Davide Miccione
Avanti.it
Le politiche dei vari governi mondiali, delle organizzazioni internazionali e soprattutto della cavia d’alto rango Italia, sembrano progressivamente disegnare uno scenario sempre più definito. Il pacchetto propostoci per i prossimi anni si fa più chiaro, potrebbe però essere utile riassumerlo in estrema sintesi e fare un breve ragionamento su come porsi di fronte ad esso.
- Biomaccartismo: i diritti individuali si fermano a fronte del prevalere del solo diritto alla salute ed esso prevale nei tempi e nei modi decisi da coloro che ne usufruiscono in termini di potere e profitto. Una tentazione globale questa, che per essere superata avrebbe bisogno perlomeno di una schiera di santi collocati tra governi, agenzie internazionali e colossi farmaceutici.
- Ecomaccartismo: i diritti individuali si fermano a fronte del prevalere dell’interesse della salvezza del pianeta. Che il pianeta sia minacciato nella sua sopravvivenza, che cosa lo minacci e in che modo si debba salvarlo e a quale costo viene anche in questo caso deciso da coloro che ne usufruiscono in termini di potere e profitto. Ultimamente il pianeta sembra aver bisogno, in particolare, della sostituzione rapida e obbligata di tutto il parco auto presente nel mondo con altre auto. Un sogno così ardito che fino a qualche anno fa non lo avrebbe osato pensare neppure il più feroce dei capitalisti.
- Atlantismo ucronico: si decide, quando serve, di ritornare alla logica dei blocchi contrapposti riprendendo una logica di guerra “tiepida” e chiamando noi occidentali alla sacra difesa della democrazia e della libertà. Incarnando noi la libertà (come dubitarne?) i governi del mondo sono autoritari nella misura in cui non giocano in squadra con noi e democratici se servono i nostri scopi (non c’è, direi giustamente, un rinascimento putiniano, ma a quanto pare uno arabo sì).
- Un controllo serrato di ogni forma di pensiero che voglia contestare i tre meccanismi suddetti in generale ma soprattutto di chi non si allinei alla campagna in corso in quel momento. In breve la progressiva fine della libertà d’opinione.
- La distruzione della libertà d’opinione deve essere inserita, per essere portata a termine, in un clima di occhiuto controllo del linguaggio e in una abitudine a considerare il diritto d’opinione come assolutamente secondario rispetto ad un neonato diritto teratomorfico a non essere infastiditi o offesi da una tesi qualsiasi. Qui cade perfettamente a taglio tutto il vario e attivo mondo del politicamente corretto. Tutto ciò in nome di una bonifica linguistica del male che lasci intatti i mali reali e, peggio, ci tolga anche la possibilità di nominarli.
- Il progressivo passaggio della vita fisica e sociale al digitale aiuta a portare avanti questi ambiziosi propositi aumentando la controllabilità del sistema, la sanzionabilità degli individui e riducendo la possibilità delle persone di incontrarsi tra loro e creare qualcosa di libero ed estraneo ai flussi culturali del sistema.
Ogni punto di questo pacchetto, nelle sue recenti procedure di attuazione, tocca la vita di qualcuno e gli fornisce di conseguenza l’occasione di interrogarsi sulla coerenza della narrazione proposta e di approdare, se vuole, ad una posizione di vigilanza critica ormai rara. Questo risveglio individuale però, se resta individuale, si esprime essenzialmente in un aumento del disagio del singolo, quando egli non incorra direttamente nelle varie e fantasiose sanzioni che il sistema appronta con grande velocità (green pass, limiti alla mobilità per insufficienza ecologica, cioè economica, dei propri mezzi eccetera). Questo senso di solitudine, amplificato dai media più che reale (ma reale nel momento in cui, disgraziatamente, tutta la nostra vita si svolge nei vari media) è proprio ciò che fa sì che il cittadino italiano, pur osservando diverse cose che non gli tornano, si tenga distante già interiormente da ogni critica sistemica. Egli sa che aumenterebbe solo il suo tasso di esclusione sociale, vivrebbe con più disagio la sua immersione nel brodo mediatico, non avrebbe comunque modi efficaci per protestare o ribellarsi; dovrebbe, per ascoltare opinioni più vicine a lui, ingrottarsi nelle zone più periferiche e organizzativamente deboli del web, non avrebbe un partito da votare né personaggi pubblici o parti delle istituzioni con cui identificarsi o tantomeno esempi di funzionamenti sociali diversi. Un progetto di lettura critica del mondo non si costruisce dall’oggi al domani e non può prescindere dalla difficoltà, per quell’animale gregario che è sempre stato l’uomo (nonostante il passato culto per gli uomini eccezionali il vantaggio della nostra specie passa da forme di collaborazione disciplinata: più pecore che leoni), di smarcarsi dall’idea dominante.
E se il funzionamento del mondo lascia a desiderare, la formazione delle teste neoliberiste, sradicate, cosmopolite al ribasso, fintoambientaliste, destoricizzate e delocalizzate, non conosce soste e prosegue a tutto ritmo. Chi pensa di costruire una nuova area dovrebbe tener conto di questo e riflettere su come il lavoro teorico, di informazione e di riflessione abbia difficoltà a raggiungere i grandi numeri. Questa difficoltà, cosa ancor più grave, si fa impossibilità qualora ci si concentri sui giovani (apparentemente irraggiungibili e del tutto assenti dalle piazze del triennio pandemico-bellico) la cui candida acquiescenza nei confronti del “potere diffuso” lascia sempre senza fiato chi abbia coscienza e qualche anno in più.
Su cosa può contare allora questa lettura critico-operativa delle linee di tendenza del mondo attuale? Su alcuni pensatori di grande indipendenza e forza di carattere che staccandosi dai propri collegamenti cultural-politici hanno avuto il coraggio di iniziare un percorso di analisi e vigilanza intellettuale. Un certo numero, a volte di buona qualità culturale e analitica, di emittenti web rafforzatesi soprattutto in pandemia. Qualche testata on-line di buon livello ma priva degli strumenti economici ed organizzativi per competere con testate web più generaliste e infiocchettate. Una rete di giornalisti e intellettuali che organizzano incontri in giro per l’Italia, spesso per presentare i loro libri, consentendo a gente con comuni interessi di potersi conoscere e incontrare (e da qualche tempo persino qualche festival culturale).
Ma a fronte dell’enormità degli eventi recenti (milioni di italiani esclusi dai diritti civili e dalla società per mesi; uno schieramento del governo senza se e senza ma in una guerra ambigua che si fa finta sia chiara; un’accelerazione ecologista a trazione capitalista con i costi spostati sull’uomo comune dopo decenni di assoluta ostilità alle tematiche ambientali) spicca più ciò che manca, spicca la frammentazione e mancanza di convinzione dell’area. Spicca l’assenza di rappresentanza parlamentare, lo iato sempre meno occultabile e ancor più ampio del consueto tra la lettura del mondo di una parte dei cittadini e le proposte politiche presenti in parlamento, ciò tanto per chi non si riconosce nel neoatlantismo ucronico quanto per quella fetta più consapevole sebbene più ridotta che ha trovato le politiche pandemiche governative collocate ben oltre il limite della legalità e della moralità (e che continua a pensarlo anche dopo i pronunciamenti della Consulta).
Cosa è mancato dunque e cosa manca ancora? Manca la capacità di lavorare insieme e unire le forze per poter esser visibili fuori dalle proprie nicchie web. L’area critica già attiva è, non solo numericamente ridotta, ma percorsa al proprio interno da tensioni idiosincratiche, solipsistiche, egotiste, avventuriste. Il riferimento non è solo alla fallita solidificazione in partito di una fascia militante della popolazione che dalle piazze ha smarrito la strada delle urne (dove la cosa più grave non è la limitata intercettazione del voto popolare ma l’incapacità di costruire un’organizzazione durevole, democratica e non personalistica) ma al disperante panorama monadico in cui ogni operatore culturale web si costruisce il suo canale, si fa i suoi video da solo o con tre amici (con cui a un certo punto litiga), si pubblica da sé i propri libri. Manca quel lavoro culturale che ha senso solo se è collettivo e non meramente narcisistico, se crea testate e case editrici, se traduce altre esperienze fuori dall’Italia e cerca punti di convergenza culturale, se isola gli elementi fondamentali e tralascia quelli accidentali. Purtroppo quest’esito mostra come coloro che si oppongono ai tempi nuovi non riescono però a produrre una antropologia significativamente diversa da quella di coloro che combattono. Le idee saranno nuove ma le teste vecchie. La semplice perplessità nei confronti delle politiche dei governi recenti e delle linee di tendenza del capitalismo, se rimane accompagnata da una adesione ai modelli che il medesimo capitalismo produce e di cui ha bisogno per riprodursi nelle forme che sta perseguendo, può bastare a creare una nuova soggettività politica e culturale?
Manca, più in generale, una sperimentazione dal basso di forme di vita associata, di forme di produzione, di forme di cooperativismo che non siano semplicemente lo sfogo e la difesa di un’anima (giustamente) esulcerata ma siano sperimentazioni e ricerche di cosa l’uomo può ancora dare. Un neocomunitarismo sperimentale ed esemplare e non semplicemente escapista.
Manca dunque la chiara consapevolezza, senza cui la convergenza politica e culturale tra le posizioni critiche diventa atto di fede in un volontarismo senza nessuno fondamento, di ciò che è essenziale e ciò che è derivativo (nel migliore dei casi), accidentale, epifenomenico o perfino frutto di un travisamento o di una rilettura che risente dei propri limiti culturali ed ermeneutici. È sensato pensare che dal rifiuto della guerra, dalla paura di venire coinvolti in un conflitto o comunque di pagarne i costi economici, si possa originare un’area critica che interpreti il presente e ci difenda (è triste usare questo verbo ma in questa fase è l’unico onesto) dal futuro incombente? Non sono, queste ultime, istanze quasi prepolitiche? Non sono legate a paura e istinto di conservazione? Perché dovrebbero incarnarsi in una posizione politica che, per quanto ampia, dovrebbe pur possedere un’identità? Come si può costruire un’area politica sul semplice fatto di non voler entrare in una guerra a prescindere dai motivi per cui non lo si vuole?
È sensato pensare che l’uomo contemporaneo sempre più globalizzato nella mente, deculturalizzato fino al massimo consentito a un essere sempre anche culturale come l’uomo, espatriato anche in patria, privo di memoria, possa costituire la base per un’area fondata su un sentimento sovranista? Veramente in un mondo globalizzato fino alla banalizzazione, può ipotizzarsi una centralità del sovranismo tale da poter ipotizzare una forza politica di rilievo? Non finirebbe con l’essere il mero rifiuto dell’oggi in nome degli anni recenti in cui “ce la passavamo meglio”? Del “con la lira sì che si stava bene”? Oppure, potremmo dire, una interruzione della globalizzazione e una critica alle grandi organizzazioni sovranazionali è forse solo l’attuale forma che prende la difesa di qualcosa di più prezioso della nazione?
O ancora: è sensato pensare a un ritorno del religioso come base su cui edificare quando questi ultimi anni ne hanno proprio mostrato la fine di ogni capacità di strutturare lo spazio sociale (si legga in proposito Marcel Gauchet poco letto in Italia).
È necessario dunque pensare a quale sia il fondamento possibile di quest’area e renderlo perspicuo e coerente. Quale dunque il “disvelamento” principale di questi ultimi anni? La base da cui ripartire? Non può essere qualcosa di semplicemente concettuale ma un fatto e un’esperienza esistenziale, una metanoia che ha investito l’individuo indipendentemente dalla propria volontà. Non può che essere quindi la vicenda pandemica e ciò che ci ha mostrato, cioè la fragilità e la preziosità della democrazia, la necessità di preservarla e la quantità di prerequisiti che servono a farla sopravvivere: cultura, libera informazione, leggi di protezione dal capitale, sicurezza economica, diritto del lavoro, memoria storica, attento soppesamento dei rischi della digitalizzazione, vigilanza nei confronti di istituzioni politiche non democratiche e catafratte da una sedicente scientificità come l’OMS, terzietà degli organismi di controllo, liberta d’opinione, rifiuto della sedicente neutralità della tecnologia, difesa della costituzione. Tutto questo ben si tiene insieme se si ha l’onestà di guardare.
Solo un integrale innamoramento per la democrazia ci può guidare al cuore della questione e solo una pratica della democrazia e della collaborazione ci potrà aiutare a costruire una coscienza critica. In questo senso il totale fallimento delle leadership politiche emerse dall’ambiente degli oppositori alle politiche pandemiche governative non è tanto la dimostrazione dell’immaturità dell’area politica ma, più radicalmente, il sintomo di una gravissima e imperdonabile incomprensione del proprio ruolo nella attuale fase storica.
Andrea dice
L’articolo, di fatto, propone un mutamento antropologico. È possibile un mutamento antropologico? Sono quasi cinquant’anni dalla scomparsa di Pasolini, che già parlava di questo, essendoci già stato allora, in negativo. “Integrale innamoramento per la democrazia”… Siete sicuri? Il film di Wajda su Danton è tutto qui… e c’è pure la risposta.
Andrea dice
https://m.youtube.com/watch?v=GCrshr4IiTE
angelosanto dice
Un mio amico. Anziano come me’ (80 anni) lavorava come funzionario civile al comando NATO di Mons. Circa 25 anni fa mi disse che tutti i governi europei programmano. proclamano, fanno vari piani politici ma, senza il permesso del comando NATO, nessuno può fare niente. Non gli credetti. Purtroppo ho dovuto ricredermi.
Guido Bulgarelli dice
Ottimo come sempre Miccione. Non concordo solo su un punto, la sostituzione dell’intero parco macchine non è l’obiettivo della mobilità elettrica, che si pone invece come un sistema non criticabile (l’ecologia!) per far sì che l’auto ritorni ad essere un bene per pochissimi. Con l’ulteriore vantaggio di costringere le masse a rifugiarsi nelle città, dove l’applicazione delle previste misure concentrazionarie sarà molto semplificata
Davide Miccione dice
Credo abbia ragione Guido Bulgarelli. Oppure potremmo dir così: i fini sono, si potrebbe dire, di “ortopedia storica e sociale” come si desume dalla glossa di Bulgarelli, ma il capitale gradisce e necessita per muoversi, di profitti e benefit intermedi assicurati. Una struttura molto simile alla vicenda del vaccino probabilmente ormai, per il capitale, una best practice da studiare. Forse una riflessione sulla questione potrebbe essere utile.
Davide Miccione
Federico dice
Le masse hanno bisogno di stimoli per muoversi. In società povere lo stimolo principale sono i soldi necessari alla sopravvivenza, nella nostra società cosiddetta “del benessere”, forse solo la privazione del campionato di calcio, della TV o di internet può ancora scatenare una reazione. D’altra parte i latini dicevano “panem et circenses”, necessari al consenso delle masse.