Riccardo Giordano
Avanti.it
Chiudiamo gli occhi e osserviamo le immagini che liberamente scorrono nel buio della nostra mente. Guardiamo senza intervenire ma, soprattutto, senza perdere il filo dell’attenzione, senza lasciarci trascinare dal loro caotico fluire. Attraverso questo semplice esercizio, sviluppando poco alla volta una vista che non passa attraverso gli occhi fisici, cominciamo a percepire una luce sottile, continuamente mutevole, che è la materia di cui sono fatti i pensieri, i sogni e tutto il nostro mondo interiore. Ordinariamente, non abbiamo alcun controllo su questa luce: se proviamo a fissarla essa diviene incerta e sfuggente poiché è mossa da una forza che agisce dietro la soglia della coscienza. Questa forza corrisponde alla potenza stessa della vita, la brama, il cieco e selvaggio desiderare mai sazio di sé che ha bisogno di generare sempre nuove forme per potersi manifestare. Gli alchimisti chiamarono questa forza “umido radicale”, mentre un filosofo come Carlo Michelstaedter l’ha descritta con queste parole:
Un peso pende a un gancio, e per pender soffre che non può scendere, non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare, lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso e scenda indipendente fino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga. E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono, sempre lo tiene un’ugual fame del più basso e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere […] la sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto, possedesse se stesso, esso avrebbe finito d’esistere […] né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. (La persuasione e la rettorica, Genova, Formiggini, 1913)
Dunque, inconsciamente identificati a questa sottile luce mentale, sedotti dalle immagini che la animano, siamo trascinati di desiderio in desiderio come foglie in balia del vento. Crediamo di vivere e invece siamo vissuti; diciamo “io” e in realtà non si tratta del nostro vero volto, ma solo di una delle tante maschere che quotidianamente indossiamo senza neppure rendercene conto.
Un approccio cosciente tuttavia fa maturare una più profonda consapevolezza: se possiamo osservare le immagini che scorrono nella nostra testa – così come potremmo fermarci ad osservare un fiume che scorre – allora noi non siamo quelle immagini, né la corrente che freneticamente le genera. Mediante questo piccolo atto di “separando” interiore, ci poniamo fuori dal turbine del desiderio, che è la vita, e sperimentiamo un attimo di quiete, di silenzio. Ed è qui, in questo luogo interiore, che la coscienza comincia a sperimentare se stessa, a raccogliersi nel proprio centro profondo e inviolabile. Cercare questi attimi di pace ogni giorno, indipendentemente da ciò che accade fuori, dentro di noi costituisce una piccola ginnastica quotidiana per mezzo della quale la coscienza può fare un’esperienza sempre più profonda di se stessa.
Più ci esercitiamo in questa direzione, più ci portiamo fuori dalla corrente della brama e più acquisiamo padronanza della luce mentale: allora non siamo più in balia delle immagini che la vita evoca in noi per tenerci addormentati – è attraverso le immagini, come sappiamo bene, che è anche possibile agire ipnoticamente su di noi – ma diveniamo capaci di costruire immagini coscienti, di plasmare i pensieri che nutrono la nostra anima e la trasformano, permettendole di sviluppare tutte le sue potenzialità. Poco alla volta la fantasia lascerà il posto all’immaginazione, che è una facoltà di conoscenza superiore poiché è attraverso le immagini che la nostra interiorità può essere esaltata oppure ossessionata, ma è sempre attraverso di esse che l’anima può immergersi nella conoscenza dell’universo cogliendo, nel simbolo, quella fitta rete di rapporti analogici che collegano macrocosmo e microcosmo. Ce lo suggerisce anche l’origine greca della parola idea, ovvero la “cosa vista”, l’immagine mediante la quale è possibile evocare un’esperienza della realtà in cui conoscente e conosciuto sono la stessa cosa. Un sapere che non resta più limitato al dato meramente quantitativo come nella scienza moderna, ma che piuttosto permette di penetrare nella natura più intima dei fenomeni, la realtà e la coscienza ritrovano la loro unità originaria e la conoscenza implica, immediatamente, una trasformazione interiore.
Tutto quello che è stato fin qui detto, può essere interiormente vissuto se evochiamo l’immagine del sole che sorge sul mare. Con la potenza del ricordo, ascoltiamo la pace del primo mattino quando il mondo ancora dorme. Assaporiamo quel silenzio e, contemporaneamente, osserviamo il sole che lentamente, poco alla volta, si leva sulle acque. E lasciamo che i simboli parlino alla nostra mente profonda, che mettano in moto processi spontanei per mezzo dei quali immagine richiama immagine come in una scala del visibile che ci porta sempre più nell’invisibile, dove persino le immagini si estinguono per lasciare il posto a un sentire puro, alla nuda presenza di una forza. Questo tipo di disciplina richiede un duplice movimento: attivo e passivo. Attraverso il primo occorre evocare e custodire, impedendo a ogni immagine estranea di inserirsi nel processo creativo; attraverso il secondo, invece, occorre non toccare i processi della mente profonda, limitandosi a mantenere desta l’attenzione al punto da riuscire ad afferrare anche il più fugace riverbero che possa affacciarsi nel silenzio dell’anima concentrata. Si avrà allora l’impressione netta di un compito da realizzare, di una meta da raggiungere: la coscienza, raccolta nel suo centro profondo, perfettamente desta, che si leva al di sopra delle acque psichiche, di tutti i contenuti della nostra natura istintiva, di tutte le sovrastrutture e i condizionamenti che abbiamo ricevuto dall’esterno nel corso della nostra vita.
L’Io vero deve uscire dal bozzolo della struttura psichica, come la farfalla si libera dalla crisalide, come la pianta nasce dal seme. Questo Io, pienamente padrone di sé, che ricompone in sé tutti gli aspetti contrastanti della personalità, è la pietra cubica che non vacilla anche nei momenti più difficili della vita; è colui che libera la sua azione da ogni vincolo di reattività meccanica poiché, sciolto da ogni legame esterno, egli si dona al mondo con slancio, dal cuore: egli ama non perché deve, perché così deve essere, non per bisogno, ma perché liberamente e quindi consapevolmente sceglie di amare. Come ci suggerisce l’immagine del Sole, chi si eleva a tanto mediante la disciplina interiore diviene padrone della sua mente così da potersi elevare, nella contemplazione della luce pura sciolta da ogni forma, all’intuizione di quelli che la psicologia del profondo ha chiamato archetipi.
In tutte le tradizioni sacre, la metafisica della luce svolge un ruolo centrale: essa è la quintessenza, la materia primordiale di cui tutto è fatto: «e la vita era la luce degli uomini» è scritto nel prologo del Vangelo di Giovanni; Shakespeare, similmente, ci suggerisce che noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, mentre così leggiamo nel Sigillus sigillorum di Giordano Bruno: «c’è una sola semplice forma […] la quale senza diminuzione si comunica a tutte le cose […] questa forma universale dell’essere è luce infinita […] attraverso questa forma, che in diversi modi si comunica ai diversi enti, secondo le diverse figure, si esplica la materia». Ecco perché, dunque, chi agisce su di sé agisce contemporaneamente anche sul mondo intorno a sé: la via dell’ascesi interiore non è vezzo narcisista. Come ci suggerisce il mito cavalleresco della ricerca del Graal, chi riesce nell’impresa è destinato a divenire Re e cioè a prendersi cura del mondo, ad agire spiritualmente in esso, poiché la funzione più alta della regalità è fungere da asse di collegamento tra cielo e terra, tra visibile e invisibile, così che la terra resa sacra possa portare sempre molto frutto.
[in copertina: Salvador Dalì, L’aurora, 1948]
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