Davide Miccione
Avanti.it
In questa indagine sulle parole che stiamo mettendo in campo da qualche mese meritano senza dubbio la nostra attenzione le onnipresenti “resilienza” e “inclusione”, tra le più gettonate per chi statuisce l’avvolgente ideologia dei nostri tempi (che si basa, con sprezzo del ridicolo e della contraddizione, innanzitutto sulla pretesa di non avere un approccio ideologico). Ma se “resilienza” è fin troppo facile da capire nella sua implicita richiesta all’individuo di essere “temperante” e di tornare alle proprie occupazioni qualsiasi cosa succeda e senza lamentarsi, insomma di subire tutto quello che il sistema contemporaneo decide di farti subire (esodato, espulso dal sistema produttivo, delocalizzato, controllato, vaccinato a forza, inserito in un’economia di guerra senza essere in alcun modo consultato eccetera), per il termine “inclusione” invece le cose rischiano di essere più complesse e forse persino più subdole.
Onnipresente nel mondo della scuola e in ogni discorso che si pretenda sociale, il termine “inclusione” non può che fare breccia nei cuori di chi sa bene di essere finito in una società che, al di là della sua melassosa autorappresentazione, elimina progressivamente i legami che possano dare rassicurazione. Gli individui isolati sono chiamati a sperare, in caso di problemi, in un welfare che è reso oggetto, a ondate periodiche, a complessi ripensamenti che sono quasi sempre indebolimenti. Con una contraddizione che solo una mente funambolica può superare, il mondo è sempre più ricco ma si può permettere sempre meno welfare. Il mantra dell’inclusione appare cosi un balsamo lenitivo per una condizione sociale ed esistenziale di cui Bodei così descrive la progressiva mutazione: «Nel passato o in zone del mondo ancora a struttura pre-capitalistica il singolo era coperto da tante membrane collettive, era (…) all’interno di una Gemeinshaft, mentre ora è sempre più intimamente solo. La “comunità di vicinato” si è dissolta, la solidarietà del gruppo familiare allargato è dimenticata, e persino la famiglia ristretta è divenuta una istituzione dove si celebrano soprattutto rituali di consumo».
Questo sistema politico ansioso di inclusione sta però al contempo perfezionando, soprattutto negli ultimi tre anni, contenuti e tecniche mediatiche per dividere la società culturalmente e politicamente. Da decenni non si vedevano fratture così ampie interne alla popolazione su temi politici e sociali (sicuramente qualche pranzo di Natale ne sarà rimasto vittima) tanto da far sorgere più di qualche dubbio sulla veridicità del desiderio di inclusione, almeno ad alti livelli. Probabilmente “inclusione” è parola che rende bene l’idea se invece la si pensa in un rapporto per forza di cose asimmetrico, un rapporto in cui qualcosa di enorme (la società, il sistema economico, il potere politico) chiama a sé e ingloba qualcosa di minuscolo come un singolo individuo. Se chi scrive auspicherebbe, in sostituzione, parole diverse come “riconoscimento” o “dialogo”, è anche vero che queste parole hanno il difetto (per il potere) di invitare alla reciprocità e, in qualche misura, alla simmetria. Ma come la balena “include” il plancton e l’Occidente gli altri popoli così l’inclusione sembra parola ben scelta.
A fronte di una simile inclusione, si fa allora sempre più urgente iniziare a pensare un diritto di esclusione. Le politiche pandemiche e belliche e la loro trasposizione mediatica hanno in questo senso fornito un pur sgradito stimolo a pensare una questione che con il declino del liberalismo si farà, per i pochi “non convertiti”, sempre più pressante: l’inclusione obbligatoria. Anche mettendo tra parentesi la politicizzazione della salute individuale, il sistema di vita contemporaneo chiede, con l’imperiosità dei fatti, una sempre maggiore adesione a stili di vita, gestione del tempo e utilizzo di dispositivi già dati come predefiniti. Ogni giorno circolari amministrative, politiche commerciali e usi di vita rendono necessario il continuo accesso ad Internet e il possesso e l’uso di specifici dispositivi o applicazioni. I racconti paradossali di Ermanno Cavazzoni che immagina un uomo tentato dall’eremitaggio che prova a fuggire dalla città ma si trova invischiato in moduli da compilare e fiscalisti da rabbonire rendono bene l’idea di questa avanzata ininterrotta. Manca forse, però, il racconto della “normalità” dell’uomo comune che prova la stessa impossibilità del candidato eremita in ben più modeste aspirazioni quali: restare un giorno off-line, andare in giro in città senza portarsi dietro lo smartphone (e il parcheggio? E la fila in posta?), confinare le questioni di lavoro all’interno di un orario giornaliero dato, distrarsi per qualche mese dal numero enorme di abbonamenti, contratti, aggiornamenti, scadenze (visite mediche, documenti e poi pec e password e pin in scadenza) entro cui ci muoviamo. Sempre più spesso le domande esistenziali che si incontrano sono in realtà interrogazioni escapologiche. La esplicita o implicita richiesta è sempre più spesso come svignarsela da tutto questo.
Un libro importante di questo anno che va chiudendosi, Il diritto di essere contro di Ugo Mattei, prende molto sul serio la questione centrandosi sugli spazi di dissenso e resistenza rimasti nella società attuale e mostrandoci come in tutte le democrazie dissenso e resistenza ricevano una accoglienza ben poco “democratica”. Ma se il dissenso esplicito nel dibattito democratico è sempre stato appannaggio dei pochi in grado di accedervi (politici e intellettuali essenzialmente), oggi il web concede la possibilità a tutti, seppur a livelli di risonanza e penetrazione ben diversi, di dichiarare le proprie posizioni. Questa nuova condizione porta la censura ad un livello diverso, a doversi, si potrebbe dire, attrezzare frattalmente: dal controllo dei grandi giornali al blocco dei profili social. Perché, come dicono i menestrelli di regime, il web non è uno strumento ma un intero mondo e un modo di vivere, tranne quando torna essere un club esclusivo il cui proprietario può a suo arbitrio buttarti fuori.
È pero importante cogliere come, dietro la libertà di opinione e la libertà di poter partecipare a un libero dibattito senza essere sottoposto a procedimenti inquisitori, si celi un più radicale bisogno umano di spazi di libertà esistenziale, sociale, logistica. Ugo Mattei in diversi luoghi del libro mostra il nesso tra la libertà d’opinione e la privacy finendo con quello che noi qui abbiamo definito diritto d’esclusione: «Secondo la narrazione liberale, il soggetto (…) incontra il diritto che, come uno scudo, protegge un suo ambito personale nel quale egli può esprimere se stesso, il che comprende tutto il suo disaccordo perfino nei confronti dello stesso diritto che lo tutela. Da questa tradizione, che vanta antenati illustri (Locke ne è il più celebre), definitivamente messa in bella copia da John Stuart Mill, discende il diritto alla privacy, ultimo rampollo statunitense di una giuridicità protettiva in cui il singolo ha un “right to be let alone” (come sappiamo meglio tradotto come “diritto a essere lasciato in pace” piuttosto che “a essere lasciato solo”) da parte del potere». È il diritto a essere lasciati in pace che dovremmo iniziare a tematizzare, il diritto all’esclusione.
Alla definizione del pacchetto di inclusione forzata e alla comprensione del profilo di società post-democratica che esso forma (cioè quello di una società dove il dibattito non forma la verità ma la trova già imposta dal potere e si limita a svolgerla dividendosi su questioni di contorno) si contrappone dunque una maggiore insofferenza che fatica a trovare le forme culturali, e ancor più politiche, per esprimersi. Questo desiderio di fuga individuale può declinarsi come chiamata alla fuga collettiva, come desiderio di comunità alternative, in una sorta di escapismo comunitario. La scuola parentale è un tipico esempio di questa insofferenza. Si pensa evidentemente che l’evasione dalla gabbia d’acciaio di weberiana memoria non sia affrontabile singolarmente (appunto l’eremita trattenuto in città) e che magari in gruppo sia più facile trovare spazi di libertà e mantenerli più a lungo.
Queste soluzioni comunitarie (che fanno capolino ogni tanto anche nelle riflessioni di Giorgio Agamben) mostrano nei partecipanti non la sperimentazione e la ricerca di sistemi sociali funzionanti, non l’esplorazione alternativa tipica degli anni Settanta, ma purtroppo la preoccupata legittima difesa degli anni Venti di questo secolo. Spesso in chi le propone si nota esclusivamente una spinta data dal timore, dalla sofferenza rispetto alle recenti modificazioni sociali. Ciò è fin troppo comprensibile ma difficilmente può innescare un mutamento sociale. Sarebbe invece necessario ricostruire un ponte tra teoria e pratica, pensare le diverse risposte collettive a una società opprimente non solo come tentativi di sopravvivere o di non dover più soggiacere a regole e valori che non si condividono ma come un percorso che permetta di indagare forme di vita più adatte all’idea di uomo che ognuno coltiva individualmente in sé e associativamente nei rapporti umani; pensare a queste esplorazioni come possibilità di costruire modelli esemplari che siano anche posizioni per accedere a un confronto con altre alternative. Di queste sperimentazioni, anche se i protagonisti non sembrano averlo compreso, avrebbero dovuto far parte anche le aggregazioni politiche anti-sistema che in questi ultimissimi anni hanno dato voce alla perplessità di un certo numero di italiani. In quanto sperimentazioni la cosa più importante sarebbe stata mostrare la plausibilità di una democrazia diversa da quella che stiamo conoscendo non semplicemente proponendola all’esterno, ma incarnandola al proprio interno. In questo senso fondamentale si possono definire un pieno e colpevole fallimento.
Il pacchetto di inclusione forzata si fa intanto sempre più chiaro e completo comprendendo un neomoralismo sociale che vede nell’individualismo un grande male; un neomoralismo culturale che delinea il campo di ciò che può dirsi e pensarsi; un neomoralismo sessuale al contempo largo e slabbrato (la fluidità, la pornografia) e rigido e puritano (un millimetro fuori dal pattuito in parole, opere e omissioni e sei socialmente morto); un neomoralismo geopolitico che ci chiede di allinearci come un sol uomo ai superiori interessi del corpo mistico della NATO; infine un neomoralismo ecologico che, con affascinanti e terrorizzanti movenze teologiche, ci vede tutti colpevoli ab origine di emettere CO2 e ci indica pratiche rituali (differenziata, compostaggio, passaggio all’elettrico, digitalizzazione) che possano redimerci. Le pratiche a volte sembrano avere un nesso causale rintracciabile, altre volte come è tipico nella teurgia, vanno credute per fede (ad esempio nel caso della digitalizzazione che è sempre più ecologica della inquinante fisicità umana e della materialità della merce e degli oggetti creati venduti e comprati e che a questo punto supponiamo si appoggi a dispositivi, server, impianti di raffreddamento, cavi, energia tutti metafisici).
A fronte di tutto ciò il primo passo sarebbe riconoscere il nostro diritto ad essere esclusi, a poter restare esclusi; il secondo passo quello di progettare una esemplarità, una pratica esistenziale e politica che valga la pena di mostrare e proporre. Nessuna evasione in fondo vale qualcosa se non allenta almeno le catene di qualcun altro.
Giovanni Corsi dice
Sul pensiero unico o mainstream
Pensiero unico loc. s.le m. Omologazione, assenza di differenziazione nell’ambito delle concezioni e delle idee politiche, economiche e sociali. E’ una tendenza prodotta dai mass media che influenza la società odierna indirizzandola verso comportamenti uniformati e di utilità per chi la propone.
Il consenso viene acquisito con manipolazioni subdole, in parvenza democratiche, che in assenza di obblighi o coercizione, è accettata ed a nostra insaputa la società diviene totalizzante in antitesi col concetto di democrazia.Prevale soprattutto fra gli analfabeti funzionali, in cui è ridotta la capacità critica, la coscienza civile, l’agire razionale … con l’affermazione di una società omologata, conformista e consumista, predisposta ad assorbire qualsiasi cosa gli viene propinata.
📌 Coninua – https://www.stralci.info/articoli/%f0%9f%8c%8d-globalizzazione/pensiero-unico/