Carlo Formenti
Avanti.it
Leggere Usa-Cina. Una guerra che dobbiamo evitare (editore Rizzoli) dell’ex premier australiano Kevin Rudd è un esercizio utile per chi voglia capire in quale cul di sacco si stia infilando la civiltà occidentale, nel disperato tentativo di conservare la propria egemonia di fronte alle sfide che le lanciano alternative strategiche sempre più agguerrite. Ciò è tanto più vero ove si consideri che Rudd è un analista geopolitico tutt’altro che sprovveduto e, come testimonia l’apprezzamento di una vecchia volpe come Henry Kissinger citato in quarta di copertina, non allineato con le fanfare della tambureggiante propaganda anticinese che, da Trump a Biden, sembra essere divenuta il leitmotiv della politica estera a stelle e strisce (nonché di quella dei vassalli europei).
A ispirare le critiche di Rudd alle smanie belliciste di Washington non sono solo considerazioni dettate dal buon senso, come la consapevolezza che una guerra fra Usa e Cina difficilmente resterebbe limitata all’area indopacifica, ma finirebbe assai probabilmente per estendersi a livello globale con conseguenze devastanti per l’intera umanità (anche se non si arrivasse a un olocausto nucleare, il che non può essere escluso a priori). Il vero punto, argomenta Rudd, è l’incomprensione pressoché totale delle cancellerie occidentali (non solo di quella americana) nei confronti delle logiche che presiedono alle decisioni strategiche delle élite cinesi.
In particolare, sostiene Rudd (che, oltre a parlare il cinese, è stato più a volte e a lungo in Cina, svolgendo incarichi che gli hanno consentito di confrontarsi con i più alti livelli dello stato-partito), ciò che a Washington, Londra e in Europa si sottovaluta, o addirittura si ignora, è il rinnovato peso dell’ideologia marxista leninista – integrata con i valori della tradizione taoista e confuciana – associato all’avvento di Xi Jinping alla guida del Paese; parimenti si ignora in che misura la memoria del “secolo delle umiliazioni” causate dal colonialismo occidentale giochi ancora un ruolo determinante nel comune sentire di un popolo orgoglioso, tanto della propria civiltà millenaria, quanto della riconquistata potenza economica e militare; per tacere del rapido miglioramento delle condizioni di una classe media sempre più prossima a standard di vita occidentali.
Questi e altri fattori concorrono a generare un esplosivo mix di socialismo, nazionalismo e “populismo” (Rudd usa questo termine per definire la svolta neo-socialista di Xi Jinping, che penalizza il potere dei grandi capitali privati e promuove una radicale ridistribuzione del reddito verso il basso), un mix che gli Stati Uniti si illudono di poter contenere alzando il tiro della propria aggressività, mentre non fanno altro che rinfocolare il rischio di reazioni simmetriche, altrettanto dure, da parte di Pechino.
Intendiamoci, Rudd è tutt’altro che simpatetico nei confronti della nuova “assertività” della Cina di Xi Jinping: se da un lato critica le illusioni occidentali in merito al fatto che la crescita economica avrebbe “naturalmente” portato alla transizione della Cina verso un regime liberal democratico, dall’altro resta un convinto assertore della superiorità del libero mercato (in barba alle recenti catastrofi) e del sistema liberal democratico (alla faccia delle degenerazioni che lo stanno trasformando in una oligarchia di censo), per cui continua a sperare che i limiti “naturali” dell’economia di stato (malgrado i successi che lui stesso è indotto ad ammettere) finiranno per generare problemi destinati a minare la leadership neo socialista e “populista” di Xi Jinping, e indurre la Cina e più miti consigli. Insomma, dal suo punto di vista, basterebbe apprendere dai cinesi la virtù della pazienza e aspettare che le tensioni si smorzino, evitando nel frattempo di tendere la corda fino a farla spezzare.
Rudd non ha aggiornato la propria analisi in seguito allo scoppio della guerra russo-ucraina che, nella misura in cui mette direttamente di fronte l’esercito russo alle forze della NATO, modifica lo scenario geopolitico da lui tracciato dal momento che implica la convergenza strategica di Cina e Russia. Se lo avesse fatto, sarebbe stato indotto a prendere atto che la sua diagnosi in merito all’incapacità del blocco occidentale di comprendere le logiche dell’avversario cinese vale a maggior ragione per l’avversario russo.
Nel caso della Russia è il caso di far partire il ragionamento dal sistematico rifiuto occidentale di accogliere le profferte di Putin allorché costui, in varie occasioni, dichiarò l’intenzione di integrare il suo Paese in Europa o addirittura nella NATO. Le motivazioni con cui queste avance furono respinte, cioè il mancato rispetto dei diritti umani e la presunta non democraticità del regime russo, sono talmente speciose da non meritare la minima considerazione (l’occidente annovera fra i propri partner e alleati Paesi i cui standard di democrazia e rispetto dei diritti umani sono di gran lunga inferiori). La verità è che la capacità di Putin di risollevare la Russia dal disastro in cui l’aveva precipitata la shock therapy imposta dall’adesione alle regole del consenso di Washington, e restituirla al rango di potenza regionale (non “imperiale”: anche questa sopravvalutazione è chiaramente propagandistica), contrastava e contrasta con l’obiettivo di farle fare al fine della Jugoslavia, di ridurla cioè a un insieme di staterelli colonizzabili dagli interessi occidentali.
Questo atteggiamento di sprezzante superiorità ha prodotto l’equivalente della memoria cinese (ancora più urticante in quanto più recente) delle umiliazioni coloniali da parte delle potenze occidentali. Il largo consenso politico di cui gode Putin (in barba ai tentativi di sminuirlo da parte dei media di America ed Europa) è fondato su questo rinnovato orgoglio nazionale, e l’accostamento fra la guerra ucraina e la grande guerra patriottica contro il Terzo Reich funziona proprio per questo (e anche perché l’atteggiamento russofobo e l’ideologia parafascista di Kiev lo giustificano ampiamente, richiamando la connivenza ucraina con l’invasore nazista). Così come è fondato sul fatto di avere sottratto alla miseria milioni di concittadini e restituito loro dignità.
Se poi la guerra dovesse prolungarsi, entrerebbero in gioco (in parte sono già entrati in gioco) altri fattori: dalla resilienza che l’economia russa ha saputo dimostrare resistendo alle sanzioni occidentali grazie ai rapporti di collaborazione sempre più stretti con la Cina e altri membri dei Brics, al progressivo ridimensionamento del potere degli oligarchi (le economie di guerra tendono alla centralizzazione e al rafforzamento del ruolo dello stato, a scapito degli interessi delle grandi imprese private), al rafforzamento del peso politico e organizzativo del Partito Comunista russo (depositario del rimpianto di milioni di cittadini per le condizioni di sicurezza sociale garantite dal regime sovietico).
Il fatto che governi, partiti e media di mezzo mondo auspicano la caduta di Putin, come se questa bastasse di per sé a riportare la Russia alle infami condizioni del dopo Eltsin, conferma la loro totale incapacità di valutare il peso di tutti questi fattori e del rischio (o dell’opportunità, dipende dai punti di vista), sempre più reale, che la Russia sia indotta a imboccare la strada, se non del ritorno al socialismo, della costruzione di una economia mista con forti connotati “statalisti” e “populisti” (per usare l’espressione che Rudd applica alle politiche di Xi Jinping). Un rischio terribile per la conservazione dell’egemonia di Usa ed Europa sul sistema mondiale, in quanto implicherebbe la saldatura di un poderoso blocco sino-russo (con notevoli capacità di proiezione sui teatri mediorientali, asiatici, africani e latinoamericani) contro il quale le ambizioni imperiali a stelle e strisce andrebbero a infrangersi, generando un’ alternativa secca: accettare la transizione a un mondo bipolare o scatenare l’Armageddon di una guerra nucleare che non avrebbe vincitori.
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