Carlo Formenti
Avanti.it
Pur essendo un lettore seriale di romanzi di genere (soprattutto gialli e thriller, da quando la fantascienza, come profetizzò a suo tempo Philip Dick, è stata surclassata dai lussureggianti effetti speciali dei colossal hollywoodiani), mi capita non di rado di interromperne la lettura, perché annoiato da intrecci cervellotici quanto improbabili, o perché irritato dal background ideologico che trasuda da certe pagine. Il secondo caso si verifica sempre più frequentemente, soprattutto se l’autore è americano. Infatti, mentre i grandi classici d’oltreoceano ci restituivano un’immagine cinica e disincantata di un mondo classista e razzista, dominato dalla violenza, molti loro nipoti si comportano come agit prop del soft power a stelle e strisce, celebrando i valori “liberal”, politicamente corretti, progressivi nonché fatalmente destinati a prevalere sulle forze del male.
Per fortuna, a riscattare il tempo che sottraggo (soprattutto alla sera prima di coricarmi) a letture più “impegnate”, provvedono una serie di autori scandinavi (come l’inarrivabile Henning Mankell) e qualche autore italiano (Antonio Manzini e il suo cialtronesco Rocco Schiavone, mezzo sbirro e mezzo criminale, hanno più di una volta contribuito a migliorarmi l’umore). Ecco perché, salvo eccezioni, le mie scelte si sono progressivamente concentrate verso queste due “botteghe”, a spese della scuola anglosassone. Naturalmente nemmeno questi filtri sono in grado di proteggermi da possibili delusioni. L’ultima delle quali è associata alla lettura de La regola dell’equilibrio, un legal thriller del barese Gianrico Carofiglio. In questo caso, a fare problema non è stata la noia (anche se alcuni lunghi inserti in “legalese” non mi hanno certo entusiasmato) bensì un mix di prevedibilità degli sviluppi della vicenda (per cui non mi sentirò colpevole di spoiling riassumendola per sommi capi, anche perché il libro è uscito qualche anno fa) e di certi toni moraleggianti.
Immagino che molti di quelli che hanno letto il libro troveranno sorprendente quest’ultima accusa, tanto più che i critici ne hanno lodato la capacità di evidenziare i compromessi e le ambiguità che abbondano nel milieu giudiziario. Mi tocca quindi spiegare le ragioni dell’irritazione, ma prima è d’uopo tracciare un sunto, ancorché telegrafico, della storia. L’avvocato Guerrieri (che dalla quarta apprendo essere il protagonista di altri romanzi di Carofiglio) riceve la visita del giudice Larocca, presidente del tribunale delle libertà, il quale gli rivela di essere venuto a conoscenza che la procura di Lecce si appresta ad accusarlo di avere “aggiustato”, dietro compenso, alcuni procedimenti, basandosi sulle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Guerrieri, convinto della sua innocenza e incline ad accettare la tesi di una “ritorsione” da parte di colleghi che gli imputano un eccessivo garantismo, accetta di difenderlo e, grazie alla propria abilità e alle informazioni raccolte da una avvenente collaboratrice, sembra avviato a ottenere l’archiviazione del procedimento. Il guaio è che, quando tutto è ormai prossimo alla soluzione, apprende da fonte attendibile che il suo assistito è colpevole (per inciso, il lettore avveduto lo aveva intuito fin dal primo incontro fra i due).
Guerrieri è consapevole del fatto che compito dell’avvocato è ottenere l’assoluzione del cliente a prescindere dalla di lui innocenza o colpevolezza, e che le procedure e le regole del diritto sono formulate (teoricamente!) in modo da evitare che un innocente possa essere condannato (sorvolando sulle differenti chance di sfuggire a tale amaro destino in base al reddito dell’imputato!) anche a costo di lasciare impunito un colpevole. Tuttavia è anche tormentato da scrupoli che, a essere cattivi, potrebbero essere definiti pudori da demi-vierge, per cui gli rode dover difendere autori di reati che considera ignobili (e la corruzione di pubblico funzionario è uno di questi). Dilaniato fra ontologia professionale e principi morali, non trova di meglio che far pervenire anonimamente alla procura la documentazione che certifica la colpevolezza del giudice. Però non ha il fegato di farlo in prima persona, lascia la documentazione a disposizione di una collaboratrice, sapendo benissimo cosa costei sceglierà di fare (occhio non vede cuore non duole).
Se l’intento dell’autore era evidenziare, come segnalato dai critici (vedi sopra) compromessi e ambiguità del sistema, il materiale accumulato nel corso della narrazione sarebbe stato più che adeguato: colpi bassi fra magistrati interessati alla carriera più che all’accertamento della verità, manovre di corridoio, metodi discutibili di acquisizione di informazioni utili alla conduzione del processo sia da parte dell’accusa che della difesa, ipocrisia e narcisismo nei rapporti fra i protagonisti, ecc. A rovinare il tutto è, a mio avviso, l’impennata moralista del finale che promette di “fare giustizia”: moralista e non etica, perché Guerrieri si avvale di una scorciatoia non meno odiosa (almeno ai miei occhi) dell’avidità di Larocca, ma soprattutto perché consente di mantenere in vita l’illusione che il sistema, ove depurato dalle mele marce, potrebbe funzionare.
A questo punto però è giusto confessare che la mia irritazione ha a che fare assai meno con i dilemmi etici del romanzo che con la mia idiosincrasia nei confronti di una cultura di opposizione che, al dominio di élite politiche, economiche e professionali sempre più ciniche, corrotte e impegnate a conservare il proprio privilegio di classe e di casta a ogni costo, contrappone il richiamo al rigoroso rispetto di regole e procedure, all’etica professionale, alla meritocrazia, all’onore e all’onestà individuali. A mano a mano che è uscita di scena una cultura adusa a mettere in luce i crudi rapporti di forza fra le classi sociali dietro le illusioni di una giustizia che il rispetto di regole e procedure, e la selezione di professionisti in grado di imporre tali regole, renderebbero “uguale per tutti” in ogni campo (politica, giustizia, competizione economica, carriere universitarie, ecc.), si è fatta avanti la cultura dei Girotondi, dei magistrati prestati alla politica come il pool di Mani Pulite, o come il Movimento 5 Stelle, passato dalle mani del comico Grillo a quelle dell’avvocato Giuseppe Conte,il quale ha non a caso esordito in politica autoproclamandosi “avvocato di tutti gli italiani”; una cultura che non contesta il sistema e le sue regole ma i meccanismi di selezione dei soggetti chiamati ad applicarle; una cultura che Gramsci e altri leader storici del movimento operaio (fino agli anni Settanta del Novecento) avrebbero sprezzantemente liquidato come roba da “avvocaticchi”.
Parliamo di una cultura di classe, o meglio, di una specifica classe sociale, cioè della piccola e media borghesia che si nutre di vorrei ma non posso, di indignazione per lo stato di cose presente, ma anche di senso di impotenza di fronte all’impossibilità di cambiarle (a meno che, naturalmente, non le venga offerta la possibilità di salire qualche gradino della scala sociale). Tipica di due o tre generazioni di italiani elevatisi, da famiglie di condizione modesta, a livelli culturali medio-alti senza che ciò consentisse loro di ottenere uno status sociale ed economico all’altezza delle competenze acquisite. Tipica, anche, di una certa classe media meridionale il cui culto per le professioni forensi resiste malgrado le crescenti difficoltà di accedervi (come ho potuto constatare personalmente vivendo quindici anni in una città del Sud e insegnando nella locale università). Non me ne voglia Carofiglio, ma il suo avvocato Guerrieri, non fosse per la sua passione per il pugilato e per certi pensieri politicamente scorretti nei confronti del gentil sesso che in parte lo riscattano, mi pare un esponente di questo strato sociale, per cui mi ispira poca simpatia.
Detto che Guerrieri è ciò che è perché tale lo ha voluto Carofiglio, mi scuso di averlo strumentalizzato per arrivare al vero obiettivo di questo breve scritto, vale a dire esternare ciò che penso della natura del diritto in generale e di quello borghese in particolare. Nella sua Ontologia dell’essere sociale, Lukács distingue fra diritto come specifico complesso funzionale del sistema sociale, e “giustizia” come valore ideologico. In merito al primo scrive: “man mano che l’essere sociale va socializzandosi, il dominio della mera forza si attenua, anche se non scompare mai del tutto nella società di classe (…) A questo punto deve prendere il sopravvento quella complicata unità di forza scoperta e forza mascherata, rivestita dei panni della legge, che prende figura nella sfera giuridica”. L’enfasi originaria che accompagna la genesi del diritto – la “maestà” della legge – si indebolisce tuttavia a mano a mano che esso si trasforma nel normale e prosaico regolatore della vita quotidiana, allorché divengono cioè prevalenti gli elementi manipolatori del diritto positivo: “Il diritto diviene così una sfera della vita sociale dove le conseguenze degli atti, le possibilità di riuscita, i rischi di perdite sono calcolati in modo analogo a quel che accade nel mondo economico”. Insomma: l’essenza ideologica della giustizia come prestazione del sistema giuridico viene tanto più alla luce quanto più la prassi giuridica si allontana dalle sue origini intrise di violenza, cioè quanto più assume forma economica. È a questo punto che arriviamo a comprendere, con Marx, che “Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto”. Così come si comprende l’illusorietà dell’uguaglianza giuridica non appena si consideri il rapporto di compravendita della merce forza-lavoro: il compratore rivendica il proprio diritto a prolungare quanto più possibile la giornata lavorativa, mentre il venditore rivendica il proprio diritto a limitarne la durata: “diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti uguali decide la forza”. In sintesi: la genesi violenta del diritto non riemerge malgrado la sua conversione nelle leggi dell’economia, bensì in ragione di tale conversione. Come era solito dire quel vecchio, irriducibile comunista di mio padre, la giustizia borghese si fonda sull’articolo quinto, il cui testo recita “chi li ha in mano (sottinteso i soldi) ha vinto” e, per concludere con una battuta provocatoria, potremmo dire che il giudice Larocca lo ha capito meglio dell’avvocato Guerrieri.
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