come si è già avuto modo di scrivere, è il cuore della vicenda del Parsifal, la chiave di questo agire sta nella capacità di sentire il dolore del mondo, della terra, dell’altro: un sentire che non è la compassione, cioè il soffrire con l’altro, il farsi coinvolgere dall’agitazione della sofferenza altrui, ma la capacità di entrare in contatto impersonalmente – freddamente – col dolore così da poterlo redimere, così da poter fungere da asse immobile attorno a cui il movimento scomposto dell’altro può dolcemente ordinarsi, equilibrarsi. È la consapevolezza che la conoscenza si conquista per servire e non per servirsene, che il Graal è per la terra e non per saziare la brama dell’uomo. Ecco, allora, che dopo esser stata redenta da Parsifal, Kundry ripete ossessivamente “servire! servire!”. Ciò che permette all’anima di uscire dallo stato di oscurità che la opprime, ciò che la libera permettendole di ritrovare il giusto equilibrio, è raggiungere la consapevolezza che alla parola “io” non corrisponde la chiusura egoistica in se stessi, nella propria individualità, ma la percezione di una dimensione cosmica. È per questa identità tra io e cosmo, tra l’io e l’altro, che il principio evangelico di amare il prossimo tuo come te stesso non ha niente a che vedere con la morale, ma ha un fondamento scientifico: io sono l’altro e, agendo per l’altro, agisco per me stesso.
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