Riccardo Giordano
Avanti.it
Ormai è sempre più evidente che dietro alla politica dell’emergenza continua, che negli ultimi anni ha avuto una decisa accelerazione, si nasconde il progetto di una trasformazione certamente politico-sociale, ma anche e soprattutto dell’uomo – il suo modo di percepire se stesso, il pensare, l’agire – giacché il segreto del potere sta nella capacità di controllare la coscienza.
Ora, se è complesso agire su ogni singola coscienza, è assai più semplice agire su un’anima collettiva, laddove l’entità individuale sia stata sciolta in un unico ente di gruppo.
Ecco perché, curiosamente, il vero pericolo del nostro tempo non sta nell’individualismo, ma esattamente nel suo opposto, e cioè nella tendenza del singolo ad abdicare a se stesso, a rinunciare alla propria autonomia e libertà in nome della percezione di una maggiore sicurezza.
Se ripercorriamo con attenzione il film di questi ultimi tre anni, se ripensiamo alle parole d’ordine fatte circolare ipnoticamente attraverso i media, ci accorgiamo che ogni sforzo del sistema è stato teso a spegnere nell’uomo finanche l’aspirazione a un pensiero critico, autonomo, coscientemente padrone di sé e del suo ragionamento. L’individuo deve aspirare ad annullarsi nella massa, e diventare come un bambino che trae la sua direzione nella vita dalla sapiente guida di un’autorità esterna, che stabilisce per tutti cosa è bene e cosa è male.
Il ruolo che un tempo era del dogmatismo religioso, oggi è stato assunto dal verbo scientista. Sia chiaro che il problema non sta tanto nei contenuti di ciò che viene imposto ma, ovviamente, nell’imposizione stessa. Nell’idea cioè che l’uomo abbia bisogno di dover “essere pensato”, poiché naturalmente incapace di pensare, scegliere e valutare.
Il transumanesimo, ben prima di essere il processo di integrazione tra l’uomo e la macchina, è il tentativo di mantenere l’uomo in uno stato di non consapevolezza, completamente in balia di tutto ciò che si agita in quella riserva oscura che la moderna psicologia ha definito “inconscio”. Chi infatti è preda della propria natura istintiva, della propria emotività, è un soggetto più facilmente manipolabile e ipnoticamente influenzabile.
Siamo stati abituati a concepire la libertà in relazione a un’autorità esterna, mentre essa è anzitutto una conquista interiore: è cioè l’autonomia dalle paure, dai desideri, le pulsioni che agendo dietro la soglia della coscienza determinano il corso dei nostri pensieri, le nostre azioni e finanche le nostre fedi e convinzioni più profonde. In questa condizione di passività è facile che l’autorità esterna, giocando con le pulsioni del nostro inconscio, possa facilmente plasmarci.
Ciò che si vuole suggerire, dunque, è questo: che solo l’uomo che è padrone di sé non ha padroni esterni, ed è libero da ogni condizionamento e manipolazione.
Dietro il concetto, oggi spesso tirato in ballo a sproposito, di evoluzione spirituale si cela anzitutto la disciplina atta a rafforzare la percezione della propria coscienza, stabile e centrata, che possa fare da ago della bilancia rispetto all’agitazione della propria psiche. Un uomo dominato dalla paura non può pensare con chiarezza, esattamente come un uomo sopraffatto dalla sua gioia vede il mondo attraverso il velo della sua emotività. Non si tratta di rinunciare alle proprie emozioni, ma piuttosto di viverle consapevolmente: l’uomo deve imparare a vedere dentro di sé con la stessa chiarezza con la quale vede e percepisce nel mondo dei sensi.
Dobbiamo comprendere che ciò che chiamiamo ‘io’ è solo la maschera, o per meglio dire il complesso di maschere che ci nascondono il nostro vero volto. Solo chi giunge a conoscere realmente se stesso, di là dalla mutevole personalità ordinaria, può raggiungere quello stato di ‘neutralità cosciente’ necessario a conoscere il mondo, e cioè la vita, per ciò che realmente sono.
Potrà sembrare paradossale, tuttavia questo processo di evoluzione interiore si potrebbe compiere assai più facilmente attraverso una comprensione profonda dell’esperienza materialistica, piuttosto che attraverso le fumose nebbie dello spiritualismo.
Per come è intesa oggi, infatti, la spiritualità ha il carattere di una fuga dal grigiore di un mondo percepito come dato meramente quantitativo, per abbandonarsi ai vivaci colori della fantasia. L’orientamento di certe attuali ‘discipline spirituali’ è quello di portare la coscienza in uno stato onirico, in balia del flusso incontrollato del proprio mondo interiore, con il conseguente pericolo di non riuscire più a distinguere ciò che potrebbe essere intuizione superiore, dalle proiezioni del proprio fervido inconscio.
Se l’uomo avesse spostato la sua attenzione dal fatto meramente esteriore e sociale connesso alla dinamica materialista, per concentrarsi invece sul processo interiore che questo metteva in moto, si sarebbe accorto che l’immersione nell’esperienza dei sensi, nella solidità del corpo, avrebbe potuto consegnargli una maggiore presenza a se stesso, e per conseguenza una stabile centralità rispetto al ribollire caotico dei processi psichici che quotidianamente determinano la vita dell’uomo ordinario.
Questa più solida centratura della coscienza avrebbe potuto essere, allora, la base per una più vera libertà e autonomia interiore, che poteva fare dell’uomo veramente un uomo: ciò che i latini avrebbero chiamato un “vir”, non più trascinato dagli eventi come una foglia mossa dal vento. Un individuo capace di riconoscere e riconoscersi, di sottrarsi a qualsiasi inganno e manipolazione; un uomo dalla schiena dritta, che nessuno può fare schiavo. E un tale individuo avrebbe avuto anche la possibilità di indagare con chiarezza di visione il mistero dell’anima e delle sue facoltà, varcando le colonne d’Ercole del già noto per sfidare l’ignoto.
Non si può evitare allora di guardare con sospetto al diffondersi e proliferare di certa letteratura spiritualista e alla crescente attenzione che l’accompagna – anche nel mondo che vorrebbe essere anti-sistema – il cui effetto raggiunto è, in realtà, quello di impedire all’uomo di comprendere la sfida che il tempo che siamo chiamati a vivere ci ha posto.
Ogni esperienza della vita, bella o brutta che sia, che riguardi l’individuo o la vita dei popoli, ha lo scopo di insegnarci qualcosa. Ciò che può essere compreso solo se la attraversiamo fino in fondo e con consapevolezza, e non cerchiamo invece di aggirarla, o al contrario ci abbandoniamo scioccamente al mero godimento.
L’esperienza annichilente del deserto, la nietzscheana morte di Dio, non è qualcosa che l’uomo deve fuggire, cercando di rifugiarsi romanticamente in una mitica età dell’oro: deve essere invece attraversata con lo stesso spirito di un funambolo, consapevole e attento a ogni singolo passo per mantenere il giusto equilibrio, senza lasciarsi distrarre da ciò che accade intorno a sé, ma con lo sguardo fisso sull’obiettivo che egli si è prefisso di raggiungere.
[in copertina: Carlo Carrà, Cavallo e cavaliere, 1915]
Andrea dice
È un movimento circolare fra culture quello che io ho praticato. Dall’ultima sottocultura del ’77, che non riusciva più a capire il marxismo ma già sbirciava la verticalità del potere, dopo aver compreso che il capitalismo è “comando”, grazie a Toni Negri, ma prima ancora a Raniero Panzieri, di cui però nessuno sapeva più nulla, passai ai diari parigini di Ernst Junger, e lì capii che cos’è la “rivoluzione del nichilismo”, che può imprigionare l’individuo consapevole dentro le fiamme di un devastante incendio, ma anche passeggiare per gli ultimi negozi di antiquari prima di essere mandati sul fronte russo. Ferruccio Masini non capì questo aspetto e fece un’introduzione terribile sulla presunta discesa agli inferi dell’estetismo borghese. Il francofilo Junger nella Parigi del ’43 è l’individuo che ha l’incendio già sulla divisa da ufficiale dell’esercito di occupazione, ma con i guanti può ancora toccare il ricordo del tempo precedente, fra un incontro con scrittori, una bottega di pittore, una Mosella d’annata, sempre con le fiamme ben visibili. La sentinella ai confini del tempo e fra le rovine. L’intellettuale di destra, fascista o no, ha questo vantaggio: può passeggiare fra le rovine come incarnazione della fine senza fine. L’intellettuale di sinistra, comunista o no, vede solo lo scontro antifascista. L’intellettuale di destra, raramente vede solo lo scontro anticomunista.