Riccardo Giordano
Avanti.it
Entriamo in una stanza buia, accendiamo una candela e osserviamo. Lasciamo che l’immagine che ci giunge attraverso i sensi fisici, impersonalmente descritta dal pensiero, penetri nelle profondità della nostra anima: ascoltiamo che cosa essa evoca dentro di noi. Se poniamo attenzione cosciente a questo semplice gesto, ci accorgiamo che esso ha tutta la potenza di un atto magico che ci pone dinnanzi al mistero dell’universo e, quindi, della nostra stessa anima. L’oscurità iniziale è stata rischiarata dalla luce, ma la luce non ha dissolto le tenebre: entrambe sono presenti, contemporaneamente, dinnanzi a noi in una vivente sintesi degli opposti. È stato scritto: «la Luce splende nelle tenebre», il problema è che «le tenebre non l’hanno accolta». Ciò che allontana l’uomo dalla comprensione della verità è la dialettica, il bisogno insito nel pensiero di separare ogni cosa dal suo opposto. Così ci si allontana dal mistero della vita, che è la forza che si sviluppa dalla interrelazione dei contrari. È per questa ragione che il pensiero ordinario non ha forza creatrice, non è capace di agire direttamente sulla realtà ma ha bisogno della mediazione del corpo.
Che cos’è l’oscurità se non il desiderio della luce, la possibilità che brama tramutarsi in fatto? Gli antichi espressero questa conoscenza nell’immagine di Giano, il dio dal doppio volto, il quale ci ricorda che i contrari non sono due realtà distinte e contrapposte, ma due aspetti di un’unica realtà. Come la notte prepara il giorno, così l’inspirazione prepara l’espirazione. Se vogliamo giungere alla verità, per citare Heiddeger, dobbiamo comprendere che essa è ciò che esce dal nascondimento (la parola greca per “verità” è a-létheia ovvero un’alfa privativa che precede la radice del verbo lanthàno, “nascondo”). Tutto ciò che si manifesta, che appare ai nostri sensi, è prima esistito nell’invisibile: ogni cosa creata, prima è stata pensata, immaginata. Tuttavia, ordinariamente, noi separiamo questi due momenti. Allora l’oscurità è ciò che si oppone alla luce, ciò che dobbiamo fuggire, rifiutare: ed è così che nasce la metafisica, mediante la quale l’immanente diviene qualcosa di freddamente materiale e il trascendente qualcosa di così astratto e fumoso da risultare un’astrazione fantastica. Abbiamo perduto il pensiero della sintesi o, per meglio dire, il pensiero che è capace di fare la sintesi. Un tale pensiero, che la filosofia antica chiamava “intuizione”, ha una natura dinamica, è immaginazione creatrice in grado di pensare in movimento ciò che il pensiero razionale pensa in maniera statica. Per intenderci: noi pensiamo il giorno o la notte; l’intuizione nasce dalla capacità di pensare il giorno e la notte nel loro movimento ciclico, li “vede” sorgere l’uno dall’altra continuamente: è questo movimento che fa sorgere l’intuizione nell’anima, come un’esperienza vivente.
Torniamo nella nostra camera oscura e, questa volta, non accendiamo una candela ma proviamo ad immaginare, a occhi aperti, un raggio di luce. In questo modo facciamo appello a una vista che non è quella ordinaria e, proprio per questo, ci avviciniamo di più alla comprensione del mistero della luce di cui si parla nel prologo del Vangelo di Giovanni, in quei versi che sono stati già ricordati in apertura di queste note. La luce vera, la luce che splende nelle tenebre, non è tanto la luce fisica quanto piuttosto quella “materia” sottile di cui sono fatti i pensieri e i sogni. Tutte le volte in cui ci fermiamo a fantasticare, ci stiamo immergendo nella luce che splende nelle tenebre, in quella luce che possiamo contemplare solo nel campo oscuro della mente. Tutto è stato fatto per mezzo di questa luce, come ci ricorda anche Shakespeare: noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. La luce fisica, si potrebbe dire citando gli alchimisti, è il precipitato salino di questa luce sottile, di questo mercurio filosofico. Dunque, se non ci immergiamo nell’oscurità non potremo mai giungere a percepire quella luminosità che è la materia prima degli alchimisti, la chiave per giungere alla rigenerazione di sé e, quindi, per immergersi nella conoscenza dei misteri della natura. È importante comprendere che questa luce è vita, è animata dalla stessa forza che ci fa respirare, che fa fiorire la terra e pulsare le stelle.
Chiudiamo gli occhi e osserviamo la luce mentale scorrere come un fiume impetuoso in cui prendono vita, caoticamente, le immagini che sgorgano dalla profondità della nostra psiche. Ordinariamente noi siamo inconsciamente identificati con questa luce perciò, senza rendercene conto, mutiamo continuamente con essa. Il cammino della rigenerazione interiore comincia col prendere possesso di questa luce mentale, col non farsi più passivamente trascinare da essa ma imparando a scioglierla e a coagularla, cioè a creare e a dissolvere immagini liberamente scelte. Chi si rende padrone di quest’arte giunge, poco alla volta, a percepire la luce pura, sciolta da ogni forma, la matrice unica del tutto. È questa luce che l’Eremita, il nono arcano dei tarocchi, porta nella sua lanterna per giungere, nell’oscurità della notte, alla comprensione dei segreti della natura. C’è di più: se la luce è vita e la vita possiamo identificarla al respiro, allora quando nelle disciplina interiore si parla di tecniche respiratorie è, in realtà, alla manipolazione della luce che ci si riferisce. Ecco perché non basta portare l’attenzione sull’atto fisico del respirare, per ritmizzarne il movimento, ma occorre – preventivamente – aver imparato a smaterializzare il respiro e a percepirlo come luce. Se, come si è già scritto, tutto l’universo è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, allora realizzando il respiro come luce possiamo entrare in contatto con il tutto, immergendoci in uno stato di coscienza cosmica. Quando nei testi orientali si parla di prana, infatti, non è al respiro ordinario che ci si riferisce. Ciò che attraverso questo lavoro interiore si può giungere a percepire, può essere espresso in questo modo: ad un certo punto ci si accorge che non sono i polmoni a respirare, ma è piuttosto l’universo che respira in noi, che fa affluire correnti luminose di vita in tutto il nostro essere attraverso le quali l’illusoria separazione tra Io e non-Io, tra Uomo e natura, viene totalmente meno. Esperienza affascinante e rivelatrice, ma che allo stesso tempo atterrisce facendo venire meno i sicuri confini dell’esistenza individuale. È questa paura radicale che occorre avere il coraggio di fissare con sguardo impassibile, con freddezza apollinea, così che essa possa rivelarsi la chiave che permette il passaggio da uno stato all’altro dell’essere. “Ciò che uccide è anche ciò che salva” insegna l’alchimia, ma di questo si tratterà la prossima volta.
In copertina: Hieronymus Bosch, Ascesa all’Empireo (dettaglio), 1503 circa
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