Davide Miccione
Avanti.it
Riflettere sull’ignoranza significa, più che riflettere, adottare un nuovo sguardo, reintrodurre questo convitato di pietra che è necessario far tornare visibile e grazie a ciò rivedere cose che ormai non notavamo. E se la più naturale tendenza sarebbe quella, come abbiamo fatto da poco in Senza Qultura, di vedere gli effetti di questa egemonia dell’ignoranza sulla nostra mente, potrebbe essere operativamente interessante indagarne invece le cause o almeno qualche aspetto di esse. Forse andare a ritroso potrebbe farci anche scoprire delle “politiche dell’ignoranza” meno evidenti di come appaiano in prima battuta.
Come ha fatto la nostra società a rendersi così? Cosa è cambiato rispetto a prima? Piuttosto che dragare i soliti seppure importanti itinerari (la scuola, l’aziendalizzazione dell’università, il taglio dei finanziamenti al settore umanistico eccetera) potrebbe essere più interessante esplorare aspetti in apparenza più laterali ma grazie a cui possono incontrarsi, più netti e incisivi, i segni dei nostri tempi.
Il tema a cui pensiamo in queste righe apparve qualche anno fa sotto forma di elogio della disintermediazione (oggi il processo è pressoché concluso ed essendosi ormai reso invisibile alle nuove generazioni non è più necessario perorarne la bontà). Si accompagnava, in quel tempo, alla pervasiva diffusione del prefisso “smart” da cui non ci saremmo invece più liberati. La disintermediazione si offriva ai nostri occhi come vertigine di libertà, come possibilità di attingere alla realtà e alla cultura direttamente, senza dover scontare diaframmi e blocchi che rimandavano ad una società rigida e classista. Chiunque poteva attingere ad ogni informazione, di lì a poco a ogni testo, poteva vendere, comprare, conoscere e farsi conoscere, vedere e farsi vedere, ascoltare e farsi ascoltare. L’assoluto era finalmente a portata del nostro colpo di pistola, anzi di mouse. Come un tempo il liberalismo aveva fatto fuori le dogane e l’Europa aveva unito i confini, ora il web, e la cultura che con essa fioriva, eliminava ogni ostacolo tra noi e la nostra azione.
L’uno vale uno, l’era delle start-up, tutti imprenditori e consimili idiozie permettevano di vedere la fine di ogni mediazione come la fine di ogni dittatura, camarilla, elitismo. Pochissimi talenti e numerosissimi cialtroni ne usufruirono. Eppure, a distanza di pochi anni ci troviamo in mezzo a una delle più impressionanti ondate di elitismo che si ricordino (quello che in altri luoghi abbiamo definito come l’avvento dell’epistocrazia) e le possibilità di azione del singolo necessitano di un numero sempre più alto e pervasivo di condizionalità dettate dal Grande Magnaccia Digitale.
Nella distruzione di ogni mediazione e nel sogno dell’azione diretta telematica sono state distrutte le forme della mediazione culturale attraverso cui ci acculturavamo. Basti analizzare la morte già avvenuta o ancora in corso (le forme culturali si ammalano senza remissione ma poi agonizzano lungamente) di alcuni spazi di mediazione per cogliere il nucleo della questione.
Intanto la morte dei giornali: sempre meno testate, sempre meno copie vendute, sempre meno gruppi che li possiedono, una clientela sempre più anziana, una autonomia politica ormai imbarazzante. Abbiamo fatto il grande salto. Abbiamo eliminato la mediazione: il giornale come lettura del mondo a partire da una posizione su di essa, come selezione delle notizie e loro gerarchizzazione, come luogo in cui si impegna la firma a mostrare la veridicità o perlomeno la responsabilità delle proprie opinioni. Giornale come luogo che ordina, disciplina le notizie collocandole in rubriche e dunque propone una tassonomia del mondo. Giornale che evidenzia la non neutralità della lettura del mondo, che è giornale di partito, di interessi industriali, di sindacato, di un editore di destra o di sinistra e ciò è possibile saperlo. Un confronto tra più giornali (prima che diventassero differenti avatara di un unico dio) permetteva di cogliere molte cose. Il giornale selezionava e sceglieva le sue firme partendo dalla finitezza dei suoi spazi e non dall’infinitezza del web (come le interminabili distese di blog nelle versioni on-line degli stessi giornali stanno a dimostrare). Questo giornale è scomparso dalla formazione dei singoli e ciò che lo ha sostituito, la generica frequentazione del web, oscilla tra l’anoressia e la bulimia informativa.
Poi la fine dei cinema. Come luogo che costringe a regole minime di fruizione. Che impone dei prezzi allo spettatore (prezzi economici e logistici) e quindi impegna il soggetto. Che permette dunque che esista l’opera come resistenza minima opposta alla fruizione del soggetto, quindi come limite del soggetto. Si va a vedere un’opera, si paga per quest’opera, si ha un orario per quest’opera. Senza limite, il soggetto spezzetta e frantuma tutto fino a raggiungere la vicinanza massima con la mancanza assoluta di sforzo e di conseguente cambiamento di sé. L’opera da vedere per intero, ad esempio, dà un limite al soggetto. Si discenda con la mente dal cinema alle forme via via più moderne. Lo stesso film, non pagando, in tv posso vederlo parzialmente, posso parlare disturbando la fruizione mia e altrui, tanto sono a casa e sono tra amici. Con la possibilità di registrare perdo anche il vincolo dato dal timore di perdere pezzi del film. Posso alzarmi e poi vedere il finale in un altro momento o più verosimilmente posso alzarmi giustificandomi con me stesso con la possibilità di vedere il finale altrove anche se è molto probabile che non lo farò. Con il telecomando posso incrociare pezzi di opere tra loro ma soprattutto posso immediatamente trasformare il calo di tensione o interesse nella rinuncia alla fruizione dell’opera. Con la portabilità di internet e i siti di condivisione diventa più facile vederne un pezzo che vederlo tutto. Dunque solo ciò che è più divertente o che diventa virale. Tutto questo ci è stato proposto come progressiva liberazione del soggetto e invece era la condanna del soggetto a rimanere solo se stesso senza nulla che lo ponga in dialettica, in fitness, in allenamento, con qualcosa di superiore o di estraneo.
Infine il libro stesso. La natura mediatrice del libro come oggetto non è mai stata troppo evidente fino a quando una impressionante caterva di materiale scritto senza forma alcuna si è imposto (articoli, blog, post, post che copiano pezzi di libro, pezzi di libro che girano per l’infosfera dimentichi delle loro provenienze, articoli trasferiti copiandoli malamente su un altro sito all’insaputa dell’autore, capitoli scorporati offerti come amo per acquistare il libro). Adesso a fronte di tutto ciò il libro appare come ente di adamantina politezza e carico di quella perfezione che secondo György Lukács era il portato essenziale della civiltà borghese. Il libro appare sempre “vestito” da una casa editrice che ne certifica la ragione sufficiente per essere pubblicato, possiede una data che ne segna la venuta pubblica al mondo o il suo ritorno se è una riedizione, possiede un luogo, alcuni dati (edizioni, ristampe,) che testimoniano mutamenti e avvertono il lettore in quello che ora appare come un tripudio di rispetto per il fruitore. Il libro ha spesso una collana di appartenenza che ulteriormente lo colloca in un senso e in una costellazione ideale, ha una quarta di copertina che ci dice cosa la casa editrice vuol comunicare. Inoltre il libro, e ciò è meraviglioso, fa resistenza alla sua denudazione, al suo stupro, alla sua piena utilizzabilità. Non può essere fatto a brani e ricopiato senza riscriverlo, non può farsi troppa ricerca in esso senza leggerlo, non ha motori di ricerca e parole chiave che ci evitino di leggerlo pensando però di possederlo. Esso mette un freno alla nostra demente presunzione di onnipotenza, si sottrae alla stupida manipolazione. Il libro sta a generazioni di uomini colti come le sue versioni frante ed elettroniche stanno a una generazione di produttori di scrittura naturaliter plagiaria o auto plagiaria, copia-incollatrice, adusa a calcolare la quantità delle cose e non la qualità.
Lo stesso discorso, ma l’analisi fatta finora è già sufficiente a coglierne il senso, potrebbe farsi per la casa editrice, le riviste (meraviglioso crogiuolo di idee per i lettori e per gli estensori), i dischi e i cd, ma anche per realtà fisiche e sociali la cui profonda connessione con la possibilità della cultura è meno immediatamente evidente: i sindacati (mediatori per eccellenza) ora scomparsi, o viventi vestigialmente, lasciando spazio all’incontro tra il singolo lavoratore e il leviatano-azienda o peggio il super-leviatano web; i partiti e gli innumerevoli impliciti che l’esistenza di un partito contiene. Si intende ovviamente un partito e non una lista elettorale, dunque qualcosa che abbia vita, funzioni e strutture anche in assenza di elezioni. L’esistenza di un partito ha come implicito che le questioni da risolvere non siano solo tecniche ma abbiano un aspetto politico, una dimensione in cui sia possibile scegliere, cioè “prendere una parte”. La scuola di partito infatti è “di partito”, non tecnica e neutrale. Il partito implica che persone possano associarsi in modo non episodico non solo su una questione specifica ma su una visione del mondo. Man mano che il mondo si è liquefatto, il partito ha ceduto il potere alle lista caccia, pensionati ecc. e poi a quel misto di partito dei notabili di stampo giolittiano e agenzia di social media che sono i partiti contemporanei, non in grado di mediare nulla. Ovviamente senza i partiti permane la medesima divisione economica e sociale dei portatori di interesse, però si fa finta che non vi sia.
Cosi, il soggetto contemporaneo ha inscenato la sua grande conquista dell’emancipazione culturale, instradato ad abbattere ogni diaframma, ogni mediazione che attentava alla sua libertà, ha perso la sua identità provando a ricreare apocrifamente quelle mediazioni attraverso cui dialetticamente si definiva e mettendo in campo delle pseudomediazioni artificiali (le brand community, le social community, i follower ecc.). Dopo aver spezzato quelle che lui credeva fossero catene (ma era un esoscheletro) il nostro titano contemporaneo è finito con milioni di suoi simili a fare il follower per quei pochi che dalla fine delle mediazioni hanno tratto qualcosa.
Ma la cultura stessa è mediazione, lo stesso concetto è la forma occidentale di mediazione con il reale e con l’estinzione completa della mediazione si estinguerà anche la cultura perché, come scrive Franco Cassano in un libro di cui abbiamo scopertamente omaggiato il titolo «alcune esperienze decisive per la nostra maturità non sono velocizzabili e possono prodursi solo se avvengono a ritmo lento. La crisi, la crescita e la meditazione avvengono nella lentezza, così come solo nella lentezza si percepisce la complessità di un problema, quando gli si può girare intorno guardandolo da tutti i lati».
Ovviamente non c’è stata alcuna vera eliminazione della mediazione, ma solo di quelle vecchie, disorganizzate e anarcoidi, e perciò difficilmente assoggettabili a un disegno totalitario, sostituite ora con la grande mediazione del web, dell’algoritmo, della camera dell’eco digitale, di un guinzaglio molto lungo ma indistruttibile. Particolarmente facile far finta di non andare oltre perché sei stanco tu e non perché ti fermerebbe comunque il legaccio: in tal senso potremmo considerare Julian Assange come uno dei segnali di stop fornito dal Grande Mediatore a chi voglia tendere il guinzaglio invece di fermarsi, come è consigliabile, ben prima.
Come era in fondo prevedibile, il soggetto contemporaneo ha preferito fare fuori i suoi fratelli, e finalmente si è fatto kapò di se stesso: si sfrutta, è del tutto eterodiretto, ma ritiene di essere lui a scegliere. Convincerlo del contrario non sarà semplice.
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