Umberto Rocca
Avanti.it
Immaginiamo di aver organizzato un bel viaggio in qualche località tropicale sperduta, magari per un periodo sabbatico a tempo indeterminato. Chissà… in qualche remota località del Guatemala; o forse, perché no, nello stato del Chiapas in Messico. Oppure sulle chilometriche spiagge bianche di Trancoso nello stato di Bahia in Brasile; o semplicemente girovagando senza meta alla scoperta del Sud America o per l’Asia o in India nello stato di Goa, alla ricerca disperata della nostra essenza perduta.
Bene: queste e molte altre località tropicali, disperse in qualche angolo di mondo, possono essere il sogno nel cassetto di qualsiasi provetto turista, o viaggiatore errante. Se però vi dovesse capitare di andarci con la scusa di cucinare, questi luoghi idilliaci in alcuni casi possono trasformarsi in veri e propri incubi professionali subtropicali.
Scherzi a parte, le esperienze tropicali per un cuoco – in questi posti sperduti dove il tempo sembra essersi fermato, lontani dalla “civiltà” caotica – spesso diventano quello che possiamo definire un addestramento di sopravvivenza avanzato. A compimento della nostra avventura, al ritorno nella cosiddetta civiltà, ci resteranno impresse come esperienze fondamentali, essendoci divertiti parecchio e avendo imparato la nobile arte del sapersi arrangiare.
Le difficoltà nel reperire i prodotti di base, che spesso mancano del tutto o quasi, le rudimentali attrezzature per cucinare improvvisate in qualche ristorante di fortuna arrangiato sotto le fresche frasche, sono fattori che possono inficiare la buona riuscita dell’attività imprenditoriale del cuoco della giungla. È chiaro che se uno cucina per amici, nel suo campeggio preferito, sotto le palme in riva al mare, ci può stare qualche esperimento culinario non riuscito. Oppure chi si inventa cuoco per esigenza, un caso classico che non crea grandi disagi professionali. Nemmeno se ti capita di avvelenare qualche cliente poco entusiasta della cucina locale. A complicare l’affare notevolmente si mettono gli effetti devastanti che può comportare il clima subtropicale sugli alimenti e sulla loro corretta conservazione, come ha potuto sperimentare chi ha un minimo di coscienza e conoscenza della cucina da giungla.
La precarietà degli inizi vi può portare a fare scelte drastiche in termini di menu e creatività nelle offerte del vostro ristorante. Ma il buon cuoco missionario non si scoraggia, anzi: la scarsità di ingredienti riconoscibili a livello canonico aguzza l’ingegno e sviluppa l’intuizione. Ciò non toglie che per un italiano un parmigiano, o un buon olio d’oliva rappresentano l’ABC del gusto.
Superate le prime difficoltà logistiche e culturali, si può iniziare a creare una lista contenuta di piatti, usando ovviamente tutti i prodotti freschi che la natura del luogo offre generosamente. Una delle regole da seguire è sicuramente la filosofia che contraddistingue la cucina singaporeana: poche cose fatte molto bene.
Mi è capitato personalmente di trovare nel mezzo della giungla brasiliana un genovese che faceva una focaccia come quella di Recco, mentre in Guatemala a San Pedro La Laguna un panettiere di Parma, che preparava un pane ciabatta spettacolare, farcito addirittura con prosciutto di San Daniele. Rarità o semplicemente splendide coincidenze del destino? A El Remate venni a conoscenza della leggenda di un italiano che cucinava la pasta in un ristorante arrangiato sotto degli alberi, davanti alla vista straordinaria del lago Petén Itzá a Petén, per i buongustai locali e qualche turista di strada verso la città maya di Tikal. Pasta fresca servita con alcuni sughi tipici del sud d’Italia: capolavori incommensurabili per quelle latitudini. Quel sant’uomo di mezza età per me rappresentava tutta la mia cultura, tutte le mie tradizioni e la storia delle mie origini. Seduto ad un tavolo con altri avventori a me sconosciuti, lo osservavo quasi di nascosto, mentre si muoveva abilmente dietro i fornelli cucinando le paste in un religioso silenzio meditativo. Per me lui era qualcosa di più di un semplice cuoco: un missionario che con la sacra bibbia del Pellegrino Artusi portava in quel mondo selvaggio la parola di Dio ai barbari pagani.
La cucina italiana è forse una delle più versatili e adattabili al mondo e anche una delle più conosciute. Quindi anche con pochissimi ingredienti di base si possono ricreare contenuti gastronomici interessanti, ma qui entra in gioco l’abilità del cuoco che, pur disponendo di poche cose, sa dare voce al miglior savoir-faire del Belpaese.
Prodotti a parte, solitamente il cuoco della giungla deve trovare qualche locale che lo aiuti nelle preparazioni. Questa sarà probabilmente una delle parti più divertenti: la creazione del gruppo di lavoro. Ma se vogliamo essere in grado di conseguire un risultato con un minimo di stabilità e consistenza, dobbiamo creare una certa confidenza negli autoctoni coi piatti da noi proposti. Insegnare a dei locali l’arte culinaria italiana comporta non poco sforzo energetico ed economico, vista (ahimè!) la quantità di errori irreparabili commessi durante l’apprendistato.
In Sud America qualche piatto nostrano è già conosciuto anche nei posti remoti, vuoi per le migliaia di emigrati che hanno colonizzato il Sud, Centro e Nord America negli ultimi due secoli, vuoi per le migrazioni più recenti. I menu già comprendono capresi, tiramisù e le onnipresenti lasagne alla bolognese, ma è necessario contaminarli con la cucina locale e adattarne la chimica al clima tropicale. Così facendo le nostre ricette non saranno un pugno in un occhio rispetto alle diverse proposte gastronomiche già presenti nella località in cui ci troviamo a lavorare.
In definitiva la capacità di creare una buona cucina con pochi ingredienti a certe latitudini è sicuramente da attribuire alle doti personali di ognuno di noi, nel riuscire a dare una componente evocativa ai piatti e alle preparazioni gastronomiche. La caccia al tesoro di quei pochi dispendiosi prodotti di origine nazionale, la volontà irrazionale di proporre gli spaghetti all’assassina al limitare del Pantanal, l’ossessione di rispettare le tradizioni gastronomiche del Belpaese con 42 gradi all’ombra, fanno sì che il cuoco sia anzitutto un missionario, la cui vocazione è la salvezza dei palati grezzi dei suoi avventori. È su queste cose che si misura il cuoco della giungla.
Ricciardo dice
Sarò banale, ma quando mi trovo lontano da casa non ricerco i piatti della mia tradizione, per poi magari criticarne la preparazione. Certo, dopo una permanenza prolungata lontano dai piatti della propria tradizione viene voglia di tornare a gustare gli antichi sapori.
Ad ogni modo, ben venga questo simpatico promemoria di sopravvivenza.