Carlo Formenti
Avanti.it
Quando da ragazzo ascoltavo i racconti di mio padre – vecchio militante comunista – sulla rapidità con cui il regime fascista riuscì a imporsi e a ottenere il consenso pressoché unanime della popolazione italiana, non potevo nascondere una certa perplessità, se non incredulità: ma come, mi chiedevo, dopo un formidabile ciclo di lotte come quello del biennio rosso seguito alla Prima guerra mondiale, con una sinistra che schierava due partiti di massa come il PSI e il PCd’I e un consistente centro democratico, come fu possibile una resa così veloce e totale alla marea nera, ad onta di eroici episodi di resistenza (ancorché episodici e scoordinati) come l’insurrezione di Parma?
La quasi subitanea “conversione” di larghe masse popolari all’ideologia fascista (che si sarebbe replicata di lì a qualche anno in Germania con il trionfo del nazionalsocialismo) restava per me un mistero. Anche dopo la lettura di autorevoli analisi storiche sui gravi errori tattici e strategici delle sinistre (mancata alleanza con gli Arditi del Popolo, impreparazione militare, settarismo comunista e opportunismo socialista, ecc.) e sul tradimento dei partiti borghesi, continuavo a restare perplesso. La realtà che stiamo vivendo oggi, sia in Italia che in Europa, mi fa capire molte cose.
Chiarisco subito che non mi riferisco alla resistibile ascesa elettorale del partito di Giorgia Meloni, che degli eventi di un secolo fa è solo una risibile parodia. Marx ebbe a dire che le tragedie storiche si replicano in farsa, ma qui alludo a ben altro, che nulla ha di farsesco: parlo cioè della “conversione” ancor più veloce (anche se fortunatamente meno unanime, almeno a giudicare dai sondaggi) di quanto successe allora, non solo delle larghe masse popolari o di una sinistra che fa il paio con il centro liberale di giolittiana memoria, ma persino delle sinistre radicali e addirittura di settori delle sinistre antagoniste all’ideologia atlantista, guerrafondaia e russofoba che chiama alla mobilitazione generale in vista di una Terza guerra mondiale contro Russia, Cina e tutti i popoli e le nazioni che si smarcano dall’egemonia occidentale.
Elencherò prima una serie di motivi che possono spiegare questa tragedia, per poi argomentare perché li ritengo insufficienti e proporne uno a mio parere più decisivo. E’ vero che il consenso è stato costruito attraverso la progressiva concentrazione dei media in poche mani, tutte rigorosamente allineate alla narrazione mainstream neoliberale; è vero che decenni di soft power americano (film, serie tv, romanzi, fumetti, siti e piattaforme social, ecc.) hanno costruito un senso comune in base al quale l’unico sistema in grado di garantire libertà individuale e democrazia è il sistema liberal democratico occidentale; è vero che, a partire dagli anni Settanta, le sinistre occidentali hanno rinnegato l’esperimento storico del socialismo reale (sia nella sua forma sovietica, fallita trent’anni fa, sia in quella viva e vegeta di Paesi come Cina, Cuba, Venezuela, Bolivia, ecc. “imperfetta” secondo i canoni della tradizione marxista ma non riducibile alla etichetta di “totalitarismo”); è vero che questa condanna ideologica ha permesso al Parlamento europeo di approvare un obbrobrio revisionista come la dichiarazione che equipara comunismo e nazismo (cancellando con un tratto di penna il contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del Terzo Reich); è vero che decenni di arretramento delle lotte operaie hanno permesso di rimpiazzare le aspirazioni di progresso economico e sociale dei lavoratori con le rivendicazioni dei diritti individuali dei membri di minoranze culturali che appartengono agli strati medio alti della società.
Tutto vero, ma non basta a giustificare la rimozione di fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che nessuna operazione propagandistica può nascondere. Il fatto che la Nato all’atto della riunificazione tedesca si era impegnata a non estendere la propria presenza fino ai confini della Russia (ammesso dagli stessi americani che giustificano la violazione dei patti dicendo che non vi fu accordo scritto!). Il fatto che la “rivoluzione arancione” del 2014 fu un golpe finalizzato a imporre un regime change a Kiev, orchestrato dagli Usa con l’appoggio dei movimenti neofascisti ucraini (Brzezinski teorizzò la necessità di appropriarsi del controllo politico sull’Ucraina già alla fine dei Novanta). Il fatto che a partire da quell’anno iniziò una guerra civile contro le popolazioni russofone con massacri e pulizie etniche simili a quelle avvenute in Jugoslavia e che il regime di Kiev si è rifiutato di applicare gli accordi di pace di Minsk. Il fatto che la natura neonazista del regime di Zelensky è spudoratamente rivendicata, elevando a padre della patria il massacratore di ebrei e comunisti, nonché alleato di Hitler, Bandera, e celebrando la caduta di Kiev all’inizio della Seconda guerra mondiale in mani naziste come “liberazione” dal dominio sovietico. Il fatto che Biden è espressione di una lobby neocons che rivendica apertamente la necessità di arrivare allo scontro militare con la Cina (di cui il conflitto ucraino è l’antipasto) per impedirle di competere con la potenza americana.
Forse l’uomo della strada ignora questi fatti, invece intellettuali, accademici e giornalisti li conoscono benissimo ma fingono di ignorarli, perché i loro interessi di casta coincidono con gli obiettivi economici e politici di quelli dei loro datori di lavoro. Ma che dire dei militanti di una sinistra radicale i quali non solo conoscono i fatti, ma non usufruiscono di analoghe prebende? Possibile che abbiano dimenticato di avere partecipato a tante manifestazioni contro le basi Nato e l’imperialismo Usa? Possibile che dopo tanto impegno contro il razzismo si scoprano di colpo russofobi e anticinesi? Possibile che digeriscano candidamente gli slogan occidentali che inneggiano alla lotta per la libertà e la democrazia di un regime che ha messo fuori legge tutti i partiti meno quello del presidente? Possibile che il loro antifascismo si fermi sulla soglia di casa, preoccupato della Meloni piuttosto che del progetto di instaurare un Reich a stelle strisce sulle rovine della Terza guerra mondiale? Opportunismo, vigliaccheria, paura di esprimere opinioni che vanno contro il senso comune della maggioranza, ipocrisia (vedi le panzane sulla guerra “interimperialista” che ignorano il carattere asimmetrico di uno scontro che oppone la più grande potenza militare del globo a una potenza regionale che lotta per difendere la propria esistenza come stato indipendente, visto che i missili atomici a Kiev sarebbero a pochi minuti di volo da Mosca)? Credo che a questi interrogativi possa rispondere solo l’insegnamento che mi trasmise mio padre, che si può sintetizzare nel motto “per capire la storia segui la pista degli interessi di classe”.
Nel primo dopoguerra la classe operaia italiana era una minoranza concentrata in poche grandi città del Nord, potendo contare solo sull’alleanza di strati bracciantili a loro volta dislocati in alcune regioni settentrionali. Le larghe masse contadine, soprattutto ma non solo al Sud, erano indottrinate da una Chiesa retrograda e reazionaria. Quanto alla pletorica piccola borghesia (bottegai, artigiani, piccoli imprenditori, professionisti, impiegati, burocrati statali, ecc.) era letteralmente terrorizzata dall’instabilità sociale seguita alla guerra e dalle parole d’ordine socialcomuniste che inneggiavano alla Rivoluzione d’ottobre, per cui c’è voluto poco per convincerla ad accodarsi a un partito che prometteva ordine e sicurezza. Quanto alla grande borghesia pensava di poter usare il fascismo per stroncare il movimento operaio per poi “licenziarlo”, una volta eseguito il lavoro sporco. Sappiamo comne è andata.
Oggi gli operai, o meglio i lavoratori per non evocare la vecchia immagine delle tute blu, sono in maggioranza, ma divisi da confini culturali, generazionali, etnici, di genere, individualizzati da decenni di rivoluzione neoliberale e dal suicidio delle sinistre occidentali, privati della propria identità di classe e di rappresentanza sindacale e politica. La sola opposizione al sistema che riescano a esprimere è muta, nel senso che parla solo attraverso l’astensione elettorale e i sondaggi d’opinione. Quanto alla pletorica “classe media” occidentale (30/40% secondo Piketty) concentrata nei centri delle grandi città, dotata di risorse erose dalla crisi ma ancora sufficienti a mantenere livelli di vita decorosi, “progressista”, addirittura convinta di incarnare una sinistra di “opposizione” contro i populismi di destra che cavalcano la rabbia popolare, è a tal punto imbevuta di una cultura americanizzata, postmoderna, politicamente corretta, concentrata sui diritti individuali, che non si può nemmeno parlare di “conversione” all’atlantismo bellicista, semplicemente stanno mostrando l’altra faccia della medaglia, il liberal fascismo che va a braccetto con i buoni sentimenti liberal “progressisti”. Come mezzo secolo fa interessi materiali e ideologia vanno di pari passo. La russofobia, l’odio per la Cina popolare e gli altri regimi “totalitari” e più in generale per le masse dei popoli non occidentali da educare alla democrazia a suon di bombe, è appena mascherato dall’ipocrita sollecitudine per gli immigrati che crepano in mare per approdare sulle nostre sponde. Venite pure, ma non si dica che lo fate perché costretti dalle condizioni miserabili che le nostre democrazie vi impongono per consentirci di conservare la nostra way of life. Torna il fascismo ma il suo volto non è quello della Meloni (risibile pedina di un gioco più grande di lei) ma il ghigno dello Zio Sam e dei suoi zelanti servitori europei, sinistre comprese.
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