Francesco Santoianni
Avanti.it
L’operazione mucca pazza, sulla quale ci siamo soffermati nella precedente puntata, è stata, sostanzialmente, una guerra commerciale circoscritta a poche nazioni e conclusasi ben presto senza lasciare nell’opinione pubblica significative conseguenze. Non così la terroristica “emergenza AIDS” – con Ronald Reagan che definiva l’AIDS “il nemico pubblico n.1” e Margaret Thatcher che concludeva il messaggio di Capodanno alla Nazione con la frase: “Che Dio salvi l’Inghilterra dal flagello della nuova peste!” – che ha inaugurato l’Era della Paura: il susseguirsi di una terroristica informazione mediatica e politica che si perpetua ancora oggi.
Prima di addentrarsi nella disamina dell’emergenza AIDS, una breve considerazione. Da sempre le epidemie sono state sfruttate dal potere per rafforzarsi. Ma le tante psicosi di massa ad esse legate che hanno costellato l’occidente negli ultimi decenni sono un elemento di assoluta novità. A determinarle, sostanzialmente, il cosiddetto bioterrorismo, una minaccia enfatizzata da innumerevoli fiction e che è servita a spianare la strada a nuove guerre. In più l’imposizione alle truppe USA di vaccini sperimentali per neutralizzare il famigerato bioterrorismo è servita a modificare negli USA lo Swine Flu Act del 1976 facendo risarcire allo Stato, e non più alle aziende farmaceutiche, gli effetti avversi dei vaccini. Questo è servito a rilanciare il mercato delle vaccinazioni che oggi rappresenta il business più importante di Big Pharma, principale sponsor di campagne mediatiche tendenti a drammatizzare ogni minaccia biologica e che si servono di davvero irritanti stratagemmi. Primo tra tutti il chiedere: “Ma lei se la sentirebbe di escludere completamente l’eventualità di una catastrofica epidemia?” cosa volete che risponda il virologo di turno al giornalista che lo sta così intervistando? E tra l’altro perché il virologo dovrebbe precludersi un qualche finanziamento che potrebbe scaturire dall’allarmismo? E così, avanti con frasi circospette che lasciano presagire il peggio, magari mentre scorrono sullo schermo immagini della Spagnola del 1918 o della Peste Nera del 1347. E così continuano a rifilarci cucchiaiate di paura. E li ringrazieremo quando, conclusa l’emergenza, saremo ancora vivi. Certo, come strategia di controllo sociale non è un granché. Tuttavia in tempi come questi, nei quali si direbbe svanito il futuro, può bastare.
Ma occupiamoci dell’emergenza AIDS. Nel giugno del 1981, nell’area di Los Angeles, il Center for Disease Control (CDC) registrò cinque casi (due dei quali con esito mortale) di Pneumocystis carinii, una infezione polmonare. Nel giro di pochi giorni il CDC apprese di molti altri casi simili, riscontrati in giovani fino a quel momento in buona salute. In alcuni casi quegli uomini non soffrivano solo di Pneumocystis carini, ma erano affetti da un cancro raro e aggressivo, noto come sarcoma di Kaposi. Da cosa dipendevano quei quadri clinici? La constatazione che l’unica caratteristica comune tra questi pazienti era quella di essere gay convinse i ricercatori ad ipotizzare un collegamento con gli amilnitriti: afrodisiaci e rilassanti (detti “popper”) per la muscolatura sfinterica molto popolari in quel periodo nella comunità gay e già ritenuti responsabili dell’insorgere dei suddetti quadri clinici. Ma questo ovvio filone di ricerca venne bloccato dall’annuncio del ministro della sanità americano Margareth Eckler che il 23 aprile 1984 dichiarava essere la causa dell’AIDS un virus (poi chiamato HIV) “scoperto da Robert Gallo, del National Cancer Institute”, e di essere imminente un test commerciale per diagnosticare l’infezione.
Intanto l’AIDS, dopo i gay, stava dilagando tra gli eroinomani (che, secondo i media, si scambiavano siringhe infette) e in altre categorie. Tutto sembrava convalidare la teoria dell’infezione da virus e le vessazioni alle quali erano sottoposti i “positivi” quando cominciarono ad emergere alcune evidenze che smontavano questa teoria. Intanto, erano già decine di milioni i positivi ai test ELISA e Western Blot per scovare il virus HIV ma solo pochissimi di questi manifestavano un qualche sintomo di AIDS. Com’era possibile? La sbalorditiva risposta fu che il periodo il periodo di incubazione dell’AIDS poteva durare almeno dieci anni. In più c’era il mistero delle donne che (anche quando erano prostitute operanti in Africa in zone indicate come devastate dall’AIDS) risultavano, nella stragrande maggioranza dei casi, immuni all’AIDS.
Sempre a proposito di Africa: lì l’OMS, considerata la carenza di test diagnostici, aveva stabilito che la diagnosi di AIDS poteva basarsi soltanto sui sintomi; quando, poi, questi test furono disponibili, si evidenziò che la stragrande maggioranza dei “malati di AIDS” era sieronegativa. Sì, ma quali dovevano essere i sintomi per poter parlare di AIDS? Agli esordi di questa emergenza i quadri clinici erano, come già detto, la Pneumocystis carinii e il Sarcoma di Karposi. Ma, col passare del tempo e l’esigenza di attestare l’allarme, i quadri clinici per diagnosticare l’AIDS arrivarono ad essere ben 46 includendo sintomatologie che, fino ad allora, definivano ben altre malattie ma che, per la positività ai test ELISA e Western Blot, ora definivano l’AIDS. A peggiorare le cose, la sostanziale inaffidabilità dei test diagnostici e l’utilizzo di un farmaco, prodotto dalla casa farmaceutica GlaxoSmithKline, che era già stato ritirato dal mercato per la sua tossicità, l’AZT, che veniva usato per “curare” i sieropositivi, con la conseguente strage tra questi.
Intanto una martellante e terroristica campagna stampa (basata sull’equazione HIV=AIDS=morte) dilagava su tutti i media. Ma non è affatto vero, come ci racconteranno poi, che quell’allarmismo, convincendo la gente ad usare il preservativo, servì ad arginare e poi a far spegnere l’infezione HIV considerato che le malattie a trasmissione sessuale erano aumentate.
Di fronte a queste incongruenze furono non i pochi ricercatori, (tra gli italiani, gli autori del libro “AIDS: la grande truffa” (qui una edizione on line), conduttori di una rubrica a Radio radicale) che dell’emergenza AIDS diedero una lettura ben diversa da quella ufficiale. Il più celebre tra questi, Peter Duesberg, professore di Biologia molecolare dell’università di Berkeley, membro dell’Accademia delle Scienze statunitense e autore, oltre che di 450 lavori scientifici, di uno straordinario libro: “AIDS: il virus inventato” nella quale, vengono smascherati tutti i dogmi sui quali si basava l’emergenza AIDS. Impossibile qui sintetizzarli tutti. Rimandiamo, quindi, al libro di Duesberg che, essendo stato messo fuori commercio poco dopo la sua uscita (nonostante la prima edizione e la seconda edizione andarono esaurite in pochi giorni), tocca leggere furtivamente in edizione PDF.
Un libro da leggere attentamente in quanto prefigura tutti quegli inganni e le vessazioni che sono stati messi in atto durante l’emergenza Covid. Emergenza che, oggi, risulta scomparsa non per gli effetti degli agognati “vaccini” ma perché i media non ne parlano più ed avendo i politicanti e i loro “esperti” cambiato le truffaldine norme che sovraintendevano al numero dei “ricoverati” e dei “morti per Covid”. Stessa cosa è stata fatta per l’AIDS. Messe sotto il tappeto “proiezioni” di “autorevoli epidemiologi” che avevano farneticato di milioni di morti all’anno in Europa per l’AIDS, il merito del contenimento dell’AIDS fu dato, oltre alle suddette, inesistenti, misure profilattiche, ad un intruglio di farmaci che, almeno, a differenza dell’AZT non uccidevano subito gli asintomatici positivi che li prendevano.
Un’ultima annotazione, la posizione di tanti esponenti della “sinistra” di fronte all’AIDS. Non ebbero nulla da ridire sulla gestione di quella emergenza limitandosi a chiedere (così come hanno fatto per i vaccini anti-Covid) l’invio in Africa (dove il virus HIV risulta endemico da secoli senza provocare alcunché) milioni di dosi dell’abominevole AZT. E quando il socialista Thabo Mbeki, presidente del Sud Africa, accusò l’OMS e i suoi sponsor (primo tra tutti la GlaxoSmithKline) di aver inventato un’immaginaria epidemia di AIDS in Africa – distraendo così immense risorse da problemi reali e gravi come la malaria o la tubercolosi – lo additarono (e lo additano ancora oggi) come “negazionista”.
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