Riccardo Giordano
Avanti.it
In De gli eroici furori (1585), il grande filosofo nolano Giordano Bruno, messo al rogo per aver difeso la libertà del pensiero contro il dogmatismo che vorrebbe irrigidirlo in uno schema, riprende il mito di Atteone, il giovane che, cacciando nel bosco, viene trasformato in cervo e sbranato dai suoi stessi cani per aver visto la dea Diana bagnarsi in un lago. Nell’interpretazione classica, il mito simboleggia la hybris dell’uomo che, volendo conoscere troppo, finisce con l’essere distrutto dalla sua stessa sete di conoscenza. Bruno reinterpreta questo mito: Atteone è il filosofo che, guidato da un levriero e da un mastino – un cane agile e uno più massiccio e potente, a rappresentare rispettivamente la facoltà del pensiero e quella della volontà – si avventura per sentieri inesplorati, sfida le colonne d’Ercole del già noto, per immergersi nell’Anima mundi (Diana) e scorgere così la fitta rete di relazioni analogiche che collegano il microcosmo al macrocosmo, il visibile all’invisibile, l’umano al divino. Quando, finalmente, riesce nella sua impresa allora si accorge di essere parte di quel tutto che stava contemplando, di quella natura magnifica e animata da forze intelligenti, e finisce “divorato” dalle sue stesse facoltà di conoscenza. È curioso notare come la parola “sophia”, conoscenza, abbia la stessa radice del verbo latino “sapio” che vuol dire sia “io so” sia “io assaporo”, quasi a indicare che la vera conoscenza non può mai restare un sapere astratto intorno alle cose, ma deve essere trasformata in “carne e sangue” (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Libro III).
Circa duecento anni dopo Giordano Bruno, un altro filosofo e poeta, il fondatore dell’idealismo magico Novalis, nella sua opera più importante I discepoli di Sais (1799), racconta la storia di un giovane che, volendo comprendere il mistero dell’Universo, si reca presso il tempio di Sais dove, sollevando il velo che nasconde il volto della dea Iside, potrà saziare la sua sete di conoscenza. Nell’appendice a quest’opera leggiamo i seguenti versi: «arrise ad uno di sollevare il velo della dea di Sais. Ebbene, cosa vide? Meraviglia delle meraviglie, vide se stesso». Queste parole hanno un duplice significato: da una parte, come si è già avuto modo di sottolineare in un precedente articolo, si inseriscono in quel solco di ricerca che nel nostro tempo pone al centro dell’attenzione il mistero della percezione, della coscienza nella cui luce la natura si manifesta. Dall’altra, però, ci lascia intuire che per conoscere se stesso l’uomo non deve più entrare dentro di sé, in una profonda introspezione, ma al contrario deve immergersi nella contemplazione dell’universo vissuto sub specie interioritatis, cioè come esperienza interiore, mediante il pensiero che – liberato dai limiti dei sensi fisici e da tutti i condizionamenti inconsci che lo imprigionano nelle sabbie mobili della meccanicità e della sterile astrattezza concettuale – ritorna a essere immaginazione vivente.
«Mi accorsi subitamente della mia incorporeità e della radicale, evidente, immaterialità dell’universo; mi accorsi che il mio corpo era in me, che le cose tutte erano interiormente, in me; che tutto faceva capo a me, ossia al centro profondo, abissale e oscuro del mio essere. Fu una improvvisa trasfigurazione; il senso della realtà immateriale, destandosi nel campo della coscienza e ingranandosi col consueto senso della realtà quotidiana, massiccia, mi fece vedere il tutto sotto una nuova luce […] sentivo di essere un punto indicibilmente astratto, adimensionale; sentivo che in esso stava interiormente il tutto, in una maniera che non aveva nulla di spaziale. Fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; non solo l’io non aveva più l’impressione di essere contenuto, comunque localizzato, nel corpo; non solo aveva acquistato la percezione della incorporeità del proprio corpo, ma sentiva il proprio corpo entro di sé, sentiva tutto sub specie interioritatis.» (Arturo Reghini, Introduzione alla magia. Volume primo, Roma, Edizioni Mediterranee, 1971). La chiave per questa rinnovata percezione della realtà, come si diceva, è celata nella trasmutazione del pensiero, per comprendere la quale possiamo riferirci a un’immagine. Immaginiamo il vento che passa attraverso i rami degli alberi muovendoli: la nostra attenzione è catturata da ciò che si muove e proprio per questo non siamo in grado di percepire la forza che muove. Fuor di metafora: noi conosciamo i pensieri, i concetti e le immagini mentali, ma non siamo in grado di percepire la forza che li pensa e li ordina. Ecco, l’arte della concentrazione consiste proprio nel riuscire a spostare l’attenzione dal contenuto a ciò che lo determina.
Giordano Bruno e Novalis: entrambi fanno riferimento a una conoscenza che supera la dualità tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, tra io e mondo, ma mentre nel caso del filosofo nolano l’uomo si scioglie nell’anima del mondo (come leggiamo nella letteratura mistica), in Novalis è l’uomo che, trascendendo la propria individualità egoica, reintegra il cosmo dentro di sé. Nel primo caso l’uomo resta passivo, come chi subisce un’attrazione; nel secondo svolge invece un ruolo attivo, compie quella che potremmo definire una trasmutazione alchemica. C’è un simbolo particolare dell’Ermetismo classico che permette d’intuire questo passaggio: l’uroboro, il serpente che morde la sua stessa coda. L’immagine circolare suggerisce l’idea che principio e fine coincidono e che, quindi, colui che guarda e ciò che è guardato sono la stessa cosa. Coltivare dentro di noi, cioè a dire meditare, l’idea che, quando immergiamo lo sguardo nell’infinita vastità di un cielo stellato, è in realtà nella parte più profonda della nostra anima che stiamo guardando (ecco perché, anche se ci percepiamo come esseri finiti, siamo tuttavia profondamente attratti dall’infinito, ne possediamo il vago presentimento) è il primo passo per accedere a un altro e più profondo stato di coscienza. Bruno e Novalis fotografano esattamente il pensiero del loro tempo: la percezione che l’uomo aveva di sé e del mondo nel tempo antico, e poi al sorgere della civiltà moderna e, perciò, identificano due tipi umani profondamente diversi. Il primo, centrato nel realismo (l’universo, il mondo); il secondo, nell’idealismo (la coscienza, la percezione).
Per questa ragione, noi possiamo spostare le loro visioni anche su un campo più vicino a noi, cioè alla prassi politica. L’uomo antico traeva il senso di sé dalla comunità, dall’identificarsi con un’anima di gruppo, dall’immergersi in un’atmosfera psichica che ne condizionava inconsciamente non solo gli usi e i costumi ma anche, profondamente, il corso dei pensieri, determinando una specifica visione del mondo e della vita. «Gli scambi e le interpenetrazioni di natura psichica sono ancora più intimi e profondi di quelli fisici. Spesso non si può dire in realtà dove cominci una persona e dove finisca un’altra. In certi gruppi bene affiatati, in una collettività organizzata, i limiti dell’io, della personalità dei loro membri, sono diffluenti, non nettamente distinti. Siamo proprio immersi in un’atmosfera psichica, nella psiche collettiva e nelle sue varie differenziazioni» (R. Assagioli, Psicosintesi, Roma, Edizioni Mediterranee, 1983).
L’uomo moderno, al contrario, profondamente radicato nel pensiero razionale che tutto divide e separa, percepisce se stesso come individuo, come frammento isolato dalla comunità sempre in “lotta” con gli altri e, a volte, persino con se stesso. Possiamo tutti ogni giorno osservare come l’individualismo, il trionfo dell’ego, siano il male più grande del nostro tempo, il veleno che uccide la politica, il deserto della solitudine che fa da sfondo alla vera e terribile malattia dei nostri anni: la depressione, la noia. Questo è il prezzo che abbiamo dovuto pagare per giungere a sperimentare il senso dell’io cosciente, e quindi la libertà e con essa la responsabilità che fanno dell’Uomo una immagine divina.
Quello che ora dobbiamo comprendere è che non si può restare eternamente a vagare nel deserto, non si può rimanere prigionieri della propria solitudine esistenziale: di questa condizione occorre prendere la quintessenza – il senso dell’io – per andare oltre, per ricostruire un nuovo senso della comunità che non sia più il portato di una istintività inconscia, dell’adesione passiva e spesso meccanica a un’idea; ma piuttosto la scelta libera e consapevole di chi, riconoscendo dentro di sé, nel profondo del proprio cuore, il fuoco di un’idea, la dona agli altri. Esattamente come nei versi finali de I discepoli di Sais, l’individuo – non un’entità astratta, ma ciascuno di noi – deve assurgere al ruolo di “pastore dell’Essere”, di colui che, come nel mito cavalleresco della tavola rotonda, alimenta con le sue “avventure” il fuoco comune della Ricerca.
Questa scoperta all’interno di sé del vero senso dello stare insieme, questo atto di profonda consapevolezza che porta a sentire – realmente – nella rossa caverna del cuore il tepore della vera fratellanza, è l’unica possibilità che ci resta, di là da certa retorica sovranista, per sfuggire alla cupa omologazione della massificazione globalista.
[in copertina: Wassily Kandinsky, Composizione su bianco, 1920]
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