Carlo Formenti
Avanti.it
Sette anni fa scrivevo, a proposito dei miti della sharing economy e del concetto di disintermediazione (ne La variante populista, DeriveApprodi 2016), che le piattaforme digitali che alimentano questo tipo di narrazioni, come Uber e AirBnB, sono dispositivi progettati per scatenare guerre fra poveri e per sviluppare, al tempo stesso, modelli di business fondati su nuove forme di rendita parassitaria. AirBnB, in particolare, offre ai proprietari di case la chance di affittare le proprie abitazioni per brevi periodi, guadagnando di più che con i tradizionali contratti per residenti. L’affittuario sceglie la casa e versa la cifra pattuita tramite il sito, il quale trattiene una quota sul compenso del proprietario. Nessuna disintermediazione quindi, bensì una intermediazione di nuovo tipo che usa Internet per fare concorrenza ad agenzie immobiliari, alberghi, bed and breakfast, ecc. In poche parole, l’impresa che gestisce il business estrae rendita da beni immobiliari che non le appartengono.
Airbnb si difende dall’accusa di concorrenza sleale esaltando i vantaggi che questa “disintermediazione” offre ai consumatori: grazie al meccanismo della condivisione viaggiare diventa per tutti più facile e meno costoso. Mentre Uber e le compagnie aeree low cost offrono servizi a prezzi bassi tagliando organico, salari, sicurezza, imponendo orari di lavoro massacranti e riducendo la sicurezza, AirBnB ha inventato una sorta di Walmart economy (il modello che ha consentito al capitale americano di tagliare i salari grazie ai prodotti a basso prezzo importati dalla Cina e distribuiti dalla grande catena discount) applicata al campo dell’industria turistica, consentendo anche ai meno ricchi di accedere a certi consumi “di lusso”. Il tutto con la benedizione di politici e media neoliberali, che si oppongono sistematicamente a ogni progetto di regolamentazione pubblica del settore.
Il tutto non senza il consenso e l’appoggio di certi strati di classe media, dal momento che non sono pochi coloro che considerano AirBnB come tessera di un mosaico di espedienti per tirare a campare. Il che aiuta a rimuovere sia il fatto che per partecipare al gioco occorre possedere una casa (il che taglia fuori gli strati inferiori delle classi subalterne), sia il fatto che a trarre il massimo vantaggio dal servizio sono i detentori di cospicui patrimoni immobiliari che, una volta sottratti ai vincoli imposti dai tradizionali contratti di affitto, rendono assai di più. AirBnB accampa il merito di avere liberato la classe media dai prezzi esosi imposti dall’industria alberghiera, ma la verità è che il suo business contribuisce significativamente a peggiorare le condizioni di coloro che non hanno come primo obiettivo quello di girare il mondo spendendo poco, bensì quello di trovare abitazioni con affitti sostenibili.
Sette anni più tardi, come apprendiamo da un articolo uscito sul Fatto Quotidiano l’11 aprile scorso (” Città e turisti. Strangolati centri d’arte e non solo”), l’effetto AirBnB ha scatenato una valanga che rischia di travolgere le nostre città. AI punto che i sindaci di Rimini, Milano, Napoli, Roma, Firenze, Bologna e altre città, soprattutto se a elevata vocazione turistica, invocano una legge che ponga dei limiti a un fenomeno che crea serie difficoltà a famiglie, lavoratori e studenti in cerca di casa. Il processo di gentrificazione dei centri storici, già in atto da decenni, subisce così una ulteriore accelerazione, mentre l’argomento secondo cui, almeno per coloro (soprattutto giovani e anziani) che non godono di redditi sicuri o sufficienti ma dispongono di una casa di proprietà, AirBnB sarebbe un’ancora di salvezza, viene ridimensionato dai seguenti dati di fatto: l’80% degli annunci a Firenze e Milano riguardano appartamenti interi e non stanze (quindi non si tratta di monoproprietari), mentre a Venezia, Firenze, Bologna e Roma gli utenti che della piattaforma gestiscono più di dieci alloggi si contano a migliaia.
Ovviamente, sostiene l’autore dell’articolo, fissare paletti legali al fenomeno appare impresa a dir poco ardua. Sia per l’opposizione delle destre liberali (e dei media sotto il loro controllo) che si ergono a difesa dei diritti della proprietà privata; sia per la diffusione della proprietà immobiliare nel nostro paese, il che fa sì che il piccolo proprietario sia altrettanto restio a rinunciare ai vantaggi che gli offrono gli affitti turistici rispetto a quelli per residenti del grande proprietario, il quale realizza guadagni decine (se non centinaia) di volte superiori ai suoi. Una guerra di classe dall’alto che si alimenta della guerra fra poveri.
Personalmente considero quello di AirBnB un caso di studio di eccezionale interesse per svariate ragioni. In primo luogo perché contribuisce, come accennato in apertura, a smitizzare le narrazioni ideologiche sull’intelligenza artificiale come strumento di democrazia economica e di liberazione delle classi medie dal dominio monopolistico delle grandi imprese (narrazioni, sia detto per inciso, cui contribuiscono certi intellettuali di sinistra infatuati del presunto carattere progressivo delle tecnologie digitali). Gli algoritmi di piattaforme come AirBnB, Uber e i vari social network, non “innovano” i rapporti socio-culturali né le modalità di produzione e distribuzione della ricchezza: si sovrappongono piuttosto sulla realtà socio-economica esistente parassitandola, estraendone dati che si traducono in opportunità di profitti (soprattutto per i grandi player) non giustificati da reali miglioramenti della produttività sociale (il che rappresenta una ulteriore spinta al processo di finanziarizzazione dell’economia).
In secondo luogo, perché siamo di fronte a un efficace strumento di divisione fra differenti strati di classe media. Come ricorda Piketty nei suoi libri, il lungo ciclo fordista aveva contribuito a consolidare, nei paesi occidentali, uno strato pari al 30/40% della popolazione che godeva di un relativo benessere fondato, oltre che sui redditi da lavoro, su piccoli investimenti in immobili, titoli di stato, azioni, ecc. Questo strato ha subito forti contraccolpi dalle crisi che hanno caratterizzato l’inizio del nuovo secolo, ma dispositivi come quello di AirBnB gli consentono di mantenere qualche margine di privilegio, illudendosi di poter sfuggire al processo di declassamento.
Ciò è particolarmente vero in Italia dove, come ricordato poco sopra, vi è un’elevata percentuale di cittadini che possiedono l’abitazione in cui vivono (e/o altri beni immobiliari). Ad aggravare l’impatto negativo del fenomeno in questione contribuisce poi il processo di de-industrializzazione che ci sta trasformando in un Paese che campa in larga misura sul turismo, con le relative conseguenze: gentrificazione dei centri storici più “vendibili”; proliferare di lavori precari a basso reddito; difficoltà per questi lavoratori di trovare abitazioni a prezzi accessibili e quindi ulteriore impoverimento in un circolo vizioso che acuisce le contraddizioni fra ultimi e penultimi e consente a chi occupa i piani alti di perpetuare il proprio privilegio.
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