Carlo Formenti
Avanti.it
Cinque o sei anni fa fa il filosofo comunista Domenico Losurdo dava alle stampe un libro in cui annunciava la morte del marxismo occidentale (Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere). Diagnosi azzeccata, ove si pensi che oggi del socialcomunismo occidentale come movimento politico organizzato si è persa memoria, come testimonia il fatto che le nuove generazioni di lavoratori, che avrebbero più di un motivo per chiedersi perché i loro padri e i loro nonni erano socialisti o comunisti, appaiono invece in tutt’altre faccende affaccendate: soprattutto a inventarsi espedienti per sopravvivere alla crisi, ma anche a consumare compulsivamente prodotti culturali di infimo ordine.
Altro discorso se rivolgiamo l’attenzione alle élite neoliberali che governano l’occidente: più le socialdemocrazie (o quanto ne rimane) rinnegano gli antichi ideali e più la cultura comunista si dissolve fin quasi a sparire, più questa gente sembra terrorizzata dall’idea che i loro fantasmi possano riapparire, quasi ritenessero attualissima la profezia del Manifesto sullo spettro che si aggira per l’Europa. Così, movimenti populisti a mala pena etichettabili come progressisti, come i 5 Stelle, vengono descritti come orde bolsceviche, così il Parlamento europeo approva deliranti delibere che equiparano comunismo e nazismo, così i paesi dell’Est Europa mettono fuori legge i comunisti o approvano leggi che assimilano chi rivendica i meriti storici dell’Unione Sovietica ai negazionisti della Shoàh. Così i nazisti ucraini vengono esaltati come combattenti per la democrazia e la libertà in nome di una russofobia che rispolvera i leitmotiv della Guerra Fredda, anche se la Russia di Putin non ha nulla a che vedere con l’avversario d’antan.
Deliri paranoici di un’ideologia che, avendo perso il nemico, sente il bisogno d’inventarsene uno? Il fatto è che il nemico c’è, e il pericolo che minaccia quelli che dopo il crollo sovietico credevano di essere divenuti i padroni incontrastati del mondo esiste ed è concreto. Forse il marxismo occidentale è morto, ma il marxismo rivisitato da e ibridato con le tradizioni culturali dei popoli asiatici, africani e latinoamericani è vivo e vegeto, così come vivi e vegeti sono i partiti e i movimenti che ne applicano gli insegnamenti in contesti extraeuropei. Se aggiungiamo il fatto che la crisi ha indebolito l’egemonia imperiale degli Stati Uniti, bloccato il processo di globalizzazione, favorito le velleità di autonomia di una serie di potenze locali (a partire dalla Russia) che tendono a fare sponda con l’emergente superpotenza cinese e gli altri paesi socialisti per sottrarsi alla tutela occidentale, la paranoia di cui sopra si spiega agevolmente: in tempi di scontro frontale, che minaccia di degenerare in Terza guerra mondiale, occorre consolidare le retrovie e impedire la nascita di “quinte colonne”. Così il pensiero unico neoliberale si converte in mobilitazione generale, arruolando partiti e media mainstream in una tambureggiante azione di propaganda che bolla ogni voce non allineata, ancorché moderata, e a maggior ragione ogni voce critica, come socialista, comunista, putiniana, antidemocratica, filo cinese, ecc.
A questa mobilitazione generale contribuiscono quelle sinistre che presentano il conflitto fra Stati Uniti e Cina come uno scontro “interimperialista” e si accodano al coro che accusa i governi di Cuba, Venezuela e Bolivia di essere totalitari, antidemocratici e nemici della libertà. Assistiamo insomma al paradosso di una destra liberale che chiama alle armi contro la minaccia socialcomunista e di una sinistra “progressista” che nega l’esistenza di paesi “veramente” socialisti. Difficile a questo punto negare l’impietosa diagnosi di Losurdo. Ma perché il marxismo occidentale è morto? Per rispondere bisogna forse partire da quanto scriveva Costanzo Preve in un libro del 1984: non esiste un pensiero “autentico” di Marx cui fare riferimento per distinguere fra ortodossia ed eresia. Non solo perché nella sua opera convivono diversi regimi narrativi, ma soprattutto perché le molteplici interpretazioni che ne sono state date nel corso del tempo non sono “deviazioni” ideologiche, bensì il riflesso di determinati contesti storici, economici e socioculturali.
La vitalità del “socialismo in stile cinese”, che ha permesso di trasformare un paese reduce da secoli di umiliazione coloniale in una superpotenza e di riscattare dalla povertà assoluta 800 milioni di persone, è il prodotto dell’ibridazione fra il marxismo-leninismo e le millenarie tradizioni culturali del celeste impero, come il confucianesimo. La vitalità del “socialismo del secolo XXI”, partorito dalle rivoluzioni bolivariane in America Latina, è il prodotto della commistione fra il marxismo rivisitato da intellettuali come Mariategui, Linera e Dussel, il comunitarismo delle comunità ancestrali indigene e il cristianesimo eretico della Teologia della Liberazione. A sua volta Gramsci (che per inciso ha svolto un ruolo decisivo nel pensiero rivoluzionario del subcontinente latinoamericano) scrisse che il vero eretico non era il “rinnegato” Kautsky bensì Lenin, in quanto leader di una rivoluzione “contro il Capitale di Marx”, nel senso che aveva rovesciato il dogma secondo cui il socialismo è possibile solo in contesti industriali avanzati e dimostrato nei fatti che la rottura rivoluzionaria è invece possibile solo nell’anello debole della catena, cioè in presenza di una crisi radicale dello stato e delle sue istituzioni, a prescindere dal contesto economico.
Il marxismo occidentale è morto perché ha ignorato o rimosso queste lezioni, perché è rimasto ingessato nel dogma economicista che postula che la transizione socialista è possibile solo nei centri dello sviluppo capitalistico, laddove le “condizioni oggettive” lo permettono. Così ha rigettato i socialismi “imperfetti” sorti nelle periferie del mondo, in quanto non adeguati al modello formulato da Marx ed Engels in un contesto storico superato da un secolo e mezzo. E’ ostaggio di una mentalità eurocentrica che non ha giustificazioni in una fase storica in cui l’Europa rappresenta una frazione marginale della realtà mondiale. Ma soprattutto continua a sognare la possibilità di perseguire un cambiamento radicale di sistema per via meramente elettorale in paesi in cui la democrazia liberale e i suoi valori hanno lasciato il posto a regimi oligarchici e post democratici.
Perché possa rinascere e rilanciare un progetto di transizione al socialismo in una situazione in cui una crisi senza sbocco, le minacce di una terza guerra mondiale e le catastrofi ambientali e sanitarie in corso rendono impellente il dilemma socialismo o barbarie, dovrà fare un’operazione simile a quelle messe in atto in altre parti del mondo, ma senza assumerle a modello, perché il primo insegnamento che esse ci offrono consiste appunto nell’avere preso atto che non esistono modelli. Dovrà in primo luogo tagliare i ponti con il retaggio eurocentrico, abbandonare l’illusione di trovarsi al centro del mondo e riconoscere la natura “locale” della propria tradizione civile e culturale. Dovrà prendere atto del fallimento storico e morale di tale tradizione e scavare fra le sue macerie, il che implica in primo luogo scavare fra le macerie dei propri innumerevoli fallimenti nello sforzo di riformarla, per indagarne le cause profonde. Dovrà infine assumersi la responsabilità etica degli effetti di quei fallimenti in termini di sanguinose sconfitte delle masse lavoratrici di cui non è riuscita a rappresentare gli interessi.
Sarà, se mai avverrà, un processo lungo, doloroso e difficile che potrà essere avviato solo da una nuova generazione di militanti e intellettuali liberi dalle incrostazioni dogmatiche e settarie delle generazioni precedenti, capaci di analizzare il concreto contesto storico, culturale e socioeconomico in cui vivono, non solo con rigore scientifico ma anche con una forte carica di empatia nei confronti di quelle classi subalterne cui è stata sottratta la speranza di poter migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. L’ideale socialista non è frutto di astratte speculazioni intellettuali ma del consapevole rifiuto dello stato di cose presente e di una feroce volontà di cambiarlo. Non si può essere marxisti se non si nutre una fede quasi religiosa nella possibilità di un altro futuro (è l’insegnamento del marxismo latino americano), ma anche se non si è dotati del più crudo realismo nella scelta dei mezzi per costruirlo (è l’insegnamento del marxismo cinese).
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