Emanuele Quarta
Avanti.it
PALERMO – Sabato il capoluogo siciliano ha aperto il mese di aprile con un corteo indetto per manifestare contro il progetto del governo della Autonomia differenziata, anticipando di fatto i cortei che si stanno tenendo in altre città di Italia oggi, capeggiati dagli ormai deboli sindacati confederali italiani.
Ad organizzare il corteo siciliano sono state diverse sigle politiche indipendentiste tra le quali Movimento Siciliano d’Azione, Trinacria, Unione Globale dei Siciliani per l’Indipendenza e ha visto anche la partecipazione di una delegazione di Sardigna Natzione e LiBeRu, indipendentisti sardi. La piazza era un pullulare di slogan e commenti contrari alla nuova proposta di autonomia differenziata che il governo della Meloni, col supporto della Lega, vuole portare avanti. “Sarebbe l’ennesima rapina nei confronti della Sicilia e dei siciliani” ha commentato all’Avanti! Mirko Stefio, segretario politico del Movimento Siciliano d’Azione. “Noi oggi siamo qui per commemorare la rivoluzione del Vespro siciliano del 1282 che oggi più che mai deve rappresentare un modello di lotta contro i soprusi che i siciliani subiscono”. Netta la sua condanna nei confronti dell’autonomia differenziata “un nuovo regalo per le ricche regioni del nord e per le sue imprese, mentre in Sicilia ancora attendiamo i decreti attuativi dello statuto regionale del 1946. La Sicilia, che ogni anno perde più di 50 mila giovani che emigrano in cerca di un futuro migliore, ha il diritto ad autodeterminarsi ponendo fine allo sfruttamento che la sta spolpando”. Altrettanto duro il commento di Giovanni Castronovo del movimento politico Trinacria che definisce la lotta contro l’autonomia differenziata e le aspirazioni di autodeterminazione “una questione di classe, con la borghesia dell’isola, rappresentata dalle istituzioni siciliane, prona ai voleri degli interessi finanziari ed industriali delle grandi imprese italiane e dunque schierata contro le classi popolari e i lavoratori siciliani”. Un’autonomia differenziata che dunque viene letta con un’ottica semplice ed inequivocabile: serve ad arricchire chi già ricco è ed impoverire il resto della popolazione.
Ma cosa si intende con autonomia differenziata? Prima di tutto va detto che il termine trova riscontro soltanto nel gergo giornalistico ma la sostanza, giuridica e politica, è prevista dalla costituzione all’articolo 116 terzo comma: «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119”. Con termini meno giuridici, l’articolo 116 della costituzione consente alle regioni di ottenere una maggiore autonomia – legislativa ed economico-fiscale – su tre materie che sono di competenza esclusiva statale sui giudici di pace (lettera l) comma secondo articolo 116), norme generali sull’istruzione (lettera n) articolo 116) e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (lettera s) articolo 116 costituzione).»
Questa norma costituzionale non ha mai trovato attuazione legislativa fino al febbraio scorso, quando il governo approvò il disegno di legge “autonomia differenziata” che introduce per la prima volta una procedura per l’ottenimento, da parte delle regioni, di maggiore autonomia. Il decreto nasce dopo 5 anni dai due referendum tenutisi in Lombardia e Veneto nel 2018 e la proposta dell’assemblea regionale dell’Emilia-Romagna, impulsi politici verso una maggiore forma di autonomia. Il nuovo disegno di legge, costruito da Calderoli e dalle Lega, prevede una procedura abbastanza snella ma molto fumosa, e dunque pericolosa, su alcuni aspetti dirimenti che riguardano i principi di perequazione stabiliti dall’articolo 116 e 119 della Costituzione.
Innanzitutto il decreto non prevede una procedura unica con la quale le regioni possano chiedere al governo maggiore autonomia: semplicemente si rimanda ad una intesa a due fra governo e regione qualora quest’ultima faccia richiesta – probabilmente con un atto ufficiale della assemblea regionale – di una intesa per l’ottenimento di una maggiore autonomia. Oltre alla mancanza di una procedura standard, ad essere sotto attacco è la parte del decreto in cui si parla dei LEP – Livelli Essenziali di Prestazioni. Si tratta molto semplicemente della necessità di garantire, al di là dei differenti livelli di autonomia, gli stessi servizi a tutti i cittadini, qualitativamente e quantitativamente. La definizione dei Lep è, sulla carta, devoluta al governo che tuttavia non ha alcuna scadenza nel definire periodicamente (ogni tre anni, come prevede il decreto) i livelli essenziali minimi di servizi come la sanità, la scuola, gli investimenti in infrastrutture, trasporti, connessioni internet, retribuzioni pubbliche e, anche, la possibilità in capo alle regioni di trattenere tutta la quota versata nel proprio territorio dei vari tributi “statali” come Irpef, Ires, Iva etc. Nel caso in cui il governo non dovesse definire i Lep, allora si applicherebbe il principio della “spesa storica”, principio che comunque sarebbe alla base della definizione dei Lep. Ed il problema fondamentale della questione autonomia finanziaria è proprio questo: la spesa storica favorirà senza alcun dubbio le regioni del nord che hanno sempre avuto una spesa in termini di servizi maggiore di quelle del sud; un divario che non è il frutto di una maggiore competenza o efficienza settentrionale – come narra da trent’anni la retorica leghista – ma è figlia dei maggiori trasferimenti avvenuti nell’ultimo secolo e che hanno dunque ampliato il divario nord-sud. Insomma, se le cose rimanessero così – e probabilmente rimarranno così – si tratterà di una vera e propria secessione dei ricchi, come l’hanno ribattezzata in molti.
Intervistato da Repubblica e riportato da Wired, Luca Bianchi, il direttore del centro di ricerca Svimez sul divario regionale, ha criticato il disegno di legge di Calderoli proprio sostenendo come la definizione dei Lep si attende da “oltre venti anni” e fino a oggi hanno “cristallizzato i divari di servizi nel nostro paese”. Inoltre, sempre secondo Bianchi, l’autonomia colpirebbe gravemente il sistema scolastico con “un vero processo separatista” in cui si avrebbero “programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e funzionamenti differenziati”.
In buona sostanza, la classe dominante italiana, quella legata alle imprese e alla finanza in gran parte del nord, sta pensando di separarsi lentamente dal resto del paese per potersi legare ancora di più alla carovana europea, concludendo quel processo di internazionalizzazione cominciato negli anni Ottanta, tra ristrutturazione industriale, vincoli esterni (validi solo per i lavoratori e le classi popolari) che hanno arricchito ancora di più banche, finanza speculativa e le grandi imprese e adesso con la secessione silente. Non è un problema di nazionalismo o di unità – chi scrive è a favore dell’autodeterminazione dei popoli – ma una questione di principio, anzi di classe. È evidente come questo progetto sia totalmente sbilanciato a favore di chi, indipendentemente dalla provenienza territoriale, ha saccheggiato la classe lavoratrice e adesso vuole passare all’incasso politico ed economico finale con il benestare della classe politica del sud che continua a fare interessi che non coincidono con quelli dei suoi cittadini.
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