Riccardo Giordano
Avanti.it
La dialettica, cioè la necessità di separare e dividere come fa una spada, è il limite del nostro pensiero. Separando ogni cosa dal suo contrario ci sfugge il significato più profondo della realtà che non è mai bianco o nero, luce o ombra, spirito o materia, ma piuttosto la sintesi vivente dei due. Che cos’è, infatti, l’oscurità se non il desiderio della luce, se non una possibilità che si trasforma in atto? Come ogni creazione dell’uomo prima di esistere sul piano materiale deve essere intravista o pensata nell’invisibile, così tutto il cosmo esiste come ‘pensiero’ di una mente che trascende le possibilità della mente umana. Tuttavia può accadere, in determinati e specialissimi momenti, che immergendoci nella percezione sensibile della realtà siamo colti dal netto presentimento di qualcosa che ci sfugge: intravediamo, per un istante fugace, un invisibile che sta dietro e accompagna ciò che ricade sotto la luce dei sensi fisici. Abbiamo la netta sensazione che ciò che percepiamo del mondo esterno sia solo la metà di una conoscenza che, per essere completa, avrebbe bisogno di cogliere l’impressione interiore che l’accompagna. Questa sensazione, che nell’artista si traduce in struggente nostalgia, è la chiave che ci dischiude l’accesso verso ciò che le religioni chiamano anima ed è l’inizio del viaggio che la nostra mente può compiere per trascendere se stessa.
Platone insegnava che conoscere è ricordare, cioè la possibilità di far riaffiorare dalle profondità del nostro essere la memoria di esperienze che vanno oltre il piano della mera esistenza umana. Questa conoscenza sepolta in noi è quel sapere ancestrale, definito “tradizione” da studiosi come René Guenon, che fa da base ai miti sacri di tutte le grandi civiltà del passato. Come si è già avuto modo di scrivere, la via per superare il limite della dialettica e accedere a questa conoscenza ancestrale, sta nel trasmutare l’ordinario pensiero concettuale in immaginazione. Questo perché l’immagine, simbolo e mito, si traduce immediatamente in un’esperienza che, risuonando in noi, va a risvegliare ciò che giace sepolto nella nostra interiorità.
Pensiamo, ad esempio, alle carte dei tarocchi, superficialmente confusi con uno strumento divinatorio; essi sono invece le pagine di un libro privo di parole, un libro muto, che ha il potere non di dire ma di evocare, di tracciare una rotta all’interno dell’Anima. Un sentiero che conduce nel punto in cui dall’immanente si accede al trascendente, dal finito all’infinito. Il sesto arcano maggiore, Gli Amanti, ci mostra un giovane dinnanzi a un bivio: la vorace sensualità della carne o la sottile estasi dello spirito? In alto, al centro, Cupido osserva pronto a scoccare la sua freccia. L’immagine esprime plasticamente ciò che si è tentato di esporre fino a questo momento: la mente umana sente sempre la necessità di dover fare una scelta, ma la via che conduce alla saggezza, giustamente rappresentata da Eros, comincia proprio laddove si comprende che scegliere è il grande inganno che ci tiene imprigionati nell’ignoranza e, quindi, nel dolore che ne deriva. Colui che aspira alla saggezza deve fare come un funambolo che, passo dopo passo, ritrova sempre il perfetto equilibrio tra le spinte opposte tenendo fermo il suo sguardo al centro. Nel mito cavalleresco leggiamo, similmente, che colui che aspira ad essere Re, cioè a fungere da asse attorno a cui si ordina armonicamente il movimento del microcosmo con quello del macrocosmo, deve impugnare Excalibur (simbolicamente la spada è associata all’elemento aria e quindi alla mente) per sanare e non per ferire, per unire e non per dividere. Non esiste un amore della carne separato da quello dello spirito, l’amore è, come scrive l’ermetico Giuliano Kremmerz, uno stato di vibrazione che prende il nostro essere in tutte le sue parti: «se, mentre ami, tu puoi distinguere dove finisce l’amore della carne e dove comincia quello dello spirito, allora tu non stai amando» (Angeli e demoni dell’Amore, 1ª ediz. Napoli, Libreria Detken & Rocholl, 1898). E noi non stiamo realmente amando fino a quando, presi dalla bramosia dell’immagine dell’altro, smarriamo la nostra attenzione cosciente e non siamo in grado di accorgerci del fuoco, della vibrazione, della pura energia che si è sviluppata tra noi. Vivere la passione amorosa in uno stato attivo di coscienza potrebbe condurci, senza troppo sforzo, dal visibile all’invisibile.
Ecco perché l’amore è sacro: poiché quando esso è vero ci permette di penetrare realmente nella sintesi di tutte le cose giungendo a percepire quella quintessenza alchemica che è il principio della rigenerazione di sé e del mondo. Non è un caso che la chiave di Iside, senza la quale non si può accedere ai Misteri, corrisponda perfettamente al glifo di Venere, mentre nel Chymica Vannus, testo alchemico del seicento, si suggerisce che la sapienza viene all’uomo sotto il segno del cerchio che sormonta una croce. Quando siamo veramente innamorati, come tutti abbiamo potuto sperimentare almeno una volta nella vita, si accende in noi una profonda impressione d’eternità che ci porta a trascendere i limiti della percezione ordinaria della realtà: si tratta di uno stato di grazia, di un attimo fuggente che, non essendo noi in grado di vivere e fissare consapevolmente, inevitabilmente si disperde nella corrente del divenire. Se, dunque, l’amore è la chiave per giungere ad entrare nella sintesi vivente del tutto, occorre il soggetto che sappia utilizzare questa chiave. Questo soggetto è la coscienza che, liberatasi dalla meccanicità dei processi cerebrali e ritrovata la potenza dell’immaginazione vivente, diviene in grado di percepire se stessa al di fuori della inconscia identificazione con il corpo fisico e il sistema cerebrospinale.
L’amore non ha per scopo la riproduzione ma neppure, come oggi si tende a credere per liberarsi da certi pregiudizi religiosi, il piacere sensuale fine a se stesso. L’amore è una via per giungere alla conoscenza e alla trasformazione di sé. Una via che non passa attraverso la rinuncia al piacere, ma che al contrario lo utilizza per superare i limiti della condizione umana. Una via che ci insegna come la bellezza nasconda il mistero della forma che trascende se stessa, che ritrova nella sua sensualità la manifestazione, il velo che nasconde la perfezione dell’armonia cosmica. L’amore, coscientemente vissuto, è ciò che ci permette di trascendere il limite egoico senza tuttavia perdere se stessi e la propria individualità, laddove si impari a sentire il piacere dell’altro, lasciandolo risuonare dentro di sé come fosse il proprio piacere. «Omnia vincit Amor» scrisse il sommo poeta Virgilio e veramente l’amore vince ogni cosa: non si tratta di un astratto sentimentalismo, né di poesia. L’amore è la forza che «move il sole e l’altre stelle», è la forza che tiene insieme tutte le cose in una danza armonica, è la forza che unisce senza confondere, che lega ogni cosa al suo contrario in una sintesi feconda e creativa. È la vita che rinasce eternamente dalla morte ed è quello stato di beatitudine, da tutte le religioni identificato con Dio, in cui l’individuale si continua nell’universale e l’universale si riconosce nell’individuale.
[in copertina: Marc Chagall, Il compleanno, 1915]
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