Francesco Santoianni
Avanti.it
Non nasce con l’emergenza Covid la strumentalizzazione di un’infezione per imporre uno Stato di terrore finalizzato ai più loschi scopi. Gli esempi sono innumerevoli ed è curioso che, anche nel movimento No Green Pass, siano state davvero poche le considerazioni sulle sorprendenti analogie tra l’emergenza Covid e, poniamo, la “Mucca pazza”.
Occupiamoci prima di questa psicosi, poi ci soffermeremo sull’AIDS.
Nel 1986 una notizia si conquistò la prima pagina dei giornali di tutta Europa. In un allevamento nella regione dell’Hampshire, in Gran Bretagna, un centinaio di bovini, dopo aver manifestato atasia (scarso equilibrio e perdita della coordinazione motoria), tremori, spasmi muscolari, continuo digrignamento dei denti, ciondolamento della testa… erano morti nel giro di qualche settimana. I sintomi e le autopsie suggerivano che la causa fosse BSE (Encefalopatia Spongiforme Bovina), ma la BSE si sapeva non essere infettiva essendo considerata, fino ad allora, una rara malattia degenerativa di origine genetica, caratterizzata dalla formazione nella materia del cervello di vacuoli che rivelavano al microscopio un aspetto “a spugna”. Lo stesso aspetto che assumeva il tessuto cerebrale di persone (prevalentemente anziane) affette da un’altra rara malattia, fino ad allora considerata non infettiva e di origine genetica: il morbo di Creutzfeldt-Jakob. Non si conosceva allora nessuna correlazione tra le due malattie, provvederanno i media ad inventarla con la bufala delle farine animali.
Intanto, mentre veniva ingigantito il numero dei bovini “morti per Mucca pazza” (i “184.621 solo in Gran Bretagna” erano in realtà bovini asintomatici, abbattuti a scopo profilattico) si cercava la causa delle strane morti nelle mucche. Secondo Mark Purdey, un allevatore che condusse una certosina ricerca, dipendeva da un nuovo pesticida a base di fosfati. Ma questa ipotesi (pienamente confermata nel 2001) fu snobbata dai giornali che preferirono concentrarsi in una terroristica campagna allarmistica legittimata dall’epidemiologo Neil Ferguson (per capirci, quello che nel maggio 2020 teorizzava mezzo milione di morti per Covid-19 entro l’anno in Italia se non si applicavano rigidi lockdown) che prevedeva l’imminente morte di 150.000 persone in Europa avendo mangiato carne bovina e che accusava per la moria dei bovini le farine animali. Queste, prodotte dagli scarti dei bovini macellati e destinate ad integrare la dieta di animali da allevamento, sono in commercio dal diciannovesimo secolo; essendo controllate per scongiurare la presenza di microorganismi patogeni non hanno mai provocato allarme ma durante la psicosi della Mucca pazza furono demonizzate sia ricorrendo a suggestive considerazioni (come quella di Rudolph Steiner, considerato l’inventore dell’agricoltura biologica “Se diamo da mangiare carne ad un animale erbivoro, ben presto impazzirà”) sia legandole alla comprensibile indignazione sul trattamento degli animali destinati alla macellazione, sia identificandole come terreno di coltura per una entità sconosciuta ai più: il prione.
Oggi, i prioni, nonostante vengano studiati da più di sessanta anni restano un mistero della biologia molecolare. Intanto, non si comprende perché, potendo resistere a distruttivi agenti (quali le normali temperature di sterilizzazione per oltre un’ora, potenti acidi, radiazioni ultraviolette e ionizzanti, ultrasuoni…) non abbiano già colonizzato il pianeta; come possano replicarsi mancando in essi il DNA; come possano provocare una malattia dopo un periodo di incubazione di quaranta anni… Di riflesso, non si comprende come sia stato possibile che prioni siano stati identificati in mucche non alimentate con farine animali o, addirittura, in mucche che, fino al momento della macellazione, avevano pascolato in “fattorie biologiche” poste su apparentemente incontaminati altipiani di montagne tedesche. Va da sé che la risposta degli “esperti in BSE” esclusivamente intenti a cercare prioni è stata arrogante e inconcludente: queste mucche registrano la presenza di prioni grazie a impalpabili frazioni di farine animali giunte sulle farine vegetali o sul foraggio o tramite un errato stoccaggio di farine nei silos o grazie al vento. Ancora più desolante appare poi la teoria dei prioni se si considera che, agli albori dell’epidemia di BSE, solo il 60 per cento delle mucche morte dopo aver presentato i sintomi della “mucca pazza” risultavano positive ai test finalizzati alla identificazione dei prioni: un incontrovertibile dato “spiegato” dagli apologeti della teoria dei prioni affermando che i primi test “non erano sufficientemente precisi”. Si direbbe, quindi, che questo modo di fare ricerca – al pari di quanto è stato fatto per il virus HIV ritenuto responsabile dell’AIDS” sia servito solo a puntellare l’ipotesi fallace di una infezione.
Ma occupiamoci della scoperta dei prioni.
Essa risale agli inizi degli anni “60 quando il neurologo americano Stanley B. Prusiner, tra lo scetticismo generale, ipotizzò che alcuni agenti infettivi, in grado di provocare malattie degenerative del sistema nervoso centrale negli animali e, più raramente, anche nell’uomo, potessero essere costituiti solamente da semplice materiale proteico, privo cioè degli acidi nucleici DNA e RNA, e che riuscissero a moltiplicarsi andando a sostituire le proteine nelle cellule dell’organismo ospite. L’attenzione di Prusiner si concentrò su alcune proteine presenti, spesso, in diversi mammiferi quali pecore, mucche, visoni, cervi, gatti, uomini. La presenza di prioni in animali che non presentavano alcun sintomo clinico di certo non legittimavano un loro presunto potere “infettante”. Prusiner, allora, ricorse ad un modello teorico sul quale è bene soffermarsi: il virus lento, un concetto che presuppone, a sua volta, un “periodo di latenza” di mesi o di anni tra il momento in cui il virus invade l’organismo e la comparsa dei sintomi. In effetti, nonostante una quasi plebiscitaria accettazione da parte del mondo accademico il concetto di “virus lento” potrebbe essere solo un escamotage metodologico per giustificare una qualsiasi teoria preconcetta. A tal proposito è bene specificare che non si vuole qui contestare l’esistenza di infezioni latenti. Alcuni germi, come i virus erpetici, ad esempio, possono rimanere nascosti in qualche recesso del corpo e provocare riaccensioni ogni volta che il sistema immunitario è indebolito. In questo caso, comunque, è solo il sistema immunitario indebolito dell’ospite che permette all’infezione di covare sotto la cenere o di “svegliarsi” dall’ibernazione di tanto in tanto. Viceversa, un “virus lento”, capace cioè di “risvegliarsi” dopo anni o decenni indipendentemente dallo stato del sistema immunitario dell’organismo ospite rischia di essere un escamotage che può permettere a disinvolti scienziati di addebitare a un virus neutralizzato da tempo qualsiasi malattia appaia decenni dopo l’infezione.
Questo concetto del “virus lento”, alla base della teoria dei prioni come agenti infettanti vagheggiata da Prusiner è stato legittimato da una ricerca compiuta da Daniel Carleton Gajdusek che gli valse, nel 1976, un contestatissimo Premio Nobel per la Medicina. A tal riguardo riportiamo un estratto del libro di Peter Duesberg, “AIDS: il virus inventato” sul quale ci soffermeremo nel prossimo articolo.
“Nel 1957 Gajdusek fu inviato in Nuova Guinea nel 1957 con una sovvenzione del NIH (National Institute of Health). Laggiù, un medico del servizio sanitario locale gli fece conoscere una malattia chiamata kuru, una misteriosa patologia che colpiva il cervello, provocando nelle vittime spasmi ingravescenti o paralisi fino alla morte nel giro di qualche mese. La sindrome era stata segnalata solo fra le tribù che abitavano in una serie di valli, soprattutto la tribù dei Fore, in tutto 35.000 persone. Prima dell’arrivo di Gajdusek, nessuno straniero aveva mai descritto il kuru, anche se i Fore gli dissero che la malattia aveva cominciato ad apparire qualche decennio prima. Il primo studio di Gajdusek partì dal presupposto che la malattia fosse infettiva. Il medico – così racconta Gajdusek – riferì che gli indigeni usavano mangiare il cervello dei parenti morti per fini ritualistici, una pratica cannibalistica che era cominciata circa nello stesso periodo in cui il kuru aveva fatto la sua comparsa. In seguito Gajdusek spiegò a un intervistatore che il cannibalismo ”esprimeva amore per il parente defunto” e allo stesso tempo ”costituiva una buona fonte di proteine per una comunità che non aveva carne da mangiare”. L’infettivologo decise che la via di trasmissione del kuru era l’ingestione del cervello dei malati defunti. Però, quando si mise a cercare il virus, stranamente non trovò prove. Nei pazienti non si riscontrava nessuno dei tipici sintomi di infezione: non c’era febbre né infiammazione, nessuna alteratone nel liquor che avrebbe dovuto essere infetto, il sistema immunitario non reagiva come se un agente infettivo avesse invaso l’organismo, e nelle persone immunodepresse il rischio di malattia non era maggiore che nelle altre. Di lì a poco un altro gruppo di scienziati arrivò dall’Australia e concluse che il kuru poteva essere una malattia genetica ereditaria.
Tornato negli Stati Uniti, Gaidusek fu assunto dal NIH per lavorare nel reparto malattie neurologiche. Continuando a tenere sotto controllo l’incidenza del kuru, lo scienziato si dedicò allo studio della sindrome in laboratorio. Nel frattempo notizia della sua scoperta riguardo al kuru era giunta in Inghilterra, dove un altro cacciatore di virus stava studiando lo scrapie, una malattia che colpiva le pecore e che presentava sintomi di degenerazione cerebrale. Il ricercatore inglese suggerì a Gajdusek che il kuru poteva essere provocato da un virus lento, cioè con un lungo periodo di latenza. Gajdusek fu subito conquistato da questa teoria, nonostante contraddicesse le sue varie ipotesi secondo le quali nel kuru potevano essere in gioco geni, tossine o carenze nutritive. Deciso a scoprire un virus così sfuggente, cercò di trasmettere la malattia agli scimpanzé. Ma nessun animale si ammalò quando gli fu iniettato sangue, urina e altri fluidi corporei prelevati a persone affette da kuru. Neanche il liquido cerebrospinale che circonda il cervello, e che avrebbe dovuto essere pieno di virus, provocò effetti negli animali da laboratorio. Anzi, le scimmie non contrassero la malattia neanche mangiando il cervello di individui morti per il kuru. Funzionò solo un esperimento piuttosto bizzarro, in cui il cervello di morti di kuru fu ridotto in poltiglia e iniettato direttamente nel cervello delle scimmie vive attraverso fori praticati nella scatola cranica. Dopo un po’, alcuni di questi scimpanzé sperimentali presentarono anomalie nella coordinazione e nel movimento. Stranamente, però, anche questo metodo drastico non riuscì a infettare decine di altre specie animali. E nessun virus fu trovato nel tessuto cerebrale, anche usando i più sofisticati microscopi elettronici.
Se non si trovavano prove di questo virus invisibile tranne che nel tessuto cerebrale non purificato, se non provocava reazioni da parte delle difese immunitarie e non si riusciva a trasmetterlo in forma pura agli animali, era logico concludere che il virus non esisteva. Lo stesso tessuto cerebrale omogeneizzato dei morti – pieno di ogni proteina possibile e immaginabile e di altri composti – avrebbe dovuto essere tossico quando veniva inoculato nel cervello, delle scimmie.
Nonostante queste prove contrarie, gli scimpanzé malati convinsero Gajdusek di aver scoperto il virus. Dato che non riusciva a isolarlo se non nel tessuto cerebrale, decise di studiare il virus e la sua struttura con un esperimento standard: avrebbe determinato quale trattamento chimico e fisico era in grado di distruggere il virus, e da questo avrebbe raccolto dati sulla sua natura, Ma con sua grande sorpresa, il germe misterioso non sembrava sensibile a nulla. Provò di tutto – sostanze chimiche potenti, acidi e basi, alte temperature, radiazioni ultraviolette e ionizzanti, ultrasuoni – ma anche dopo il trattamento il tessuto cerebrale non provocava il kuru nei suoi animali da laboratorio. Ulteriori esami accertarono che nei cervelli affetti da kuru non si trovava alcun materiale genetico estraneo. Pur impiegando i più potenti trattamenti antivirali, Gajdusek non era riuscito a rendere innocuo il tessuto cerebrale dei morti di kuru. Questi risultati si prestavano a un’unica ovvia interpretazione: in primo luogo non esisteva alcun virus, e quindi non si poteva distruggere ciò che non esisteva. Ma Gajdusek restò attaccato alla sua ipotesi virale. Nonostante gli esperimenti fossero stati deludenti, capovolse i risultati argomentando che il “virus del kuru” era in realtà un nuovo tipo di supermicrobo o, come lo definì lui, un “virus non convenzionale “. Questo nuovo virus doveva anche essere lento, dato che passavano lunghi periodi di tempo fra l’atto di cannibalismo e il manifestarsi del kuru.
Gajdusek offrì questa ipotesi a una generazione di scienziati dominata dai cacciatori di virus. La poliomielite era ormai scomparsa da anni, e i virologi finanziati dai NIH vedevano di buon occhio qualsiasi nuova linea di ricerca su cui esercitare la loro specifica abilità. Così abbracciarono con entusiasmo l’ipotesi di Gajdusek di un virus lento. Non sollevarono obiezioni neanche quando il collega sostenne che un altro virus non convenzionale, simile a quello del kuru, provocava la sindrome di Creutzfeld-Jakob, una rara malattia neurologica che sembra colpire soprattutto persone che hanno subito in precedenza un intervento al cervello (simili operazioni chirurgiche potevano ben essere sospettate di essere la vera causa della sindrome). Gajdusek ritenne virus lenti, o anche non convenzionali, responsabili di una lunga serie di malanni a carico dei nervi e del cervello, dallo scrapie nelle pecore alla sclerosi multipla e l’Alzheimer nell’uomo, e le sue ipotesi furono accolte seriamente, anche se non sostanziate da prove. Nel 1976 ricevette anche il Nobel per la medicina, in particolare per lo studio del virus del kuru e di Creutzfeld-Jakob, che deve ancora scoprire. E i NIH gli affidarono la carica di direttore del Laboratory of Central Nervous System Studies (Laboratorio di studi sul sistema nervoso centrale).
Nel frattempo è emersa un’altra informazione, piuttosto imbarazzante, che getta dubbi sull’ipotesi virale di Gajdusek per il kuru. In un numero del 1977 di “Science” fu pubblicato il suo discorso di accettazione del Nobel, corredato da una foto in cui si vedevano degli indigeni intenti al loro pasto cannibalistico. Non era un’immagine molto chiara. Quando dei colleghi chiesero a Gajdusek se la foto riprendesse davvero un atto di cannibalismo, lui ammise che i poveretti stavano solo mangiando carne di maiale. Secondo la rivista, “non si pubblicano mai le vere foto del cannibalismo perché sono, troppo ripugnanti”. Poco convinto, l’antropologo Lyle Steadman, dell’Arizona State University, ha compiuto delle ricerche e ha direttamente sfidato Gajdusek affermando che “non ci sono prove di cannibalismo in Nuova Guinea“. Steadman, che ha trascorso due anni in Nuova Guinea, ha detto di aver spesso sentito racconti di cannibalismo ma, quando ha cercato di andare a fondo della cosa, le prove sono svanite.
Offeso dall’accusa implicita di condotta disonesta, Gajdusek ha insistito nel dire che “possiede fotografie di vero cannibalismo”, ma non le pubblicherebbe mai perché “offendono i parenti delle persone dedite a questa pratica”. Questa affermazione contraddice le sue precedenti asserzioni che gli indigeni mangiavano i loro parenti morti per rispetto, e avevano smesso di farlo solo in ossequio alle pressioni del governo. Come prova del cannibalismo, Gajdusek citò anche l’arresto di indigeni per questo crimine, ma poi risultò che gli arresti si erano basati su dei “si dice “. Dal che si deduce che indigeni della Nuova Guinea sono stati accusati forse ingiustamente di pratiche cannibalistiche rituali. Inoltre, poca gente al di fuori dell’équipe inviata inizialmente con Gajdusek ha mai visto personalmente delle vittime di kuru. Questo significa che la nostra conoscenza della, malattia dipende dalle sue descrizioni e statistiche, soprattutto perché lui sostiene che sia il cannibalismo sia il kuru sono cessati pochi anni dopo la sua visita del 1957. Virus fantomatici, trasmessi tramite fantomatici atti di cannibalismo, causano malattie fantomatiche. E concetto stesso di “virus lenti” non è mai stato messo in discussione da allora, nonostante i problemi di ordine etico e scientifico di autenticità ad esso collegati, né dalla letteratura scientifica, né dalla stampa ufficiale.”
I prioni, quindi, potrebbero non avere avuto alcun ruolo nell’insorgenza del quadro clinico classificato come “Mucca pazza” ma, lungi dall’essere trasmessi attraverso le farine animali, potrebbero essere entità biologiche ubiquitarie, presenti cioè normalmente in molti animali senza provocare alcun danno; al pari, ad esempio, degli innumerevoli virus ospitati dall’Uomo che non provocano alcunché. Questa faccenda del prioni è di estrema importanza in quanto l’emergenza Mucca pazza è servita a mettere in dubbio i postulati di Koch e a stravolgere l’Infettologia e l’Epidemiologia, così come è stato per l’emergenza AIDS sulla quale ci soffermeremo nel prossimo articolo. Ma prima di concludere, un’ultima questione.
La psicosi della Mucca pazza è stata alimentata non da reali considerazioni scientifiche ma dai media che, ad esempio, sbandieravano in prima pagina le proteste di genitori che non volevano fosse servita carne nella mensa scolastica dei loro figli. Questo (oltre a scene strazianti in TV di persone affette dal morbo di Creutzfeldt-Jakob accomunate a riprese di qualche bovino affetto da BSE) determinava un effetto a valanga in moltissime scuole e il panico in tutta la società. Perché questa psicosi così indotta? E perché è stata imposta in Europa e non, ad esempio, negli Stati Uniti dove il consumo di carne pro capite è tre volte superiore? L’ipotesi più verosimile è che si sia trattato di una operazione commerciale: la repentina messa al bando delle famigerate farine animali, sarebbe servita a revocare il bando OGM dell’Unione Europea e, quindi ad inondare il continente europeo di foraggi canadesi e statunitensi geneticamente modificati. Una guerra commerciale? “Non si possono mettere sullo stesso piano le evidenze di danno legate alla Bse con i dubbi che esistono sugli effetti dei cibi geneticamente modificati.” Indovinate chi lo ha detto.
villiam vagnoni dice
Ho scoperto questo giornale e lo apprezzo
Francesco Santoianni dice
Grazie. Continui a leggerlo,
Guido Bulgarelli dice
ottimo pezzo, un ringraziamento all’autore. In tempi di ribaltamento di ogni significato, era inevitabile che la stessa cosa succedesse persino al metodo scientifico, anche se ovviamente la sovversione è operata da chi si proclama paladino della scienza. Una volta si osservava un fenomeno, si raccoglievano dati ad esso relativi e si formulavano ipotesi da verificare con ulteriori osservazioni. Adesso (anzi da qualche anno come ben testimonia l’articolo) si parte con un’ipotesi preconcetta e si prendono a martellate i dati per farli aderire al modello
Il Contadino dice
Come immagino facciano con le sentenze, ho in mente quella recente della Corte Costituzionale: “Intanto pronuncia la sentenza che poi le motivazioni in qualche modo le troviamo.”