Carlo Formenti
Avanti.it
Il calcio moderno è caratterizzato da un paradosso: più aumentano i ritmi partita, più il pressing si fa asfissiante e frenetico, più gli allenatori inventano nuovi espedienti tattici, più chi lo guarda rischia di annoiarsi. Può essere che sia un problema mio, associato all’età avanzata (anni fa il gioco era assai più lento per cui i fuoriclasse avevano agio di sciorinare il loro repertorio di colpi, tenendo desta l’attenzione a prescindere da punteggi e risultati), sta di fatto che raramente riesco a seguire un match più di una ventina di minuti, e confesso che il tiki taka di Guardiola e imitatori mi fa assopire ancora più rapidamente (che senso ha ingaggiare fior di campioni per fargli costruire una fitta rete di insulsi passaggini intervallati da qualche raro lampo di classe?). Trovo quasi più divertenti le risse fra i protagonisti più caratteriali, alimentate da uno stile di gioco sempre più fisico (anche se il Var e le manfrine di pletorici collegi arbitrali neutralizzano anche questi momenti di vivacità).
Espulso dal campo, lo spettacolo si trasferisce sugli spalti, dove torme di tifosi trinariciuti (che non mancano nelle curve di ogni squadra) si esibiscono in oscene performance a base di insulti razzisti ed esibizioni di simboli neofascisti. Così come si trasferiscono negli studi televisivi o sulle pagine dei giornali che commentano quanto è successo poco prima sui vari campi. In una vignetta decisamente spinta ma francamente azzeccata apparsa sulla prima pagina del “Fatto” di mercoledì 10 maggio si vede un disgustoso figuro che indossa un cappellino da cui sgorgano due getti di liquido marroncino, mentre la didascalia recita “I simpatici allegri cappellini spruzzamerda che si vendono al posto del giornalismo”.
Come si evince dalla seconda parte della scritta (“puzzano un po’ ma vuoi mettere con la pallosa informazione sulla guerra?”), il bersaglio non è il giornalismo sportivo bensì il vomitevole stato di una informazione mainstream ridotta a propaganda bellica di parte, eppure non c’è dubbio che anche molti esponenti della stampa sportiva meriterebbero di indossare quell’allegro copricapo. Non mi riferisco tanto al circo Barnum di ex campioni, subrettine, comici, nani e ballerine che affollano gli studi di cui sopra affiancando i giornalisti “patentati”. Devo anzi dire che queste compagnie di giro risultano a volte più simpatiche di coloro che le ospitano. Mi riferisco proprio ai professionisti “esperti” incaricati di gestire la baracca.
Non c’è infatti spettatore obiettivo che non si renda conto che la maggioranza di costoro sono tifosi dell’una o dell’altra squadra (o almeno hanno le loro buone ragioni per favorirla), al punto che si ha l’impressione che nelle redazioni le assunzioni vengano fatte applicando una sorta di “manuale Cencelli” del tifo (esattamente come vengono fatte le assunzioni nelle altre redazioni, a partire da quella politica, rispettando le quote spettanti ai vari partiti). Si aggiunga che gli interessi delle categorie che detengono maggior potere economico e politico (società, arbitri, dirigenti federali, ecc.) vengono rigorosamente tutelati e chi osa criticarne gli esponenti con toni sopra le righe o proferire verità scomode è oggetto di dure reprimende (vedasi quelle di cui fu spesso vittima Zeman anni fa o quelle di cui è bersaglio Mourinho oggi).
Un esempio clamoroso di questo diffuso servilismo nei confronti dei “poteri forti” è l’indulgenza (per non dire la complicità) da parte di tutte le componenti del nostro sistema calcio di cui ha goduto e gode una squadra come la Juve, a partire da una stampa sportiva che, in barba alle reiterate, gravi e comprovate irregolarità commesse da tale società nel corso dei decenni (tanto da indurre anche i reticenti vertici istituzionali a sanzionarla in varie occasioni), si è sempre strenuamente impegnata a tutelarne l’immagine in base al principio di “presunzione di innocenza”, allo stesso modo in cui gli altri comparti della corporazione tutelano l’onorabilità di una classe politica corrotta e collusa con la mafia e le lobby industriali e finanziarie.
Naturalmente sarebbe depistante concentrare l’attenzione solo sulla Juve e sullo scenario italiano. Il peso politico delle società più “nobili” e ricche si è sempre fatto sentire a spese dei parvenu del calcio provinciale (ai vari Real, Bayern, Liverpool, Manchester, ecc. non sono certo mancati favori arbitrali o opportune “disattenzioni” in merito alla mancata osservazione di regole finanziarie). Ma soprattutto il problema non riguarda solo o prevalentemente il calcio, le cui magagne emergono alla luce più spesso rispetto a quelle di altre discipline sportive solo perché coinvolgono più interessi economici e attirano maggiormente l’attenzione mediatica.
Basti citare la crescente politicizzazione dell’atletica leggera, che ha raggiunto livelli assurdi dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina con l’esclusione degli atleti russi da molte competizioni internazionali (provvedimento che fa il paio con la tragicomica messa al bando di artisti della stessa nazionalità e/o con la cancellazione di eventi culturali che li vede coinvolti). Restando nel campo delle discipline olimpiche, è evidente come l’atletica si sia progressivamente venuta caricando di interessi economici (sponsor, diritti tv, ecc.) che ne hanno neutralizzato qualsiasi residuo “decoubertiniano” sprofondandola nel professionismo più esasperato, con annesse manipolazioni “biochimiche” per spingere oltre ogni limite le prestazioni.
Prima della “espulsione” degli atleti russi dalle competizioni internazionali in seguito alla guerra fra Mosca e Kiev (decisione che avrebbe scandalizzato l’antica Grecia dove, caso mai, si sospendevano le guerre per permettere a tutti di partecipare alle gare), avevamo del resto già assistito alla gestione della “guerra al doping” da parte di agenzie controllate prevalentemente dall’Occidente (Stati Uniti e Gran Bretagna in primis) le quali hanno sistematicamente penalizzato gli atleti dell’Est (o quelli di alcuni paesi “minori”) e chiuso più di un occhio sui peccatucci dei propri.
Uno dei simboli dell’assurda ipocrisia di una cultura che, mentre lancia le sue campagne contro il doping, ignora sistematicamente il fatto che tale fenomeno è l’inevitabile “effetto collaterale” del processo di “finanziarizzazione” dello sport contemporaneo, è senza dubbio l’agghiacciante caso di Pantani, forse il più grande scalatore di tutti i tempi, condannato in base a prove che, con l’andare del tempo, si sono fatte sempre meno convincenti e poi abbandonato a se stesso, al punto da indurlo al suicidio.
Ho scelto di chiudere questa breve carrellata con il ciclismo perché è la disciplina sportiva che amo di più (finché le gambe hanno retto, mi sono cimentato a livello amatoriale su alcuni passi appenninici, laddove sui campi di calcio non ho mai speso più di qualche minuto di killeraggio da terzino destro con i piedi come ferri da stiro). Senza ingenue idealizzazioni: sono perfettamente consapevole che anche sulle strade del Giro e del Tour pesano sempre più gli interessi economici, e che il ricorso a sostanze dopanti è universalmente diffuso e sistematico. Resta il fatto che, quando vedo un campione come Pogachar che pianta in asso i rivali come fossero paracarri (non so se si “bombi”, quel che è certo è che lo fanno anche tutti gli altri, per cui partono alla pari) non posso fare a meno di provare un entusiasmo che nessun’altra impresa riesce a ispirarmi.
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