Davide Miccione
Avanti.it
- Se qualsiasi autorità pubblica ci dice qualcosa vuol dire che quella cosa è vera.
- Qualora non fosse vera, la sua falsità sarebbe uno strano incidente senza dolo da cui nulla di generale si può e si deve trarre.
- Qualora fosse evidente che il dolo c’è, esso dipende sempre da quel singolo individuo che lo ha incarnato e mai può rivelare alcunché sul sistema generale in cui egli opera né sui fini che il sistema persegue.
- In ogni caso il sistema politico ed economico non ha mai fini (tantomeno se pensati come risultato di un coordinamento o di una riflessione) che non siano quelli esplicitati e propagandati e chi pensa altrimenti si è già prenotato per il manicomio.
Questi i comandamenti cognitivi che la nostra Animal farm da qualche anno ha elencato sui muri della fattoria (ne abbiamo già scritto in Fenomenologia del complottismo) e che hanno portato ad una radicale lobotomia della pubblica intelligenza delle cose. Ad ogni tentativo di far ragionare un soggetto medio che non veda nei vari Napoleone di turno (quelli orwelliani intendiamo) un grosso protervo suino bensì il saggio capo, il soggetto opporrà uno, più d’uno o tutti e quattro i comandamenti sopra riportati e bloccherà il processo di intelligenza del reale. Così dunque la pubblica opinione (una prece per questo feticcio dei pensatori moderni e civili) ha già esercitato il proprio “acume” sulle politiche pandemiche, sullo sviluppo in atto di una tecnologia del tracciamento e della sorveglianza (per la prima volta finanziata non dai sorveglianti ma dai sorvegliati stessi: “orsù, si comprino “alexe” e smart watch, e non si badi a spese!”), sull’ecologia trasformata in business, sul conflitto regionale russo-ucraino e si prepara adesso a esercitarlo sui sacchi di denaro degli sceicchi che spuntano dalle abitazioni di rappresentanti istituzionali dell’Unione Europea. Nessuno di questi episodi rivela loro alcunché sui tempi e i modi in cui il potere sta esercitando il proprio peso nel mondo oggi. Dunque nulla spiega nulla, a meno che la macchina mediatica non decida di farne l’exemplum di una verità, se possibile sempre retorica e sempre moralistica.
Sono i media, con la loro potenza di fuoco e pervasività, a decidere che cosa significa ciò che sta accadendo e ciò indipendentemente dall’improbabilità della loro spiegazione. Se la fede nel potere e la paura persino di poterla perdere questa fede sono ormai incistate in molti di noi e ci spalancano le porte dell’inferno dell’incomprensione del mondo, è però il sistema mediatico a tenere saldo il mazzo delle chiavi che aprono queste porte. Sono i media, sul breve periodo, che decidono la spiegazione dei fatti e il loro senso politico e morale e sono sempre i media, sul lungo periodo, che costruiscono le categorie con cui guardiamo il mondo. Ovviamente non dobbiamo pensare semplicemente ai giornali o ai telegiornali, né solo ai talk show (sebbene in questi anni abbiano avuto un ruolo significativo nel mostrare alla gente, tramite bastonatura di gruppo e dileggio simbolico-rituale del dissenziente, cosa succede a chi non si allinea). Bisogna invece pensare più in grande: considerare i film, le serie tv, i cartoni animati, i videogame, le canzoni, i social e le loro regole di censura dei contenuti. Un intero universo in cui l’uomo contemporaneo è perennemente immerso. Allora, alla questione della fiducia nel potere (vedi La carezza del re), si affianca la questione della dieta cognitiva di ognuno di noi. Una questione non più aggirabile, anzi in un certo senso l’unica questione di cui valga la pena di parlare.
In un periodo in cui tutti si occupano, spesso in modo rigido e ossessivo, di costruirsi un’identità personale e sociale sulla base di come gestiscono la propria alimentazione, dando ad essa un significato morale, ecologico e, appunto identitario; in un periodo in cui tutti parlano di cibo analizzandone provenienza, qualità organolettiche, tradizione di appartenenza, effetti sulla salute, procedimenti di cottura eccetera, sarebbe bello che una dieta socialmente più importante per i destini della nostra democrazia venisse considerata da qualcuno: la nostra dieta cognitiva. Eppure la questione di come veniamo a sapere ciò che sappiamo, di quale sia la provenienza dei “cibi cognitivi” con cui nutriamo la nostra persona, se ci si possa fidare dei cuochi e degli allevamenti, se il cibo mentale sia “bio” o sofisticato o persino tossico, se sia adatto alla nostra salute spirituale e intellettuale, non può che essere questione centrale del nostro vivere individuale e collettivo. Ci si preoccupa di trovare il macellaio di fiducia ma ci si nutre intellettivamente di qualsiasi cibo-spazzatura si trovi sul nostro percorso. Ci si preoccupa del cibo che mangiano i nostri figli (che deve essere sano, sicuro, certificato, con una filiera riconoscibile, ben cucinato) e ce ne freghiamo di cosa essi vedano, sentano, leggano (quando e se lo fanno), di quali video scarichino, di quali videogame pratichino. Perdiamo ore a riflettere se il cibo è buono e neppure un minuto se il giornale che leggiamo o il programma che vediamo siano affidabili, decenti e “nutritivi”.
Ovviamente i media, oltre a bloccare l’accesso ad ogni decente analisi economica, sociale, politica, etica e geopolitica del tempo presente si sono ben premurati di ostacolare l’analisi della loro stessa condizione e del loro stesso ruolo. Ormai riconducibili a pochissimi gruppi finanziari nel mondo, scalabili per via politica quelli statali, messi a stecchetto di pubblicità quelli tradizionali di modo che l’inserzionista (che coincide sempre con i grandi gruppi finanziari e industriali) sia rispettato in ogni suo interesse, in crisi di copie quelli cartacei e dunque costretti a vivere o morire su decisione assoluta delle loro proprietà, il mondo dei media trova ormai intollerabile la sola presenza di agenzie informative non riducibili al blocco di potere imperante e scaglia su di esse ogni possibile atto di delegittimazione.
Altro non è, infatti, quella creazione di aborti linguistico-concettuali che già da qualche anno va diffondendosi. Dal concetto di post-verità, sbandierato per anni (come del resto oggi accade per “resilienza” o “sostenibilità”) a quello di fake news o di debunking. La creazione di questi vocaboli mira a coprire la semplice riaffermazione, dopo un bel po’ di decenni, del ruolo della censura (appunto il debunker) rivestendolo di modernità tecnologica e la ripresa del concetto di eresia (la fake news) travestita, come del resto ogni eresia, da falsità. Si conta sull’ignoranza e la perdita del pensiero del pubblico medio di modo che non si fermi a pensare che eresia, dogmatismo e perdita di libertà sempre si sono basati sulla pretesa di decidere, a priori, ciò che è vero e ciò che è falso. Tutto questo rientra nella distruzione del dialogo e della libertà di pensiero oggi in atto ma anche, più prosaicamente, nell’intenzione dei media strutturati economicamente di bloccare l’accesso al mercato delle conoscenze e delle informazioni ad ogni attore che non faccia parte del blocco già esistente e dunque arrestare ogni possibile ingresso o ricambio.
Eppure basterebbe applicare alla nostra dieta cognitiva un quarto dell’attenzione che dedichiamo alla nostra dieta stricto sensu. Così come, ad esempio, ci preoccupiamo che la nostra alimentazione sia varia (chi accetterebbe un menù mensile che preveda solo due alimenti?) allo stesso modo dovremmo preoccuparci quando i nostri strumenti di informazione fanno tutti parte dello stesso gruppo politico aziendale. In che senso una notizia o un commento letto su il Giornale dovrebbe confermare o rafforzare ciò che ho visto su Canale 5 se entrambi appartengono alla stessa persona e allo stesso gruppo politico? In che senso Repubblica e La Stampa si garantiscono a vicenda essendo sempre la medesima proprietà? Come si può pretendere di avere una buona informazione adottando dei giornali non solo di identica proprietà ma in fondo gestiti da una compagnia di giro, ai livelli dirigenziali, che passa costantemente dall’uno all’altro? In che senso un uomo che ha costruito tutta la propria carriera dentro poche grandi aziende dell’informazione (aziende i cui interessi finanziari ormai vanno ben oltre il campo dell’informazione) e da cui ancora dipende, può essere visto come un intellettuale libero e da ascoltare senza alcun retropensiero a fare da guardiano?
Ma ben oltre queste miserie, è proprio il carattere immersivo dei media a minacciarci, questo essere perennemente catturati e intrisi da un flusso comunicativo, iconico, narrativo che non abbiamo più il tempo, gli strumenti e la forza di processare. La nostra esperienza primaria, piena, corporea e intersoggettiva del mondo (poco controllabile dal potere) si sta riducendo a una lisca e la nostra esperienza mediatica, parziale, distratta, decorporeizzata, solipsistica del mondo (quasi del tutto controllabile dal potere) si è fatta onnipresente. Non crediamo più a ciò che vediamo se non lo vediamo attraverso uno schermo. Negli anni addietro, con le statistiche ufficiali dei delitti in calo e un’esperienza diretta inesistente, milioni di italiani si sono fatti impaurire dal grande pericolo della criminalità perché i media avevano deciso di cavalcare l’ondata securitaria a fini politici. Tizi che abitavano in centri dove non succede mai nulla votavano partiti securitari in modo che li salvassero dal crimine. Oppure si pensi all’evidente curva della paura del COVID-19, che non ha seguito l’andamento dell’esperienza diretta ma quello del tamtam mediatico. Individui residenti in zone poco colpite, che avevano esperito direttamente il covid (loro e i loro amici o familiari) senza riceverne danno non diminuivano il terrore nei confronti di questa malattia, mentre significativi cambiamenti di percezione si trovavano in relazione al grado di esposizione mediatica e al tipo di dieta cognitiva. Insomma: la scomparsa dell’esperienza reale sostituita da un’esperienza mediatica immersiva, ormai non più integrativa ma sostitutiva dell’esperienza umana.
Aveva allora ragione Baudrillard a chiedere (già in un saggio del 1979) se non si dovesse invertire l’idea della esposizione ai media come socializzazione e vederla invece, più realisticamente, come una funzione di “desocializzazione”. Se dunque la favola della modernità prima ci raccontava come l’esposizione ai media fosse la via maestra della civilizzazione riprendendo una favola ancora più antica (la trovate già nel’epopea di Gilgamesh: Enkidu, l’uomo ancora parzialmente bestiale, abbrutito dal nomadismo e dalla analfabetizzazione che si dirozza e si fa pienamente umano) oggi l’ipermodernità potrebbe, se volesse dire la verità, raccontarcene un’altra che fa dell’uomo prima pienamente umano, un povero recluso, un hikikomori chiuso in una stanza che non è solo di mattoni, chiuso in una incapacità di esperire il mondo e dialogare con gli altri. Un uomo già pronto e abituato a una socializzazione surrogata e “mediata” dalla telematica che a breve potrà sostituire con le gradite spione Alexa e Siri o con le prossime che arriveranno e che hanno perlomeno, per l’uomo contemporaneo, il pregio di non costringerlo ad avere sollecitudine o responsabilità per il prossimo.
Bertozzi dice
Bellissimo articolo, da stampare e l
fare leggere in tutte le scuole-cloache di oggi e da leggersi pure a Natale con la famiglia. In mezzo ai covidioti, a chi crede che destra e sinistra esistano, a chi pensa che la TV ei giornali emettano verità stringenti. Bello anche il riferimento agli hikikomori, siamo tutti emarginati, ricchi o poveri, tutti vivono soli, ai margini di una società che tale non è più, ma è solo una massa di utenti slacciati gli uni dagli altri.