Marco Di Mauro
Avanti.it
Giovedì 3 novembre, esattamente una settimana fa, Imran Khan ha visto la morte con gli occhi. Il settantenne capo del partito Pakistan Tehreek-e-Insaf è stato premier fino ad aprile di quest’anno, quando è stato destituito da una congiura politica ordita dagli Stati Uniti, che non accettavano la sua politica estera di avvicinamento alla Russia e integrazione totale del Pakistan nella sfera economica cinese, tappa fondamentale della Belt and Road Initiative. Ma l’ex campione di cricket negli anni Settanta non ha mai accettato la propria estromissione dal governo e ha sempre sostenuto l’illegittimità del nuovo esecutivo tecnico a guida Shehbaz Sharif – appartenente a una famiglia vassalla di Washington e che sta attuando nel paese le riforme volute dal Fondo Monetario Internazionale, mentre in politica estera ha estirpato tutte le trame tessute dalla politica orientalista del suo predecessore – sostenendo a gran voce la necessità dello svolgimento di nuove elezioni, che è sicuro di vincere grazie all’appoggio popolare tributato a lui e al suo partito in tutto il paese. Ma in Pakistan l’appoggio popolare è davvero poca cosa, se manca quello dell’esercito, compagine storicamente filoamericana, che ha impedito finora che le rivendicazioni del leader del PTI e dei suoi seguaci approdassero a qualsiasi esito. Dapprima a fine maggio c’era stata una marcia su Islamabad con Khan alla testa di centinaia di migliaia di persone, che avevano subissato la polizia locale e si erano bloccati di fronte all’intervento dei militari. Poi vi erano state oceaniche manifestazioni, cui erano seguiti arresti di esponenti del PTI e giornalisti affiliati, seguite dall’apertura di un’inchiesta per corruzione contro lo stesso Imran Khan, che intanto ha continuato a tenere comizi in tutte le città della nazione, soprattutto nel Punjab, sua roccaforte. Ad agosto, come vi avevamo raccontato, dopo le dichiarazioni forti tenute a quasi mezzo milione di persone dal pulpito del Cricket Stadium contro esponenti del governo interpretate dal ministro dell’interno Rana Sanaullah come incitamento all’insurrezione, è stato dichiarato in arresto, salvato però dall’intervento popolare. Fissata dunque una cauzione per evitare sommosse, le accuse sono rimaste, e il mandato d’arresto, spiccato nuovamente a settembre, pende ancora su Khan. Come l’inchiesta sollevata dalla Commissione elettorale del Pakistan, organo costituzionale per la sorveglianza del regolare svolgimento delle elezioni, che ha arbitrariamente ampliato le sue funzioni – secondo gli esponenti del PTI su suggerimento del Generale Maggiore dei servizi segreti Faisal Naseer – realizzando un’inchiesta sulla corruzione del governo Khan, dichiarandolo colpevole il 21 ottobre di «aver abusato della sua premiership dal 2018 al 2022 per acquistare e vendere regali in possesso statale ricevuti durante le visite all’estero e per un valore di oltre 140 milioni di rupie pakistane ($ 635.000)» (Reuters) decretando l’espulsione di Khan dal parlamento, e paventandone l’interruzione dai pubblici uffici, che in Pakistan può essere comminata, in caso di corruzione, per un periodo massimo di cinque anni.
La risposta è stata la stessa di questo agosto, dopo l’arresto e tortura del capo del suo staff Shahbaz Gill: martedì 25 ottobre, “Ho deciso di indire la lunga marcia a partire da venerdì alle undici da Liberty Square a Lahore fino a Islamabad”. Le marce sulla capitale hanno una lunga tradizione politica in Pakistan, e il cammino di poco meno di trecento chilometri che separa le due città permette di tagliare da sud a nord tutto il Punjab, ingrossando progressivamente le fila della carovana. Dopo sei giorni di marcia centinaia di migliaia di persone si sono attestate a Wazirabad, città nel distretto di Gujranwala nei pressi del fiume Chenab. Qui giovedì 3 novembre durante un comizio di Imran Khan dalla folla due giovani, dei quali si conosce soltanto il viso di uno sulla trentina, hanno esploso diversi colpi verso gli oratori affacciati sul tetto di un tir adibito a palco, uccidendo una persona e ferendone dieci. Tra questi lo stesso Khan, che è stato trasportato all’ospedale di Lahore per essere stato ferito alle gambe dai proiettili, mentre i sostenitori hanno immobilizzato l’uomo proprio mentre si accingeva a sparare ancora, e di lui sono state divulgate le immagini ma non l’identità. “Se il tiratore non fosse stato fermato dalle persone presenti, l’intera leadership del PTI sarebbe stata spazzata via” ha dichiarato a Reuters Fawad Chauhdry, portavoce di Tehreek-e-Insaf. L’attentatore, poi identificato come Mohammad Naveed, ha dichiarato di aver sparato sì per uccidere, ma che il suo unico obiettivo era unicamente il leader del PTI e che ha agito in totale solitudine; una chiara excusatio non petita: non se la sono bevuta i sostenitori del partito e denunciano la presenza di un altro attentatore che ha sparato dopo essersi appostato su uno dei palazzi circostanti, tesi sostenuta anche dal governatore del Punjab, Pervaiz Elahi, che ha dichiarato aver distinto chiaramente che fossero due i punti da cui si sparava – in effetti sembra piuttosto difficile che un solo uomo armato di pistola, e subito bloccato dalla folla, riuscisse a colpire undici persone – mentre Asad Umar, uno dei più stretti collaboratori di Khan, ha dichiarato alle telecamere quanto sostenuto dal capo del suo partito mentre veniva trasportato in ospedale, cioè che dietro l’attentato ci sia la mano del trio Sharif-Sanaullah-Naser.
Così, la marcia si è fermata a soli cento chilometri dal punto di partenza e a duecento dalla capitale: mentre ci sono state proteste in tutta la regione, Imran Khan è tornato proprio oggi a parlare, respingendo la versione ufficiale della polizia secondo cui l’attentatore sarebbe stato uno solo, e invitando i suoi sostenitori a non fermarsi nella battaglia per ottenere le elezioni anticipate, prospettiva che, di fronte alla violenza dell’apparato filoamericano al governo, si fa sempre più lontana e improbabile. Ciononostante, ha assicurato la sua presenza, nonostante privato temporaneamente dell’uso della gamba destra, a una nuova marcia su Islamabad che si terrà “tra qualche giorno” da Rawalpindi, chiamando a raccolta i sostenitori della sua causa. Dietro l’attentato, ha ribadito, c’è l’attuale governo e la Inter Services Intelligence, ha ribadito Khan, ma il ministro degli interni Sanaullah continua a sostenere con forza la tesi dell’attentatore isolato, mosso da motivi religiosi. La stessa tesi fu sostenuta dal governo del fratello dell’attuale premier, Nawaz Sharif, quando nel dicembre del 2007 fu uccisa la leader dell’opposizione Benhazir Bhutto, segno che in Pakistan, purtroppo, la storia non fa che ripetersi.
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