Davide Miccione
Avanti.it
In precedenti articoli abbiamo più volte toccato la questione non dell’incomprensibilità del mondo (per alcuni versi mai così sfacciatamente esplicito come adesso) quanto della incapacità (o non volontà) di comprenderlo da parte della maggioranza dei suoi abitanti. In particolare ne L’arte di non capire avevamo osservato più da presso l’energumenica figura dell’applicatore, di colui che applica il già pensato e lo vede come l’unico modo di stare al mondo, di colui che trova nel format, nella griglia, il riposo della propria anima turbata dal pensiero. Ma l’uomo applicans è una semplice personificazione delle scelte valoriali e delle procedure concettuali attraverso cui abbiamo smesso di pensare. Procedure concettuali che sono anche metodi sociali, cioè cose che si svolgono non solo in noi ma anche tra noi, potenziate da un consenso e dalla profondissima e forte spinta gregaria umana.
Di questa nostra natura non amiamo (comprensibilmente) parlare. A maggior ragione, gli occidentali amano soffermarsi sulla loro “natura” di individui e ignorare il gregarismo evidente della specie (tra l’altro assai utile nei secoli ai fini della nostra sopravvivenza) da cui lo studio e la riflessione dovrebbero farci sortire fuori. Nonostante da millenni pensatori e letterati cerchino di farcelo capire (anche se, secondo Sloterdijk, i filosofi avrebbero sulla questione fin troppo vezzeggiato la razza umana) e nonostante interi campi del commercio, della politica, della pubblicità si basino con ogni evidenza su questo, il discorso non ci è gradito.
Ci sono miriadi di esperimenti, alcuni ben noti come quelli di Philip Zimbardo, che mostrano la natura gregaria dell’uomo come preponderante rispetto alla coscienza morale (o, forse meglio, la coscienza morale come mera razionalizzazione della spinta gregaria). Lo si annota ovviamente per chi ha bisogno per vedere l’evidente delle scienze psicologiche e sociali.
La natura gregaria umana ci rende più sensibili al consenso generale che alla scoperta individuale delle cose. Quest’ultima ci lascia sempre il dubbio e il timore che possa dover essere pagata con una marginalizzazione, o peggio una espulsione, dal nostro branco umano. Buona parte degli individui posti davanti a qualcosa che a loro sembra vero ma li allontana dalla società abbracciano ciò che vero non sembra. Tra credere ai propri stessi occhi e credere al branco decidono di credere al branco, alla massa, alla società. La cosa ha un senso in termini evolutivi e permette, diciamo così, un coordinamento più semplice e immediato tra chi orienta il branco e chi se ne fa orientare ma apre una serie di problemi, a voler essere eufemistici, millenari nella pratica della libertà di pensiero. Non necessariamente ciò che è utile nell’organizzazione della caccia al mammut deve esserlo in una società complessa.
Che gli uomini facciano questo, e che faccia loro piacere ricordarselo, sono due cose molto diverse. L’uomo ha sviluppato nel millenni idee sulla propria individualità, sulla presenza di uno o più nuclei specifici (l’anima, la personalità, la coscienza) che lo rendano non semplicemente uguale e intercambiabile ma diverso e irripetibile, in breve che lo rendano se stesso. Insomma ha costruito una cultura in cui è presente l’idea dell’originalità come valore. Naturale non trovi particolarmente piacevole vedere su quale base queste costruzioni poggino.
L’indistruttibilità del gregarismo sembra resistere a tutto sebbene sia evidente che, nelle giravolte della storia, coloro che hanno più di altri seguito la linea data “dal loro branco” possano trovarsi del tutto scoperti quando venga chiesto loro di giustificare eticamente il proprio comportamento. Essi scoprono e fanno scoprire a chi osserva, che la realtà cui può attingere il soggetto e la realtà come costruzione di branco possono facilmente entrare in conflitto. Dalla tragedia del nazismo e dei suoi amministratori convinti di essere personcine a modo (Hannah Arendt docet) alla tragifarsa del sistema di corruttela della classe politica italiana durante tangentopoli che si trova a pagare improvvisamente per ciò che nel proprio ambiente era ad un certo punto diventato normale, la storia svela, purtroppo invano, l’oscenità del gregarismo.
La natura gregaria si oppone di suo ad ogni progetto di ricerca individuale che non sembri già a priori inserito nelle convinzioni che il branco mostra di avere. La ricerca deve poter essere compatibile con scopi già collettivamente corroborati. Colui che ricerca la verità in qualche modo sta tendendo ed elongando quasi ai limiti della slogatura le caratteristiche di adesione previa alla verità di branco, di tribù, di clan, di popolo, di fede (laddove è il corpo mistico che conta e non il dio in nome del quale esso si riunisce). Posta come plateau non evitabile questa natura gregaria, l’uomo opera il restringimento del proprio campo di pensiero in modo che non disturbi i legami sociali.
A questo restringimento perfettamente si attaglia, come scrivevamo in L’arte di non capire, l’uomo dell’applicazione e l’uomo dell’emergenza. Spostare altrove e su altri (questo è non altro è il feticismo del format, della griglia, dell’algoritmo) i criteri di giudizio e di valutazione è insieme una formalizzazione del gregarismo e un suo sigillo di chiusura; passare da un’emergenza a un’altra sancisce l’implausibilità di occuparsi di qualsiasi cosa stia dietro, prima, dopo, intorno all’emergenza stessa. A tutto ciò fa da ottimo completamento il rifiuto della società contemporanea di ogni interrogazione sui fini, sugli scopi.
Gli uomini contemporanei si rifiutano di dare un senso al mondo, di valutarlo. Lo riparano o lo anabolizzano senza conoscerne mai lo scopo. Da più parti i filosofi novecenteschi hanno provato ad avvertirci con formule e metafore di questa deriva, ma senza esito. Horkheimer, forse il più chiaro tra loro, pubblica nel 1945 L’eclisse della ragione, un libretto in cui sostanzialmente afferma il passaggio da una ragione oggettiva a una ragione soggettiva in cui noi ci occupiamo solamente dei mezzi e diamo i fini per scontati. Ovviamente i fini non discussi saranno quelli che la classe dominante ha deciso per noi. Cioè, se i fini non sono il risultato di un ampio dibattito culturale, sociale eccetera, allora saranno quelli già decisi senza mai dibatterli veramente come corpo collettivo.
Alla ragione soggettiva interessa il rapporto tra mezzi e fini e l’idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi che in genere si danno per scontati e che si suppone si spieghino da sé. Il fine non solo è già dato per scontato ma è un fine autoesplicativo quindi non è necessario discuterne: per esempio noi diamo per acquisito che ogni forma di economia ci debba portare un aumento del PIL ma nel dibattito sociale non si discute se l’aumento del PIL sia un bene in sé, lo si dà per scontato. Eppure tutti noi, nella nostra esperienza individuale, abbiamo fasi in cui percepiamo un reddito maggiore e abbiamo una qualità di vita minore o addirittura un tipo di vita che ci porta a danneggiare noi stessi e chi ci sta intorno. Senza alcun motivo, nel momento in cui passiamo da individuo a società diamo per scontato che una società in cui aumenta il PIL sia una società migliore di una società con un PIL minore.
La nostra cultura è ateleologica, ha eliminato sostanzialmente il perché delle cose: noi ci occupiamo quasi solo esclusivamente di mezzi, di spese, di costi, di migliori o peggiori funzionamenti delle cose. Cerchiamo di far funzionare meglio qualcosa che non ci chiederemo mai se è meglio che funzioni o non funzioni o, più radicalmente, se è meglio che sia o non sia. Ciò accade anche in quelle situazioni in cui il collegamento con il fine di ciò per cui e in cui operiamo sarebbe evidente e non ovviabile. Si pensi solo alle microriforme della scuola di cui si lavora sempre all’efficientamento ma non si riflette ma sul fine di quella cosa chiamata scuola. Ogni mezzo procede verso qualcosa e il fatto di non pensare questo qualcosa o non pensarlo come fine non lo farà “accadere” meno.
Solo una cultura ormai non avvezza a interrogarsi sugli scopi poteva, ad esempio, nella sua stragrande maggioranza accettare una miopia politica come quella adottata in pandemia. La semplice interrogazione sul perseguimento del fine della salute (difficilmente riducibile a “non prendere il covid” anche per un ignorante) avrebbe mostrato la follia delle scelte sociali e politiche del triennio pandemico. Ma il blocco del pensiero predica che gli scopi da non discutere siano quelli dell’autoconservazione del corpo collettivo (dunque nuovamente l’emergenza: come si vede tutto si tiene) e chi li vuole discutere ascende facilmente al rango di nemico interno. Ovviamente nel momento in cui i fini scompaiono dal nostro orizzonte noi finiamo con l’occuparci sempre più dei funzionamenti e pensare che il funzionamento sia tutto, che le cose debbano funzionare. Pensiamo come se il funzionamento sia anch’esso già un fine.
Ma anche questo fiume dell’impensabilità dei fini che abbiamo navigato riposa sul letto del gregarismo e sfocia nel mare del gregarismo. Ormai misurabile nelle tonnare dei social in like, follower eccetera, la dimensione gregaria ha fatto un salto di specie. Non più i tempi lenti delle egemonie culturali religiose o politiche, non più il lavoro di lunga lena, di ideazione e di divulgazione, di fidelizzazione e di attenzione, di esecrazione e vezzeggiamento. Adesso la coltivazione del gregarismo è un lavoro in tempo reale, misurabile, implementabile, con tutte le potenzialità della rete. Viene con efficienza operato all’ingrosso con i vecchi media e al dettaglio con i social, la profilazione e le varie camere dell’eco. Il cambiamento apre inoltre grossi problemi di realizzazione di una autentica vita democratica e solletica un’idea di onnipotenza nei gestori dei grandi aggregatori telematici.
Il salto di qualità è ormai tale da causare la tentazione nella classe dominante di poter andare oltre la costruzione di una interpretazione privilegiata per le masse, di una visione del mondo comune e innocua o utilizzabile strumentalmente, di valori soggiacenti che consentano una proficua manipolazione. Adesso la tentazione della spallata è forte, è quella di eliminare le notizie sgradite, degradarle ad errori di sistema, negarne l’esistenza. Il ridicolissimo balletto, a cui come sempre si sono prestati anche pensatori, sulla post-verità e la sua volgarizzazione in parole d’ordine “fake news” o “fact checking” altro non sono che questo. Degradare ogni altra lettura del mondo a falsa informazione lavorando sulla enormemente preponderante potenza di fuoco. Di questo si sta parlando. Ogni altro ricamo concettuale su tema fake news, come diceva qualcuno, “è del demonio”.
Quanto ai farmaci contro il gregarismo, son gli stessi da duemilacinquecento anni. Nessuna nuova scoperta: filosofia, conoscenza e gusto della storia, letteratura, dialogo, parresia e sono sempre lì ad attenderci. Il problema è frequentarli, tra una notifica e l’altra.
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