Davide Miccione
Avanti.it
Sotto l’albero, in questi giorni, i futuri leader della parte democratica (o, più esattamente, della parte che tale si ritiene) stanno trovando, gradito dono, la confezione de “Il piccolo biopolitico”, gioco da tavola che da qualche anno sembra vada per la maggiore. Sostituisce le altrettanto gradite proposte de “Il piccolo trader” e “Il piccolo banchiere” e del più vecchio “Il piccolo liberaldemocratico”, tutti giochi che hanno furoreggiato dopo la fine degli anni Ottanta e hanno aiutato a formare nel modo più lieto e meno traumatico le brillanti classi dirigenti europee. Restiamo in attesa, magari già per l’anno prossimo, di una prima edizione de “Il piccolo transumanista”, prodotto che si annuncia già destinato a durare: per la sua giocabilità, per il numero di partecipanti e per la quantità di scenari, tutti appassionanti, che i nostri piccoli giocatori potranno mettere in campo.
Per giocare al “biopolitico” e al “transumanista” però, i nostri piccoli giocatori (che tali restano anche qualora raggiungano la mezza età) devono accettare alcune regole e aderire, ne siano consapevoli o meno, ad alcuni soggiacenti criteri di interpretazione del mondo e conseguenti principi etici. A fronte di questa previa adesione non vi sono altri particolari prerequisiti per giocare: la debole struttura umanistica, la scarsa frequentazione del canone filosofico occidentale, la perduta comprensione della storicità delle cose non sono qualità necessarie anche se indubbiamente aiutano.
Quali sono dunque questi criteri e questi principi? Innanzitutto l’idea della infinita e indolore mutabilità dell’uomo, il suo venir considerato alla stregua di uno strumento da aggiornare: era del resto pensabile che l’onnipresente utilizzo della struttura di funzionamento del computer come unico paragone per spiegare la mente umana non ci presentasse in qualche modo il conto? L’uomo è qualcosa a cui fare uno o più upgrade senza starci troppo a pensare e il superuomo, in spregio al lungo dibattito interpretativo nicciano, ne è solo la versione più aggiornata. Si rende necessario vedere l’uomo come illimitata plasmabilità, come una materia indistinta da cui tutto si può trarre e di cui tutto si può fare (sempre per il suo bene, si intende!). La stessa insistenza della cultura gender nel portare a termine l’atrofia della sfera del biologico che è implicita in quella teoria, anche a voler tener conto dei buoni propositi di alcuni attivisti, si inserisce perfettamente in questa temperie propedeutica all’infinita manipolazione dell’uomo.
Non è più il caso, se si vuole giocare con piena partecipazione e poter gareggiare per i ricchi premi de “Il piccolo transumanista”, di baloccarsi con teorie apocalittiche (l’alienazione marxiana o francofortese) e neppure con gli scrupoli di un Max Weber, non propriamente un pericoloso rivoluzionario, che descriveva problematicamente una situazione a inizio Novecento in cui «l’apparato psico-fisico degli uomini viene qui pienamente adattato alle richieste che ad esso pongono il mondo esterno, lo strumento, la macchina, in breve la funzione; viene spogliato del suo ritmo, quale è dato dalla sua connessione organica, e riordinato completamente in corrispondenza delle condizioni del lavoro, con una scomposizione sistematica nelle funzioni dei singoli muscoli e con la creazione della migliore economia di forze».
Eppure, se prima per Weber l’uomo veniva “spogliato del suo ritmo” nei modi e nei tempi che la fabbrica imponeva, che pensare oggi che ne viene spogliato nella totalità della sua esistenza quotidiana, senza differenza tra giorno e notte, intimità della casa e mondo esterno, lavoro e tempo libero (che non lo è più) dunque senza limiti di spazio né di tempo? Se prima bisognava temere per la sua integrità oggi bisognerebbe farlo a maggior ragione. Quello che un tempo si studiava e si paventava avvenisse nel chiuso della fabbrica per il tempo che la fabbrica occupava nella vita degli esseri umani, ora si svolge nell’intera vita dell’uomo sempre sottoposta a una alterazione del ritmo necessitata da esigenze esterne portate da quel tecno-capitale a cui deve, volente o nolente, adattarsi. È l’uomo che deve adeguarsi all’esigenza dell’infinita connessione e tracciabilità e non la connessione a doversi limitare in ragione delle esigenze umane.
Forse la carta degli “Imprevisti” che “Il piccolo transumanista” pesca a questo punto per non occuparsi della questione è quella della volontarietà con cui ci sottoponiamo, persino pagando, a questa rottura del ritmo umano. Ma la volontarietà ha smesso di essere tale ed è diventata una foglia di fico da quando l’inserimento nella rete della portabilità di internet (insomma il possesso e utilizzo dello smartphone) è diventato il requisito necessario per lavorare e per avere una socialità minima. Si chiede insomma l’adesione a qualcosa che non è oggetto di scelta per il numero e il peso delle condizionalità subite da ciascuno (si spera che a qualcuno ciò ricordi qualcosa di recentemente vissuto).
L’attenzione che la parte della popolazione meno convinta dalla attuale “favola bella” del potere mostra per l’emersione e i rischi del transumanesimo nelle sue forme più eclatanti, rischia però di tradursi in una lettura insufficiente del fenomeno. La perlustrazione e il conseguente allarme sulle nuove forme di vigilanza telematica (dalle telecamere ai green pass ai tracciamenti), sul credito sociale, sulla smaterializzazione del denaro, sui deliri anti-mortalisti a base di silicio, sulle propagande per la realtà virtuale come alternativa a quella senza aggettivi, sulla fusione (e direi confusione) tra uomo e macchina eccetera, è assolutamente necessario e benemerito. È, diciamo così, il pacchetto di mischia senza cui non varrebbe neppure la pena di giocare la partita. Ma la concentrazione su questi aspetti rischia di convincerci che la battaglia sia essenzialmente politica e legislativa quando è invece essenzialmente culturale. Si rischia, in caso contrario, di cogliere solo ciò che emerge e non la manipolazione del comune sentire che porta e permette, soprattutto nelle giovani generazioni, questi mutamenti.
Lasciamo ad altri la preoccupazione per l’intelligenza artificiale che si impadronirà del mondo, ciò che preoccupa è il rapido tramonto di quella umana, comprendente, ampia, proprio quella senza cui l’artificiale verrà invocata come una liberazione. Non è il computer che ci batte negli scacchi il problema, ma l’incapacità sempre più diffusa di leggere questo evento per come andrebbe letto, cioè nella sua irrilevanza. In un suo libro intervista, Zygmunt Bauman racconta che «Pat Bertroche, candidato repubblicano al Congresso americano nello Stato dello Iowa, ha proposto sul suo blog (…) che venissero impiantati microprocessori nei corpi degli immigrati illegali: dopotutto, ha spiegato, posso innestare un microprocessore nel corpo del mio cane, se desidero essere in grado di trovarlo. Perché non fare lo stesso con gli illegali? Già, perché?». Bauman non sta qui, con ogni probabilità, indicando un esponente dell’Internazionale transumanista. L’impiantatore di microprocessori dell’Iowa sarà, da buon repubblicano, a favore della famiglia naturale (qualsiasi cosa ciò significhi), della patria e delle vecchie sane tradizioni americane. Cionondimeno, nella sua furia contro quello che ritiene esser un nemico (gli illegali) e nella sua evidente ignoranza e incomprensione giuridica e morale delle cose, abbandona la difesa dei diritti umani di tutti e spalanca praterie a ogni possibile esproprio del corpo umano. Questo è un buon esempio di quello che prima si affermava. Una cultura generale sempre più striminzita, astorica, tecnocratica, egotista, bassamente pragmatica, non ha gli anticorpi per rispondere alla deriva transumanista.
Quando Meta, la rivendita di oppio telematico di Zuckerberg, scrive, in uno spazio pubblicitario a tutta pagina acquistato nelle scorse settimane su un compassato giornale confindustriale color paglierino, «il metaverso avrà un impatto positivo nel campo dell’istruzione, per questo stiamo contribuendo a svilupparlo. Le lezioni virtuali potranno trasportare gli studenti nell’antica Roma, per osservare gli eventi storici in prima persona» concludendo poi con il claim «il metaverso è uno spazio virtuale, ma il suo impatto sarà reale», ebbene non è certo il metaverso il problema fondamentale. Il problema è invece quante poche persone leggendo la pubblicità la troveranno falsa in una misura che rasenta la mancanza di rispetto, perché ipotizza che qualcuno possa credere che il motivo per cui Meta sviluppa il metaverso sia “l’impatto positivo nel campo dell’istruzione”. Il problema è quanti inoltre noteranno che è nuovamente falsa la pubblicità perché la storia è proprio l’opposto di ciò che pubblicizza Meta: è non vivere le cose in prima persona, raffreddarle con una concettualizzazione adeguata e saper vedere quello che i contemporanei non erano in grado di vedere. Meta lavora solo per contrarre ancora la gabbia del presente continuo in cui siamo finiti puntando ancora sull’emotività e la mancanza di sguardo prospettico.
Di esempi così se ne potrebbero fare decine: da quanto tempo non sentite giudicare le persone in termini di profondità e di cultura invece che di competenze? Da quanto tempo non ci si scandalizza più perché si pretende di scegliere persone per ruoli importanti e delicati come il medico o l’insegnante con quella oscenità morale e cognitiva che sono i test? Da quanto tempo non sentite fare un elogio della riservatezza o qualcuno sottrarsi al carnaio del panopticon social? Da quanto tempo non sentite mettere al centro della formazione di qualcuno la conoscenza e il godimento delle grandi opere artistiche e filosofiche umane? Da quanto tempo qualcuno non vi fa notare che le conoscenze non bisogna sapere dove trovarle ma possederle in proprio e che solo possedendole si può valutare comparativamente la conoscenza in rete? “L’imparare ad imparare” è solo una formula che oscilla tra l’asintotico e il masturbatorio.
Insomma il campo di pertinenza dell’umano si restringe sempre di più. L’ossessione per la digitalizzazione è arrivata perché la gente era già pronta per la mietitura. Ogni transumanismo trionfante riposa su quello che potremmo ribattezzare “subumanismo”, cioè su una concezione che vede l’attività umana come performance e non come significato, l’identità umana come sostituibile e non come irripetibile. Non è la macchina ad essere superiore, siamo noi che decidiamo di sfidarla in campi che non ci appartengono e veniamo sostituiti da essa o ci ibridiamo con essa per reggere il confronto.
La buona battaglia, che la si faccia per vincere o anche solo per testimoniare la propria contrarietà o la propria diversità, si fa casa per casa. È il transumano della porta accanto quello che andrebbe convinto, che non ha motivi forti per “transumanizzarsi” oltre la propria ignoranza, confusione mentale e istinto gregario; non certo la classe dirigente che è pagata per portare avanti le battaglie più convenienti per il sistema.
LUCA FERRON dice
Tutto vero . Occorre pero’ porsi inoltre una questione : in base a quali evidenze possiamo dire che questa tendenza , alla quale noi fermamente e fieramente ci opponiamo , non sia il “naturale” percorso evolutivo attraverso il quale la specie e’ destinata a transitare? Siamo noi che ci opponiamo ad esso ad essere nel giusto oppure tutti gli altri che , a mio parere , seguono quello che potrebbe essere ipotizzato come il traguardo evolutivo verso l’emergenza di una nuova forma di vita che per una specie dalle spiccate tendenze alla socialita’ e con forti connotati gregaristici potrebbero essere inevitabili?
https://kk.org/mt-files/books-mt/ooc-mf.pdf?fbclid=IwAR0gpevbYONScAx1wMdW_-ct5QzdY9RJ6gH_4spy3JeOLAdoq0YSp6FfsvA
nick dice
Completamente d’accordo, siamo pronti per la mietitura o bolliti come le rane di Chomsky. Pezzo pezzo, abbiamo rinunciato alla nostra umanità per trasformarci in “macchine da PIL”. Abbiamo asfaltato ogni traccia di emozione genuina, di altruismo, di compassione e di empatia, Siamo diventati cinici e nichilisti. Tutto ha una conseguenza: oggi rischiamo di essere soppiantati da un’intelligenza artificiale che si pregia di prendere decisioni migliori perché non intralciati da “sentimenti”. Siamo tutti corresponsabili di come ci siamo lasciati plasmare e ci siamo auto-plasmati.