Davide Miccione
Avanti.it
In alcune pagine molto brillanti, molto francesi, Jean Baudrillard si chiedeva qualche anno fa cosa sarebbe accaduto “dopo l’orgia”, cioè dopo lo scatenamento libertario, dopo il parossismo del desiderio e dell’arbitrio, dopo il festival delle possibilità e delle soggettività, dopo l’edonismo e il libertinismo intellettuale ostentato (forse ben più che praticato) della società capitalistica occidentale degli anni ottanta. Cosa ci fosse in programma dopo l’orgia, col senno di poi, era piuttosto prevedibile se gli anni ottanta e novanta non avessero fatto velo. Il triennio 2020-2022 ha reso chiaro, ora anche per i più duri di comprendonio, cosa ci aspettasse: dopo l’orgia vi è la profilassi forzata, il moralismo, il senso di colpa, l’espiazione. Come in un buon romanzo borghese.
Più modestamente, dal 25 settembre di quest’anno, mi vado chiedendo cosa ci aspetti invece “dopo il wrestling” (così da qualche anno ho preso ad indicare il momento elettorale italiano, e non solo italiano). Giacché non credo che tra i lettori vi sia una preponderante presenza di adolescenti dell’Ohio o del Montana, è possibile si renda necessaria una ulteriore spiegazione su cosa sia il wrestling e sul suo uso, in questo caso, come potente metafora ricca di guadagni concettuali, della politica. Partito come forma di lotta libera via via sempre più spettacolarizzata e sceneggiata, il wrestling si è fatto sempre più metafora pop (forse anche trash) della eterna lotta tra il bene e il male, con atleti che interpretano (con costumi sgargianti, tormentoni, trucchi) personaggi positivi (gli eroi, i buoni) e altri che interpretano personaggi negativi (i cattivi, i villains).
Qualche anno fa, l’organizzatore di queste riunioni ha rotto gli indugi e ha registrato l’attività non più come sport da combattimento ma come spettacolo, togliendosi di torno molteplici scocciature (l’antidoping ad esempio) che lo statuto di disciplina sportiva portava con sé. Nonostante il carattere narrativo e finzionale sia stato esplicitamente dichiarato (è uno spettacolo, non uno sport!) si possono “ammirare” migliaia di persone che fanno il tifo, si commuovono per l’eroe calpestato, si indignano per la crudeltà del cattivo (e per la slealtà e la mancanza di rispetto delle regole che caratterizza tutti i cattivi) e soprattutto fremono per l’incertezza del destino verso cui corre l’eroe (destino già scritto dagli sceneggiatori e provato in palestra decine di volte) tra salti acrobatici, leve articolari e colpi talmente cruenti che, se fossero veri, porterebbero alla rapidissima fine della serata con ricovero ospedaliero di tutti i combattenti e a un’elevatissima mortalità tra i praticanti.
La sceneggiatura delle riunioni di wrestling è sempre piuttosto prevedibile e schiacciata sui tòpoi che ognuno di noi ha giocoforza assorbito vedendo film d’azione americani: il buono che soccombe a un attacco a tradimento, la catastrofe che si avvicina e, quando tutto sembra ormai perduto, la riscossa dell’eroe grazie alla sua forza d’animo, alla sua resistenza al dolore e volontà indefettibile. Uno schema che già alla fine dell’adolescenza dovrebbe suonare troppo semplicistico e che invece viene mantenuto anche negli adulti. Gli acerrimi nemici e gli immacolati eroi sono spesso buoni atleti, fanno vita in comune in palestra e in tournée e a talvolta sono persino amici tra loro. In pubblico sono però costretti a mantenere il loro personaggio contrattualmente cucitogli addosso.
La politica occidentale (con una particolare menzione per quella italiana) è in assoluto la cosa che più somiglia al wrestling. Anch’essa è partita come una reale lotta, con colpi veri, rischio per l’incolumità dei contendenti, finali a sorpresa e ferite cruente: il regicidio, il biennio rosso, la dittatura fascista, la resistenza, il referendum monarchia o repubblica eccetera. Poi tanto gli organizzatori (le forze geopolitiche, economiche e finanziarie) quanto i lottatori (i politici e gli intellettuali) hanno cominciato a vedere come troppo pericolosa l’aleatorietà del risultato, troppo costosa e imprevedibile la selezione sociale e casuale dei lottatori, troppo cruenti i danni reciprocamente infertisi. Il carattere finzionale, barocco, rappresentativo, ha cominciato ad avere la meglio. Le persone, secondo un processo etimologico retrogrado, hanno cominciato ad essere personaggi ben identificabili nel repertorio della narrazione umana, a farsi vere e proprie improbabili maschere: il filantropo imprenditore (Berlusconi), l’incorruttibile questurino (Di Pietro), lo sprezzante elitista (D’Alema), tutte figure comunque da sempre rintracciabili nelle pagine di Balzac, Dumas, Hugo e altri.
Ultimamente lo spettacolo si è fatto meno credibile e l’organizzazione ha aumentato il turnover dei personaggi, mostrando anche una certa stanchezza creativa degli sceneggiatori: decisionisti modernizzatori con quel sovrappiù di arroganza narcisistica e ignoranza che l’epoca richiede (prima Renzi, ora Calenda); il ritorno dell’esule parigino scacciato dal decisionista (Letta, ovviamente truccato da pensoso intellettuale per far risaltare le differenze con il primo); il sanguigno difensore dell’italico suolo (Salvini); l’uomo di legge pronto a difendere i più deboli (Conte, intento anche a stuprare la gerarchia delle fonti giuridiche a colpi di dpcm, ma il pubblico del nostro “Texas” a queste cose non bada); l’uomo delle istituzioni internazionali che decide di “sporcarsi le mani” pur di salvare il suo paese (Draghi), la donna e madre che giunge sollecita a curare l’afflitto e difenderne i sacri beni (Meloni, ma l’afflitto è ben deceduto da tempo) e cosi via.
Questa generale caratterizzazione dei personaggi e la presenza di sottotrame per rendere più interessante lo spettacolo (in questa fase tornano di moda personaggi dotati di un’allure anni settanta, ad esempio i russi cattivi) servono però al momento fondamentale, che sta alla politica come al wrestling stanno le grandi reunions zeppe di pubblico e riprese dalle televisioni a pagamento: le elezioni. Il momento apicale, quello per cui si è tanto provato in palestra e si sono inventate storie e si è cercato di piacere al pubblico, quello che può far fallire o assicurare il successo dei vari contendenti (tutti contrattualizzati presso lo stesso impresario, ovviamente).
Nella reunion elettorale di quest’anno, che non sembra essere andata bene e ha visto un grosso calo di partecipanti, il revival degli anni settanta che si sta provando da un po’ di tempo (estremizzazioni dell’avversario, piazze con strani facinorosi fantasiosamente descritti dal Viminale, il ritorno del nemico russo e cinese) ha avuto il suo showdown nella chiamata alla difesa della democrazia contro i fascisti ritornanti.
Il plot, per quanto rappresenti un classico, non ha fatto sold out, ma ha comunque ripagato delle spese e ha fornito una guida ai politici-lottatori un po’ confusi dopo tre anni difficilissimi. Soprattutto, però, si è riuscito ad evitare la cosa più grave, cioè che nello spettacolo possano entrare lottatori esterni a compromettere la tenuta della sceneggiatura inserendo elementi di rischio per se stessi e per gli altri che lì lavorano. Qualche lottatore non scritturato ci ha provato ma è estremamente difficile, anche riuscendo ad entrare nel palazzetto dello sport, e pur avendo un bel costume e mosse interessanti, riuscire ad essere inquadrati dalle telecamere ed essere inseriti nella storia agonista.
Ovviamente il wrestling elettorale funziona fino a quando la realtà esterna resta fuori dal ring e dalla sceneggiature. Cosa non difficile avendo grande dispiego di mezzi, una popolazione poco colta e comunque informata solo da pochi scelti media e una situazione sociale ed economica non particolarmente grave. Cosa un po’ più difficile di fronte a una popolazione piegata dagli ultimi anni, seppure in modo diseguale, da varie sventure economiche e sociali (qualcuno ha notato, a proposito di sinistre simulate, come i vari green pass fossero enormemente più gravosi per i poveri che usano i trasporti pubblici che per i ricchi e che le varie chiusure si sono diversamente schiantate sui grandi e sui piccoli?) e con una frequentazione ora più intensa del web dove, tra tonnellate di spazzatura cognitiva, si trovano anche elementi informativi e concettuali esterni alla sceneggiatura del wrestling.
Più la situazione si fa grave più lo spettacolo del wrestling politico è costretto a operare una costante rimozione. È infinita la lista di ciò di cui non si parla più: la diseguaglianza e la possibilità di invertirne il processo, la nostra collocazione geopolitica e le decisioni belliche che ne derivano, il rapporto tra reddito da lavoro e reddito da capitale, la fiscalità delle multinazionali, la progressività delle imposte, un bilancio dei tremendi errori fatti in pandemia, la tenuta della privacy alla prova del capitalismo della vigilanza, il nostro rapporto con la cultura nazionale, la possibilità di continuare a studiare per i ceti più deboli, il rapporto tra nord e sud eccetera. La dimensione di rimozione dello spettacolo politico si fa sempre più rilevante e la finte differenze tra partiti sono costrette a venire orchestrate su aspetti accidentali, su idiosincrasie, su stili diversi, su chiamate alle armi vecchie di decine di anni.
Cosa ci aspetta allora dopo il wrestling? Altro wrestling con palazzetti sempre più vuoti e un minore numero di abbonamenti alle pay tv? Probabilmente sì. Ritornare dal wrestling alla lotta vera, quella dove si può vincere e perdere, dove ci si espone davanti al pubblico, dove niente è scritto e tutto è da giocare, necessita un lavoro che parta dalla cultura e dalla società, dalle piazze e dai media, da nuove sintesi e nuove risposte ai bisogni umani. Solo dopo tutto questo (che si svolge di necessità fuori dai riflettori) si potrà sperare di vedere salire sul ring nuovamente qualche atleta e non solo attori, atleti per cui fare il tifo sarà un atto di dignità e non l’ennesimo gesto d’obbedienza di un consumatore. Portare atleti sul ring smaschererà chi non lo è, nella speranza che persino il pubblico dei bambinoni da wrestling elettorale possa finire con il notare qualcosa di strano.
Andrea dice
infatti negli ultimi decenni qui almeno, sì è trasformato il concerto di fare il politico perché una vocazione in fare politica come carriera
Adriano Cesaroni dice
Articolao meravigliao. Applausi
Leonardo Nicolosi di Manuela dice
La gocciolina d’acqua del mio personale Colibrì dell’Etna continuerà a piovere dal cielo sul finto sudore dei finti duellanti, sperando possa servire almeno a distrarre qualche beota, per qualche istante, dal martirio intellettuale cui tanto incoscientemente aspira.
Daniela Cornelio dice
Illuminante e sconvolgente.
Maurizio Modica dice
Trovo questo paragone perfettamente azzeccato. La spettacolarizzazione della pseudo verità a volte fintamente molto cruenta che contrappone soggetti apparentemente buoni ed altri altrettanto apparentemente cattivi che usciti dal luogo della rappresentazione vanno a fare bisboccia insieme è di fatto quello che avviene in quello che qualcuno, giustamente, ha definito ”il teatrino della politica” dei nostri giorni.Complimenti vivissimi per aver colto nel segno.
Il Contadino dice
Se sali sul ring non sei atleta, sei parte dello show, sempre, senza eccezioni, perché il wrestling, come la politica, è uno show, non uno sport, l’articolista lo dice chiaro e tondo, lo sa bene, ma in fondo in fondo, in una piccola parte di sé, pare covare la speranza, l’illusione che lo show possa diventare realtà, che ci possa essere una magia, un disincanto, che qualche politico smetta i panni dell’attore e si erga a paladino di tutti noi. Amico articolista, consiglio spassionato, esci dal palazzetto, molla le piroette a chi se ne lascia incantare, c’è un mondo qua fuori che vive alla grande anche senza wrestlers
Bertozzi dice
Oh Contadino mentre leggevo dicevo ‘questo lo deve leggere il Contadino’ e tac, eccoti qui. Poi mi citi il disincanto e vinci per forza.
Bertozzi dice
Eh, si tutta questione di ‘sospensione dell’incredulità’: da quella prima volta in cui da piccoli abbiamo creduto che Cappuccetto rosso non vedesse il lupo ma la nonna con i denti più lunghi, siamo finiti a credere a qualsiasi, cosa, tipo che là si scannino l’un l’altro per fare il nostro bene. Bellissima questa metafora del wrestling, non ci avevo mai pensato, complimenti a voi.