In Libano proseguono le indagini sull’esplosione nel porto di Beirut del 2020, che secondo la versione ufficiale dei fatti sarebbe stata causata dal nitrato di ammonio stoccato in modo improprio e che ha causato la morte di almeno 218 persone, migliaia di feriti, distrutto centinaia di casa e danneggiato vaste aree di Beirut.
Il giudice incaricato delle indagini, Tarek Bitar, ha trascorso tredici mesi senza riuscire a portare avanti il procedimento, bloccato da una sentenza legata a resistenze di alcune fazioni politiche che vorrebbero impedire le indagini. Già nel febbraio 2021 il predecessore del giudice era stato rimosso dal caso dopo che aveva accusato personaggi di alto livello politico. Ma lunedì Bitar non si è limitato ad annunciare la ripresa delle indagini, ma ha anche accusato nuovamente almeno otto funzionari di alto livello politico, tra cui membri del parlamento come Nabih Berri, un importante alleato di Hezbollah, l’ex primo ministro Hassan Diab e il procuratore generale Ghassan Oweidat. Quest’ultimo ha reagito dichiarando che Bitar non avrebbe l’autorità per riavviare l’indagine, e poi lo ha convocato per un interrogatorio.
Il parlamento ha rifiutato di sospendere l’immunità per i legislatori e ha bloccato le richieste del giudice di interrogare gli alti ufficiali della sicurezza. Il sistema giudiziario libanese dipende profondamente dagli appoggi politici, e pare che diverse fazioni non vogliano far proseguire le indagini. Nell’ottobre 2021 era stata organizzata da Hezbollah e dai suoi alleati anche una protesta anti-Bitar che è degenerata in violenza. Molte famiglie delle vittime sostengono il giudice e chiedono giustizia, ma l’élite politica ha qualcosa da nascondere e non vuole assumersi le proprie responsabilità.
È evidente che se Bitar non riuscirà ad ottenere l’appoggio delle forze di sicurezza libanesi, non potrà continuare il suo lavoro.
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