Trascrizione integrale del discorso di Lelio Basso durante il dibattito sul Consiglio d’Europa alla Camera dei Deputati, del 19 luglio 1949
BASSO – Signor Presidente, onorevoli colleghi! Confesso che quando il mio Gruppo mi ha dato l’incarico di prendere la parola, sono rimasto per un momento incerto se convenisse adottare il tono serio della critica o quello leggero dell’ironia. Certo, se noi ci attenessimo letteralmente alla lettura dello strumento che siamo chiamati a discutere e lo paragonassimo con il messaggio radiofonico con cui l’onorevole Sforza aveva dato l’annunzio al paese il 29 gennaio scorso, saremmo piuttosto tentati a seguire la via dell’ironia. L’onorevole Sforza iniziava quel radio-messaggio con le parole: “Voi avete appreso la costituzione dell’Unione europea”. E l’onorevole Presidente del Consiglio, in quella stessa occasione, in una intervista, scomodava addirittura la divina provvidenza, la quale – diceva – supera le capacità umane.
Ora, noi abbiamo sotto i nostri occhi il testo dell’Accordo, e vediamo che siamo ben lontani dai disegni provvidenziali di cui parlava l’onorevole De Gasperi, ed anche dall’Unione europea di cui parlava l’onorevole Sforza. Non è Unione europea non solo perché ne è esclusa una larga parte di Europa, non solo perché dalla rappresentanza dei Paesi che vi aderiscono sono esclusi tutti coloro che non sono d’accordo, ma anche perché le clausole dell’accordo riducono veramente a molto poco il contenuto di questo Consiglio dell’Europa. Sono intanto escluse le questioni militari, alle quali provvede il Patto Atlantico; sono escluse anche tutte le altre questioni per le quali esistono altri organismi internazionali: in modo particolare sono quindi di fatto escluse le questioni economiche, per le quali ha competenza l’O.E.C.E.; sono escluse cioè le questioni fondamentali della vita europea. Il Comitato dei Ministri non ha potere di prendere deliberazioni, ma soltanto di fare raccomandazioni ai Governi, ed è soggetto alla regola dell’unanimità. L’Assemblea poi non ha addirittura il potere di fissare neppure l’ordine del giorno delle proprie discussioni; essa può fare raccomandazioni al Comitato dei ministri, ma soltanto su materie che il Comitato dei ministri ponga all’ordine del giorno dell’Assemblea, o su quelle richieste dall’Assemblea, ma dopo che il Comitato vi abbia consentito. Siamo quindi presso a poco sullo stesso piano sul quale si erano già messe d’accordo le cinque potenze del Patto di Bruxelles, secondo il comunicato, mi pare, del 5 febbraio, prima cioè che intervenissero alle trattative l’Italia, i paesi scandinavi e l’Irlanda e cioè i cinque Paesi successivamente invitati dagli iniziatori che erano l’Inghilterra, la Francia e il Benelux. E credo sarebbe utile che l’onorevole Ministro degli Esteri dicesse perché, essendo intervenuto successivamente in quelle trattative, egli ha completamente accettato uno schema che non risponde alle sue impostazioni; anzi, in certo senso l’accordo definitivo è più limitativo ancora dell’abbozzo del febbraio, perché in quel comunicato delle cinque Potenze di Bruxelles del 5 febbraio si parlava, p. es, di decisioni dell’Assemblea da prendere a semplice maggioranza, mentre dal testo risulta che occorre la maggioranza qualificata dei due terzi, e quindi il già scarso potere di quest’organo ne risulta ancora indebolito.
Se, quindi, volessimo fare veramente dell’ironia, la potremmo fare agevolmente perché a Strasburgo per ora nasce soltanto un’Accademia. E se volessimo addirittura fare dell’ironia amara, potremmo leggere l’art. 3 dell’Accordo, dove si dice che i Paesi membri del Consiglio dell’Europa riconoscono il principio della preminenza del diritto ed il principio, in virtù del quale ogni persona posta sotto la loro giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Potremmo fare dell’amara ironia se leggessimo questo art. 3 e pensassimo che paesi come la Turchia e la Grecia, di cui si sa quale rispetto abbiano per questi principii, hanno manifestato l’intenzione di aderire e le Potenze che hanno preso la iniziativa del Consiglio, si sono subito dichiarate d’accordo nell’ammetterli. Potremmo fare dell’ironia amara, del resto, anche soltanto rilevando come fra i Paesi stessi che hanno preso questa iniziativa, fra le Potenze cioè che vogliono fondare il Consiglio dell’Europa sulla base del rispetto di questi principii, in virtù dei quali ogni persona posta sotto la loro giurisdizione deve godere dei diritti e delle libertà fondamentali, vi sia un paese come la Francia, che recentemente ha massacrato 85.000 malgasci in forme più brutali di quelle naziste, calpestando qualsiasi norma di legge e di civiltà e ha violato anche le immunità parlamentari per far condannare a morte dei deputati malgasci.
Potremmo fare dell’amara ironia, se rilevassimo che le Potenze, che ci invitano a rispettare questi principii sono le Potenze che conducono in questo momento guerre coloniali con metodi che significano il più assoluto disprezzo dei principii stessi, la Francia al Viet-Nam, l’Olanda in Indonesia e l’Inghilterra in Malesia. Ma io voglio andare al fondo dell’esame del problema che ci interessa. Se le parole dell’Accordo hanno scarsa portata, io voglio occuparmi delle cose, che hanno senso e portata e che stanno dietro a queste parole. Non si può non riconoscere la scarsa portata pratica di questi Accordi. È stato detto, però, dai soliti uomini di buona volontà, che in fondo sarebbe questo soltanto un primo passo verso la realizzazione di postulati di unità europea, e che per il momento bisogna contentarsi di quel po’ che si può ottenere, ma che su questa strada potremo raggiungere risultati molto più concludenti. Ebbene, onorevoli colleghi, per giudicare del valore del primo passo, noi dobbiamo sapere in quale direzione noi stiamo camminando e verso quali mète ci conducono gli altri passi successivi che si potrebbero e vorrebbero fare. E, per renderci conto quale sia la direzione nella quale questo primo passo si compie, noi abbiamo un unico strumento di indagine: esaminare cioè il corso degli avvenimenti, attraverso cui siamo arrivati in questo dopoguerra, all’Accordo che stiamo esaminando. Ieri, mi pare che un oratore della maggioranza attribuisse all’onorevole Sforza una specie di paternità spirituale di questa unità europea… Me ne duole per l’onorevole Sforza se ha delle ambizioni in questo senso, ma il vero padre spirituale del Consiglio d’Europa è l’ex Premier Churchill.
Churchill nel suo discorso del 5 marzo 1946 a Fulton ha preconizzato un formidabile blocco antisovietico fondato su una Triplice, e cioè sugli Stati Uniti, sul “Commonwealth” e sull’Europa, e, successivamente nel discorso di Zurigo del 19 settembre 1946 egli faceva la descrizione dell’Europa a cui egli pensava, un’Europa necessariamente unita e in vista di un obiettivo comune della quale deve far parte anche la Germania, affinché meglio possa assolvere al compito di diventare uno degli elementi su cui poggia questa Triplice antisovietica. Churchill pensava evidentemente allora ad una Triplice in cui due membri, il “Commonwealth” e l’Europa unita avessero alla loro testa la Gran Bretagna, per permettere all’Inghilterra di giuocare un ruolo di primo piano, e di porsi sullo stesso piano degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari con gli Stati Uniti, avendo dietro di sé, da un lato il “Commonwealth”, e dall’altro l’Europa unita.
Noi sappiamo che le cose si sono svolte in modo diverso da come l’Inghilterra desiderava. L’Inghilterra non riuscì a diventare la guida degli altri Paesi, ma al contrario ebbe essa medesima bisogno di ingenti aiuti dagli Stati Uniti. Sopravvenne il Piano Marshall come strumento della dottrina Truman, e l’America pose nettamente la candidatura ad essere sola ed esclusiva guida, sola ed esclusiva dominatrice e dirigente della politica mondiale, trasformando praticamente il resto del mondo ancora soggetto al capitalismo in una serie di dominions americani. L’America latina è già praticamente in gran parte un dominion americano. In Asia l’occupazione militare del Giappone e di parte della Corea e il loro asservimento economico; la penetrazione del capitalismo americano in India grazie agli accordi con la politica della borghesia indiana guidata da Nehru, come testimonia la recente conferenza di Nuova Delhy; inoltre la penetrazione in Africa e altrove nelle cosidette aree arretrate che sta diventando la preoccupazione principale del Governo di Washington, sono altrettante espressioni di questa politica, in virtù della quale il mondo soggetto ancora al capitalismo si trasforma praticamente in una serie di semicolonie o se più vi piace, di dominions americani. È in questa frase, e come strumento di questa politica di dominazione americana, che nasce e si concreta il progetto francese di Unione europea; nasce cioè la proposta di una vera unione europea con parziali rinunce alle sovranità particolari e con un proprio Parlamento eletto. L’Inghilterra resiste perché non si è ancora rassegnata a subire anch’essa in pieno il nuovo dominio del capitale americano, non si è ancora rassegnata a perdere effettivamente il suo passato rango mondiale, e a ridursi al rango comune degli altri Paesi dell’Europa Occidentale. L’Inghilterra è disposta ad accettare l’Unione europea per quel tanto che le serve in funzione della sua politica antisovietica ed, eventualmente per smerciare merci inglesi, ma non è disposta ad accettare una Unione europea che valga a ridurre la personalità inglese al livello degli altri Paesi. In questo senso non vi è dubbio che la borghesia inglese resiste ancora all’imperialismo americano, come in certo modo resiste ancora quella svizzera e quella svedese e, di là dell’Oceano, quella argentina, ciascuna con i suoi mezzi e con le sue possibilità. E non vi è dubbio che potremmo essere tentati di seguire con simpatia gli sforzi che la borghesia inglese fa per resistere all’imperialismo americano, che tende ed estendersi ovunque, se non sentissimo troppe volte che gli strumenti che l’Inghilterra appresta per la propria difesa hanno un suono che ci ricorda un passato recente.
Quando noi sentiamo parlare di aree della sterlina, di scambi bilaterali, di moneta non convertibile, di restrizione delle importazioni, di politica di austerità, noi sentiamo riecheggiare quella che fu una recente politica imperiale in Europa che con altri nomi diceva le stesse cose: invece di parlare di aree della sterlina parlava di spazio vitale (ed era sostanzialmente la stessa cosa), invece di parlare di restrizioni di importazioni parlava di autarchia (ed–era sostanzialmente la stessa cosa), anziché dire “austerità”, diceva “non burro, ma cannoni” e non era cosa molto diversa. Si tratta cioè delle politica degli spazi chiusi che fanno le economie deboli contro la politica della porta aperta che fanno le economie forti e aggressive, ma quando questa politica la facevano i nazisti, essa suscitava la virtuosa indignazione dei gentlemens britannici. Praticamente, il conflitto nelle trattative per il Consiglio europeo fra Francia e Inghilterra riecheggia fra la politica americana e quella inglese. La Francia è la più favorevole a spingere più oltre la realizzazione di certi principii di unità europea per un doppio ordine di considerazioni: in parte in obbedienza alle direttive della politica americana che essa subisce integralmente, in parte per lo stesso interesse egoistico francese, nel senso cioè che come l’Inghilterra spera di potersi appoggiare ai Paesi dell’Europa Occidentale per salire qualche gradino e poter parlare da pari e pari con gli Stati Uniti, allo stesso modo la Francia spera di potersi appoggiare agli altri Paesi dell’Europa Occidentale, in modo particolare sull’Italia e che è così servizievole, per poter parlare da pari a pari con la potenza britannica. Ma, non vi è dubbio che attraverso questi contrasti, che riflettono i contrasti più vasti, anche il Consiglio europeo tende ad inquadrarsi come uno strumento di questa stessa politica, uno strumento della politica atlantica, e quindi dobbiamo considerare l’accordo oggi sottoposto alla nostra ratifica come manifestazione di politica atlantica.
Io credo che non vi sia bisogno di soffermarsi a dare di ciò molte dimostrazioni. Basterebbe pensare all’origine; il Consiglio europeo nasce dall’Unione Occidentale, dal Patto di Bruxelles, dal Patto delle cinque Potenze (Inghilterra, Francia e Benelux), che hanno preso la iniziativa di convocare le altre Potenze. Basterebbe leggere il preambolo del Consiglio europeo, che ad un certo punto così dice: “attaccati ai valori spirituali e morali, che sono il patrimonio comune dei loro popoli, e che sono all’origine dei principii di libertà individuale, di preminenza del diritto, di cui si faceva ogni vera democrazia, ecc., ecc.”, e confrontarlo con il preambolo del Patto Atlantico il quale ugualmente dice: “Gli Stati contraenti sono decisi a salvaguardare la libertà dei popoli, la loro comune eredità e la loro civiltà fondata sui principii della democrazia”, per sentire che unico è il motivo ispiratore. Sono gli stessi preamboli della Santa Alleanza, del Patto antikomintern.
È sempre così: quando la reazione vuole giustificare se stessa, si fa appello alla tradizione, all’eredità, agli elementi del passato, e si chiama tutto questo difesa della civiltà, della civiltà cristiana, della civiltà occidentale, a seconda delle circostanze. Ma la sostanza è sempre la stessa. Ma è del resto lo stesso Ministro Sforza, che in un discorso pronunciato a Bruxelles il 20 giugno, disse che il Consiglio europeo è uno strumento della politica atlantica anzi, disse che la vera unione europea è quella che si manifesta attraverso il Patto Atlantico. Disse testualmente l’onorevole Sforza: “Il problema della unità europea si è imposto progressivamente in tutti gli ambienti, nei– Parlamenti, tra gli scrittori politici, ed anche presso i vari Governi europei. Nel breve giro di poche settimane ho firmato un trattato per la creazione di un’Unione doganale tra l’Italia e la Francia, un’Unione doganale concepita nello spirito che vi ha animato all’epoca del vostro accordo con i Paesi Bassi e con il Lussemburgo. Ho firmato gli atti che garantiscono la vita della organizzazione economica per la cooperazione europea che ha sede a Parigi, la quale speriamo divenga il Ministero dell’Economia europea. Ho firmato a Washington con altri 11 Ministri degli Esteri il Patto Atlantico, che rappresenta, sotto alcuni aspetti, l’autentico inizio di un’Unione europea ed infine, il mese scorso, ho firmato per l’Italia, come il mio collega Spaak ha firmato per il Belgio, l’atto costitutivo del Consiglio europeo e della Assemblea europea”.
Non c’è dubbio quindi che l’onorevole Sforza considera il Consiglio europeo come uno strumento di questa politica atlantica, e lo considerano tale anche gli americani come ad esempio un autorevole ex Ministro degli affari esteri americano, Summer Welles, il quale in un articolo dell’11 febbraio, dopo il primo comunicato che annunciava gli accordi per il Consiglio europeo, diceva: “Il progetto attuale è un debole compromesso. Esso respinge la tesi francese, secondo cui bisogna creare un potente Parlamento europeo. Il progetto non contiene nessuna disposizione che preveda la limitazione delle sovranità nazionali. Un’ombra di Unione europea del genere di quella che si progetta attualmente, ha delle chances di essere di qualche utilità pratica per gli Stati Uniti? Esiste una ragione valida perché non si dica francamente a quei Paesi che ricevono aiuti a titolo ERP, e che riceveranno delle armi per la loro difesa in conseguenza del Patto Atlantico, che uno dei principali risultati ricercati dal popolo americano, in cambio dei sacrifici che esso consente per l’Europa occidentale, è una Federazione reale dei Paesi dell’Europa occidentale”.
È chiaro quindi che nelle intenzioni del Ministro Sforza e nella realtà dei fatti il Consiglio europeo è uno strumento per la realizzazione delle stesse finalità che l’imperialismo americano si è assegnato col Patto Atlantico. È uno strumento per sviluppare la stessa politica mondiale dell’America, e contro la quale le resistenze inglesi hanno lo stesso significato delle resistenze di un imperialismo che tramonta contro un imperialismo che si afferma vittorioso, resistenze di un egoismo conservatore, contro un egoismo aggressivo e conquistatore. Ora, quale è il posto che questo Consiglio europeo occupa nel quadro generale di questa politica atlantica; quale è la funzione che gli compete? É indubbiamente ed essenzialmente per ora (in attesa di ulteriori sviluppi) una funzione di copertura. Il Patto Atlantico parla anche esso di ideali, ma parla anche di armi, che sono un elemento molto più realistico; il Piano Marshall parla di cooperazione, di ideali, di mutuo appoggio, che sono qualche cosa di. prosaico, ma parla anche di quattrini.
Ora è bene invece avere uno sfogo per i puri ideali, un’Assemblea dove si può parlare soltanto di ideali europeistici e non di armi né di quattrini. Questo piace all’opinione pubblica; questo piace a certi strati soprattutto della piccola e media borghesia. Perché noi ci rendiamo conto dell’importanza fondamentale che queste cose hanno nel quadro generale della politica capitalistica, è necessario pensare che tutta la società borghese è costruita essenzialmente su due piani: il piano della lotta di classe, il piano ove si svolgono le cose così come sono realmente nella loro dura brutalità e il piano in cui questi rapporti di classe, in cui le contraddizioni della società, in cui tutti i conflitti che ci dilaniano sono, viceversa, espressi e risolti in termini puramente formali e puramente giuridici. La vecchia società precapitalistica chiamava più brutalmente le cose col loro nome: aveva anch’essa una divisione in classi, delle contraddizioni interne, una oppressione di classi su altre classi; ma chiamava privilegi i privilegi, dicevo apertamente che il servo della gleba era legato alla terra, dava apertamente agli ordini privilegiati, nobiltà e clero, maggiori diritti che al Terzo Stato, proclamava in tutte lettere le restrizioni dei diritti dei cittadini. Era una società che confessava apertamente le sue contraddizioni, perché rimandava la soluzione di queste contraddizioni all’oltretomba: l’uomo che sentiva la sua disuguaglianza su questa terra, si consolava pensando che era uguale agli altri nell’aldilà, e si rassegnava a un’oppressione che riguardava solo il breve periodo di passaggio su questa terra.
La società borghese è sorta negando questi princìpi, è sorta chiedendo che la società risolvesse le sue contraddizioni in questo mondo che dovessero cessare gli ordini privilegiati e l’oppressione che ne derivava. Perciò essa ha dovuto risolvere queste contraddizioni su questa terra, ma poiché d’altro lato ha creato nuovi privilegi economici, essa ha dovuto risolverle solo su un piano giuridico formale, cioè il contrasto esiste ancora, l’oppressione è accora più dura, il proletario di oggi è in condizioni più gravi di quelle del servo della gleba; ma esso è formalmente uguale agli altri uomini. L’uguaglianza non si realizza più soltanto dinnanzi alla tomba, ma dinnanzi alla legge: formalmente la società borghese risolve tutte le sue contraddizioni e per ogni soperchieria brutale che il capitalismo compie per ogni forma di sfruttamento, che il capitalismo impone alle classi oppresse, esso deve sempre trovare una giustificazione ideale.
Di fronte ad una contraddizione che si aggrava sul piano sociale, bisogna sempre trovare una apparenza di soluzione sul piano formale: ed è questo il servigio che i ceti medi rendono alle classi capitaliste, è appunto il servigio di tradurre in questo linguaggio ideale e formale le contraddizioni brutali della società. E non c’è nulla di più assurdo nella situazione di oggi del buon piccolo e medio borghese che ogni giorno è brutalmente spogliato della sua proprietà dal grande capitale attraverso la pressione fiscale, le svalutazioni monetarie, il gioco di borsa e, ciononostante, si proclama difensore della proprietà, e naturalmente della proprietà così com’è, cioè della proprietà capitalistica contro il socialismo. Non c’è nulla di più assurdo nella posizione di questo medio e piccolo borghese oppresso nella sua libertà perché ogni giorno più ridotto a mero strumento della politica capitalistica – sulla quale non esercita alcuna influenza – costretto perfino ad assimilare le idee che gli fornisce belle e fatte la stampa dell’imperialismo, la cui possibilità di informazione è annullata, e la cui libertà di. giudizio è violata sin nell’interno della coscienza, e che ogni giorno più si fa difensore della libertà, contro le minacce esistenti, cioè dell’ordine stabilito, che gli verrebbero dal socialismo. Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali è un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte. Per apprezzare l’identità della politica della cosiddetta Unione Europea con quella americana, basta vedere le dichiarazioni fatte da uomini politici esponenti delle due correnti. André Philip, noto europeista francese, dice: “La Ruhr è veramente la pietra di paragone di questa Europa unita che vogliamo creare”. E Acheson, l’attuale segretario di Stato americano diceva, quando ancora non era Segretario di Stato, all’epoca del lancio del Piano Marshall: “La ricostruzione prioritaria della Ruhr è la pietra angolare del Piano Marshall.
È chiaro quindi che questa cartellizzazione dell’industria europea e questa Unione Europea (chi dice Ruhr dice cartello dell’acciaio) si spiegano e si manifestano nella direzione che l’America vuol loro dare. È superfluo sottolineare l’importanza di questa cartellizzazione dell’industria della Ruhr per la politica europea.” La Ruhr è stata negli ultimi decenni veramente la pietra angolare del dominio dell’Europa. Hitler ha potuto conquistare l’Europa perché aveva la Ruhr. La sua importanza spiega la politica francese e la politica americana di occidente. L’America infatti ha rapidamente abbandonato la politica antinazista e antifascista che aveva fatto in Germania, cosi come, per le, stesse ragioni, l’ha abbandonata in Giappone. Ha rimesso in auge i grandi industriali fascisti, e ha ricostruito le industrie monopolistiche della Germania e del Giappone, non più in servizio dell’imperialismo tedesco e giapponese, ma dell’imperialismo americano che si assume il controllo finanziario di questa industria pur concedendo una partecipazione agli industriali fascisti tedeschi e giapponesi che erano i vecchi proprietari, e che sono ora degli associati minori alle fortune del capitale finanziario americano.
È ora attorno a questa posizione che si fa una politica di Unione Europea; è attorno a questa posizione, che si fa una politica di cartellizzazione delle industrie, che significa dominio del capitale monopolistico americano in Europa. I due termini, Unione Europea e dominio del capitale americano coincidono. Se questa politica è destinata a fare altri passi avanti, noi assisteremo a profonde riforme nella struttura dell’Europa occidentale. In ogni paese sopravviveranno soltanto le industrie che l’America avrà interesse di far sopravvivere, e del resto fin da ora noi assistiamo in Italia al crollo di molte industrie in gran parte per questa ragione, in Francia già vediamo le preoccupazioni che sorgono di fronte alla sorte che potrebbe attendere, in una Europa di questa natura, alle industrie aeronautiche e alle industrie idroelettriche, destinate a cartellizzarsi nel massiccio alpino. Un’Europa che cammina su questa strada, un’Europa che tende ad unificarsi in funzione del capitale americano, è un’Europa che tende a far sparire, che tende a distruggere le piccole e medie industrie; che tende a portare all’esasperazione i contrasti di classe, e a far sentire sempre più la pressione brutale del capitale finanziario monopolistico. La lotta di classe non può che venirne accresciuta, e non può che accrescersi la disoccupazione, che accompagna sempre i fenomeni di concentrazione e di cosiddetta razionalizzazione dell’industria. Ma la piccola e la media borghesia ne sarebbero anch’esse inesorabilmente schiacciate.
D’altra parte si accrescerebbe anche un altro aspetto dalia politica dell’imperialismo: la manomissione dei grandi trusts, dei grandi monopoli sullo Stato e sui pubblici poteri. Quanto più lo Stato si ingigantisce, quanto più i suoi compiti si fanno vasti e complessi, tanto più la politica dello Stato sfugge al controllo diretto delle masse popolari, tanto più diventa facile la pressione, la manomissione e l’esercizio diretto del potere da parte dei gruppi monopolistici. Ed anche quella la decadenza del Parlamento, di cui si parla molto in questi ultimi tempi qui da noi, è in funzione di questi fenomeni. I grandi trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i grossi problemi dell’economia, della finanza e della politica nel chiuso dei consigli di Amministrazione e dei Gabinetti dei Ministri. Che cosa sanno, per esempio, oggi, il proletariato inglese e americano, che cosa sa lo stesso Parlamento inglese della reale portata degli enormi conflitti di interessi che si nascondono dietro la lotta fra sterlina e dollaro? Abbandoniamo quindi questa illusione di una unione europea in funzione di terza forza! Noi sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un passo avanti sulla via dell’assoggettamento dell’Europa al dominio del capitale finanziario americano ed è altresì un passo avanti verso la formazione di una piattaforma europea in funzione antisovietica.
So che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: Ma allora, voi socialisti avete abbandonato l’internazionalismo, siete diventati i difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, che è una concezione ormai superata. Ebbene, noi siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica, noi siamo sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx scrisse “gli operai non hanno patria”, ma Marx ci insegnò altresì che il proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso l’acquista a misura che esso si emancipa, a misura che esso strappa dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere politico e si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui tutti i cittadini, attraverso l’abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano la propria coscienza nazionale. In questo senso, oggi, la lotta che combattiamo sul terreno della lotta di classe, la lotta per l’emancipazione del proletariato è un tutt’uno con la lotta per difendere il nostro Paese dalla invadenza del capitalismo americano. I lavoratori che lottano, lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe e contro lo sfruttamento che di essi pretende fare il capitalismo americano, il quale vuole essere associato al capitalismo nostrano nella spartizione dei profitti ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi lavoratrici, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il proletariato ad inserirsi sempre più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia e fa coincidere sempre più la lotta per l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza nazionale nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante. Il cammino, viceversa, della borghesia, è l’opposto.
La borghesia nasce con una coscienza nazionale all’origine e si pone come classe nazionale; lotta per superare le divisioni che erano retaggio della vecchia organizzazione feudale; lotta per abbattere le dominazioni straniere che erano retaggio delle vecchie contese dinastiche, e sopratutto lotta perché il capitalismo si assicuri le condizioni di un libero sviluppo sulla base di un sufficiente mercato. È questa sopratutto opera del capitalismo industriale, ma a misura che il capitale finanziario si sovrappone al capitale industriale, ed esercita il suo diretto dominio sull’apparato statale, esso rivendica sempre nuove posizioni. Lo Stato nazionale diventa nazionalistico, imperialistico. Il capitale finanziario, per sua natura aggressivo, espansivo, esce dei limiti del proprio paese e tende a conquistare altre terre, assoggettare altri paesi, tende ad estendere la sua sfera di influenza economica; entra in conflitto con il capitalismo di altri paesi. Siamo nella fase delle guerre imperialistiche in cui la coscienza nazionale si esaspera a nazionalismo e in cui la borghesia considera più che mai lo stato come strumento per questa sua politica di conquista, di aggressione, di sfruttamento non soltanto delle classi lavoratrici proprie ma anche delle classi lavoratrici di altri paesi. Ma, attraverso queste guerre imperialistiche, tutte le borghesie dei paesi capitalistici, esclusa quella americana, sono uscite stremate. Sono uscite incapaci di reggere le posizioni raggiunte e di superare le contraddizioni interne che lacerano in modo spaventoso ogni paese. La situazione dl questo dopoguerra è caratterizzata dal fatto che riesce impossibile alle borghesie, alle classi dominanti, indebolite dell’Europa occidentale, di conciliare la legge del profitto capitalistico con la necessità di garantire un sufficiente tenore di vita alle classi popolari; riesce impossibile difendere ancora i propri privilegi contro la pressione di classi che– hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare.
È allora che interviene il capitale finanziario americano per sorreggere queste classi decadenti condannate dalla storia e che non hanno più la forza di assolvere al loro compito storico, che difendono soltanto posizioni superate. Interviene il capitale finanziario americano, il più forte, il più aggressivo, il più potente, il solo che non conosca rivali nel mondo capitalistico, il quale garantisce, si, ad ognuna delle borghesie di questi paesi la difesa dell’ordine sociale, ma vuole assicurare a sé stesso la più larga parte di profitto, disposto a chiamare le borghesie capitalistiche dei singoli paesi quali associate allo sfruttamento sempre più intenso che esso fa delle classi lavoratrici. È questa la politica – come ho ricordato in occasione della discussione sul Patto Atlantico – che gli Stati Uniti hanno sempre applicato per un secolo all’America Latina, dove ben pochi paesi godono ancora qualche margine di indipendenza, ed è la politica che essi intendono applicare anche in Europa. Ed ecco che noi assistiamo e questo punto al passaggio improvviso di quelle borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo, ad un’ondata di cosmopolitismo. Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale. L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni diverse di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie nostrane e dell’Europa affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.
DELLE FAVE – Perché ci volete andare?
BASSO – Non c’è oggi popolo al mondo che sia più nazionalista del popolo americano. Oggi negli Stati Uniti chi non crede che questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano sia il popolo destinato a dominare il mondo, è considerato un non americano ed è messo al bando dalla vita civile. Eppure questo popolo degli Stati Uniti, questo popolo che in casa sua è il più nazionalista dei popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa , parla con affettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei suoi servi che sono pronti ad applaudire al cosmopolitismo. Le stesse borghesie italiana e francese, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi oggi con la stessa indifferenza e sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per servire gli interessi del capitalismo americano. Esse cercano di pervertire con questo veleno il vero sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per esempio, sotto la penna di uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux, frasi di questo genere: “L’uomo diventa tanto più uomo quanto meno è unito al suo paese”. Anche la propaganda hitleriana era basata come quelle americana di oggi, su questo stesso dualismo. Il popolo tedesco, parlava di sé come di un popolo eletto, popolo destinato a dominare il mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo.
Io vorrei ricordare in questa nostra discussione le parole che scrisse nel 1941 un eroe e un martire della Resistenza francese a questo proposito, in una delle riviste più autorevoli della cultura francese, “La Pensée”. Leggo parole che Giorgio Politzer scriveva su un fascicolo clandestino de “La Pensée Libre” nel 1941 e che si attagliano al caso nostro. “Noi non abbiamo bisogno – diceva parlando in polemica con gli hitleriani e interpretando il concetto hitleriano – non abbiano bisogno di tante nazionalità in Europa. La loro esistenza è perfettamente assurda. Dal punto di vista “dell’organizzazione razionale dell’industria” due nazionalità sono sufficienti, una per gli sfruttatori e una per gli sfruttati, una per i padroni e l’altra per gli schiavi. Francesi, Belgi, Olandesi, Russi, Polacchi, Cechi, Serbi, Bulgari, Sloveni, Croati, Rumeni, Albanesi, Bosniaci, Ungheresi, Turchi, Norvegesi, Svedesi, Danesi, Finlandesi, Portoghesi, Inglesi e anche Italiani e Spagnoli, costituiscono un lusso. È necessario capire. Questi popoli hanno il loro assurdo sentimento nazionale e le loro assurde aspirazioni patriottiche. Poiché è bene il termine “assurdo” che bisogna adoperare. Ne risultano perturbazioni nella produzione, quindi una diminuzione di rendimento…. Le cause di spreco e di “diminuzione di efficienza”, che rappresentano il sentimento nazionale e le aspirazioni patriottiche degli schiavi devono dunque essere eliminate. Per sopprimere le lotte nazionali bisogna sopprimere le nazioni. Bisogna dunque che “la tecnica tedesca di provata superiorità” intervenga per creare, dopo il piatto unico per i tedeschi, la nazionalità unica per i Popoli oppressi. A titolo di consolazione, questa nazionalità unica destinata agli schiavi può chiamarsi “la nuova nazionalità europea”.
Queste parole, scritte nel 1941, si possono applicare perfettamente al caso nostro. Sostituite alla tecnica tedesca la tecnica americana e voi avete lo stesso risultato, la stessa coscienza cosmopolita, la stessa coscienza europea che ci viene oggi così caldamente raccomandata. Ecco pertanto la mia conclusione. Noi non vogliamo assurdi ritorni al passato. Il processo di concentrazione capitalistica è in atto; il processo di predominio del capitale finanziario segue il suo corso; esso ingigantisce le contraddizioni di classe, ingigantisce le contraddizioni del mondo capitalistico. E noi socialisti siamo la coscienza vivente di queste contraddizioni, che nascono da questo mondo e da questa società. Il capitalismo tende a coprire la sua brutale politica con un’apparenza ideale, cerca di risolvere su questo piano puramente formale le sue interne contraddizioni. Coloro che, coscientemente o incoscientemente, sono al servizio degli interessi del grande capitale, sono sempre pronti a tradurre in linguaggio idealistico le brutali soperchierie e le imprese del capitalismo. È il compito di un Léon Blum e di un André Philip.
Il compito nostro, il compito di un partito di classe è quello di ritradurre in linguaggio di classe queste contraddizioni del mondo capitalistico, è, per esprimermi con frase marxista, quello di rendere ancora più oppressiva l’oppressione reale, aggiungendosi la coscienza dell’oppressione, di lottare cioè non per contrastare il cammino della storia, ma per fare sfociare le contraddizioni, che lacerano questo mondo, nella loro vera soluzione, per risolverle non sul terreno formale e giuridico, ma sul terreno reale del superamento delle contraddizioni, cioè dell’avvento di una società migliore. Noi voteremo quindi contro questa ratifica, perché nel Consiglio Europeo vediamo molto di più di quello che è scritto in questi articoli: vediamo un’unità europea che si vuole raggiungere al servizio, dei trust americani; vediamo che i passi che sono fatti e quelli che sono da fare sono semplicemente condizioni per la migliore attuazione di una politica di classe, che noi condanniamo. Voi passerete oltre alla nostra opposizione, come passerete oltre alla nostra opposizione al Patto Atlantico. Gli strumenti di questa politica di dominazione, di questa politica di lacerazione interna, di profondi conflitti di classe continueranno ad accumulare nelle vostre mani e nelle mani dei vostri amici di oltre Atlantico.
Noi sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! In altre parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è quasi posto al bando della società, in cui l’operaio è sfruttato fino al punto di essere praticamente escluso da ogni diritto, da una classe che in questo modo gli nega veramente l’appartenenza alla Patria! in quanto fa dello Stato e della Nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del suo dominio e nella misura in cui voi esasperate le contraddizioni della società, voi acuite la lotta di classe; nella misura con la quale le accumulate, voi avvicinate la nostra vittoria. È stato detto che quando la notte appare più buia, è perché l’alba è vicina, e, quanto più voi crederete di aver garantito la vostra sicurezza, quanto più voi crederete di avere assicurato il vostro dominio, e di avere steso sull’Europa l’ombra buia di questa reazione, tanto più vicina sarà l’alba del nuovo giorno che sta per spuntare. Noi ne abbiamo la certezza, signori del Governo, perché noi siamo fra coloro che non hanno bisogno di aspettare che il sole sorga per credere alla luce.
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