Carlo Formenti
Avanti.it
Dallo scorso gennaio il Perù è scenario di durissimi scontri fra polizia e manifestanti, particolarmente violenti nelle aree rurali, dove la polizia ha più volte aperto il fuoco uccidendo decine di persone, ma dai quali non si è salvata nemmeno la capitale Lima, dove il governo ha schierato più di diecimila poliziotti per blindare il centro storico, onde scongiurare quello che i media hanno descritto come il rischio di una “presa di Lima” da parte di colonne di manifestanti provenienti da tutto il paese, oltre a far sgomberare la Universidad Nacional Mayor de San Marcos, operazione nel corso della quale sono stati arrestati duecento studenti. I manifestanti chiedono tre cose: la liberazione dell’ex presidente Castillo, arrestato con l’accusa di aver tentato un golpe istituzionale (lo scorso dicembre ha cercato di di sciogliere il Congresso in mano all’opposizione di destra, annunciando di voler indire una Assemblea Costituente); le dimissioni della vicepresidente Dina Boluarte, che ne ha preso il posto; infine l’indizione di elezioni anticipate.
A chiedere elezioni anticipate non sono solo le sinistre, ma anche parte delle destre, le quali non vorrebbero tuttavia che si tenessero prima del 2024, onde avere il tempo di far approvare alcune riforme, fra le quali il divieto di rielezione per chi abbia già svolto incarichi parlamentari e di candidare chi abbia precedenti penali, provvedimenti palesemente finalizzati a condizionare i risultati elettorali (soprattutto il secondo, ove si consideri che la magistratura è particolarmente propensa a condannare i militanti della sinistra).
Prima di abbozzare un’analisi delle cause che hanno generato questa situazione, vale la pena di evidenziare le non poche analogie con quanto successo negli ultimi anni in altri paesi latinoamericani. In particolare: le accuse di golpe istituzionale contro Castillo ricordano quelle rivolte al presidente venezuelano Maduro in analoghe circostanze (Maduro non ha subito il suo destino solo perché ha potuto contare sul sostegno dell’esercito); le ulteriori accuse di corruzione avanzate nei suoi confronti richiamano quelle rivolte a Lula (il quale ha dovuto scontare anni di galera prima di tornare al potere); la svolta a destra di Dina Boluarte (ex membro del partito di Castillo fulmineamente riciclatasi in campo avverso) è uno di tanti casi analoghi (vedi la conversione al neoliberismo di Lenin Moreno dopo essere stato eletto alla presidenza dell’Ecuador con un programma ispirato alle politiche antiliberiste del suo predecessore, Raphael Correa); infine l’accanimento contro Castillo è assai simile a quello contro l’ex presidente boliviano Morales, rovesciato da un golpe militare (anche se il suo partito è tornato al potere pochi mesi più tardi, rivincendo le elezioni), nella misura in cui entrambi appartengono a quelle etnie originarie andine che rappresentano la schiacciante maggioranza degli strati più poveri della popolazione.
Queste instabilità politico-istituzionali (al pari dei loro risvolti giuridici e ideologici), si inseriscono nel quadro che l’ex vicepresidente boliviano Linera viene tratteggiando attraverso una serie di articoli, discorsi e interviste recenti: le conseguenze devastanti delle politiche neoliberiste imposte dal consenso di Washington sulle condizioni delle classi popolari hanno provocato in vari Paesi (fra la fine dei Novanta e il primo decennio del Duemila) poderose mobilitazioni di massa (con forte protagonismo delle etnie andine) che hanno rovesciato presidenti, imposto radicali riforme costituzionali, e portato al potere movimenti politici emergenti perlopiù definiti come “populisti di sinistra”(a mio avviso impropriamente, nel senso che li si accosta ad analoghi fenomeni europei e nordamericani, ignorandone le peculiarità). A questa ondata ha fatto seguito una prima reazione delle destre (vedi i casi sopra evocati) e una successione di ondate e contro ondate destinata, secondo Linera, a durare a lungo, nella misura in cui il persistere della crisi economica aggravata dalla pandemia e il rischio di uno scontro globale fra Usa e Ue da un lato, Russia e Cina dall’altro, favoriscono l’instabilità di sistemi politici già di per sé costitutivamente fragili.
In questo contesto, le specificità del Perù, secondo Manolo Monereo (intellettuale comunista spagnolo, ex deputato di Podemos e acuto osservatore dei fatti latinoamericani) sono soprattutto due:
- il fatto che il sistema attuale si è costruito nel confronto militare con la guerriglia di Sendero Luminoso, il che gli ha consentito, da un lato, di disegnare un sistema costituzionale che non può essere cambiato né riformato, dall’altro di porre le sinistre sotto il costante ricatto di essere accusate di connivenza con il terrorismo (per esempio: il governo dipinge le attuali manifestazioni come atti terroristici finalizzati a seminare il caos, il che gli ha permesso di proclamare lo stato di emergenza);
- il fatto che la dittatura di Fujimori, al pari di quella del cileno Pinochet, ha funzionato come esperimento di applicazione manu militari delle regole ordoliberali, nel senso che ha dimostrato la possibilità di fondare un ordine del mercato attraverso le decisioni del potere politico (ecco perché, commenta Monereo, Cile e Perù non hanno dato vita a una riedizione storica dei regimi fascisti europei fra le due guerre mondiali, ma ne hanno anticipato il futuro, fornendo un modello per la costruzione dell’Europa di Maastricht, un sistema irriformabile dotato di regole ideate per limitare la democrazia e adattarla alle esigenze del mercato).
Questa compresenza di condizioni socioeconomiche che generano elevati livelli di conflitto e d’un sistema istituzionale bloccato, che impedisce persino di immaginare concrete alternative politiche, partorisce mostri: una classe politica corrotta, inetta, cinica e senza progetto e, soprattutto, incredibili livelli di corruzione. Il potere reale è saldamente nelle mani dell’oligarchia finanziaria locale e internazionale (in primis Usa), la quale corrompe i politici e, quando la situazione degenera, delega ai media (ferramente controllati delle destre economiche) il compito di sputtanarli e alla magistratura, spesso non meno corrotta, di toglierli di mezzo. Quando i leader di sinistra vanno al potere si trovano quindi di fronte a un tragico dilemma: o tradiscono (come hanno fatto Lenin Moreno e Dina Boluarte), oppure vengono travolti (come Morales Lula e Castillo). Il bello è che le accuse di corruzione e golpismo istituzionale con cui vengono rovesciati sono spesso fondate (almeno sul piano formale), dal momento che governi senza poteri reali e senza concreti margini di manovra, se vogliono cambiare le cose, sono costretti a ricorrere a metodi “sovversivi”.
In poche parole, il nodo da sciogliere riguarda la natura e la forma stessa dello Stato e dei suoi rapporti con la società. Non a caso gli esempi di successo, pur con tutti i loro limiti e non senza rischi di regressione, sono quelli delle rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Bolivia, Ecuador) che hanno tentato di scardinare il vecchio apparato statale introducendo nuove costituzioni. A rendere possibili tali tentativi è stata l’ascesa di nuovi leader e movimenti nazional popolari che hanno capito che nei loro Paesi nessun reale cambiamento è possibile senza fare leva sulle aspirazioni, i bisogni e le esigenze delle etnie originarie che, pur rappresentando una quota maggioritaria delle classi subalterne, non sono mai stati integrati nel sistema politico.
Le divisioni interne alle sinistre latinoamericane (non solo in Perù) non nascono solo dalla contrapposizione ideologica fra “riformisti” e “rivoluzionari”, ma anche dalla difficoltà di molti suoi esponenti nel riconoscere questo, inestricabile e contraddittorio, intreccio fra conflitti di classe e conflitti etnico culturali. Non è un caso che a mobilitarsi per chiedere la liberazione di Castillo (nel quale riconoscono un simbolo della propria duplice condizione di sfruttati ed emarginati, così come Morales era divenuto il simbolo dei “cocaleros” boliviani) siano soprattutto gli indios delle zone rurali, mentre le percentuali di partecipazione calano a Lima. Il fatto è che nei centri metropolitani – gentrificati e terziarizzati – si concentra la piccola borghesia creola, tradizionale ed emergente, che, anche se e quando si schiera a sinistra, tende ad esprimere posizioni più moderate; è più restia a mettere in gioco le regole della liberal democrazia, pur riconoscendo che si tratta di regole “truccate”; antepone spesso, come nei Paesi occidentali, gli obiettivi dei diritti individuali e civili a quelli socioeconomici; infine non è mai del tutto esente da pregiudizi razziali. Senza sciogliere questi nodi, sarà difficile ottenere vittorie significative contro una destra agguerrita e compatta, sostenuta da media, apparato statale, esercito, magistratura e polizia, nonché dalla longa manus di Washington.
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