Marco Di Mauro e Giuseppe Russo
Avanti.it
Sin dall’inizio dell’intervento russo nella guerra d’Ucraina, le Nazioni Unite sono state uno strumento nelle mani degli USA e dei loro alleati in funzione anti-Mosca. Come l’Unione Europea è stato il principale strumento americano per l’isolamento economico della Russia, così è stata l’ONU per l’isolamento diplomatico. Almeno, nelle intenzioni della NATO: il 2 marzo di quest’anno 141 dei 198 paesi membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno votato a favore della condanna dell’intervento russo in Ucraina. I restanti membri dell’assemblea si sono divisi fra i 5 contrari – oltre a Mosca soltanto Bielorussia, Eritrea, Siria e Corea del Nord – e i 35 astenuti, tra cui Cina, Iraq, Iran, India, Pakistan, Armenia e 16 paesi africani. La motivazione addotta da questi stati, secondo il New York Times, era questa: “Nei discorsi all’Assemblea Generale tenutisi negli ultimi giorni, i rappresentanti africani hanno affermato che i loro cittadini sono stati discriminati in Ucraina e mentre cercavano di fuggire attraverso i confini europei. I diplomatici dei Paesi in via di sviluppo hanno notato che la comunità internazionale si è mobilitata molto più rapidamente per l’invasione di una nazione europea che per i conflitti che infuriano in Africa, Asia e Medio Oriente. […] Alcuni Paesi, tra cui la Cina, il Sudafrica e l’Iran, hanno lamentato il fatto che la risoluzione è stata presentata senza una piena consultazione e senza il contributo di tutti i Paesi membri, rischiando quindi di infiammare la crisi anziché attenuarla. […] L’ambasciatore iracheno, Mohammed Bahr Aluloom, ha dichiarato che il suo Paese, invaso dagli Stati Uniti nel 2003, si è astenuto “a causa delle nostre sofferenze derivanti dalle continue guerre contro il nostro popolo”.” Si tratta di quasi un terzo dei membri, e per giunta paesi che messi insieme sul piano demografico costituiscono circa la metà della popolazione mondiale. Questa votazione è indice di un radicarsi delle posizioni contrarie alla strategia globalista, e di come la guerra d’Ucraina abbia accentuato il divario diplomatico tra due posizioni opposte, ma l’Assemblea Generale è soltanto un organo di discussione, capace di concedere vittorie simboliche, mentre il luogo in cui si decide davvero è il Consiglio di sicurezza, composto da 5 membri fissi e altri che si alternano annualmente. Qui la Russia, essendo membro della cinquina permanente con diritto di veto, è intoccabile, come anche la Cina, suo alleato, e gli avversari USA, Francia e Regno Unito. La battaglia nel Consiglio precede la stessa acclamatissima Assemblea del 2 marzo, iniziando col blocco da parte di Mosca della risoluzione del Consiglio che il 25 febbraio condannava l’operazione russa in Ucraina per cui la condanna di marzo potrebbe leggersi come una risposta a più corto raggio. Il 23 marzo, poi, il Consiglio bocciava la risoluzione russa – che chiedeva l’accesso umanitario per la consegna degli aiuti e la protezione dei civili, sostenuta dalla Cina – per approvare il giorno dopo quella proposta dall’Ucraina, che prevedeva aiuti alimentari e militari a Kiev. Il 29 marzo dal Consiglio riunitosi a Istanbul emergevano le prime garanzie per una prospettiva di pace: la Russia annunciò la smobilitazione dalle aree di Kiev e Černihiv, e l’Ucraina chiese un gruppo di stati garanti per tutelare il suo territorio da future invasioni e annunciò di voler indire un referendum per far pronunciare il popolo sull’eventualità di un’intesa con la Russia. Addirittura il capo della delegazione ucraina David Arakhamia affermò vi fossero le condizioni per un incontro tra Zelens’kyj e Putin. In questo contesto, gli atlantisti si sono giocati nei primi giorni di aprile la false flag di Buča, sperando di dare a Mosca il colpo definitivo: la sospensione dall’ONU e quindi dal Consiglio di Sicurezza per grave violazione dei diritti umani. L’unico caso simile era stato quello del Sudafrica, sospeso dall’Assemblea Generale nel 1974 in quanto privo delle credenziali per rappresentare il suo popolo a causa dell’apartheid e riammesso solo nel 1994, per cui la pressa atlantista va all’attacco: al Consiglio del 5 aprile si presenta un indignato Zelens’kyj, che invoca proprio l’illegittimità del diritto di veto per la Russia, colpevole di cotanto misfatto in quel di Buča. Anche qui, nulla di fatto, e gli americani si dovranno accontentare di spadroneggiare nel campo secondario dell’Assemblea generale: il 7 aprile la Russia viene espulsa dal Consiglio dei Diritti Umani (era accaduto anche alla Libia di Muhammar Gheddafi, contro il quale fu montata, poco prima del suo assassinio nel 2011, la flase flag della brutale repressione dei suoi cittadini da parte di mercenari centroafricani). Anche qui, tuttavia, nulla di fatto, se il 6 maggio sia l’Assemblea che il Consiglio approvano un testo sulla guerra d’Ucraina in cui non si nomina mai la Russia come invasore; per non parlare del 13 maggio, quando l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite Vasilij Nebenzja fa un dettagliato resoconto, ricavato da documenti sequestrati dai russi nei territori conquistati, dei crimini commessi da Stati Uniti e Ucraina, che hanno sperimentato patogeni letali sulla stessa popolazione ucraina. Il voto di espulsione della Russia, avvenuto appena un mese dopo la “condanna” di marzo, è stato una svolta significativa con 93 a favore, 24 contrari e 58 astenuti. Il dissenso verso l’Occidente e la NATO è cresciuto sensibilmente e pesa su tutta l’Africa, che passa a 10 favorevoli, 30 astenuti e 9 contrari. Proprio nel continente nero sembra infatti che la Russia abbia guadagnato terreno, arrivando perfino a bloccare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza per prolungare la missione ONU in Libia di un anno, obbligando gli altri membri a ridurla a tre mesi.
Il voto del 7 aprile dispone l’espulsione della Russia dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ma sancisce al contempo una profonda spaccatura in seno alla comunità internazionale, con la formazione di due fronti contrapposti: da un lato l’Occidente allargato a trazione statunitense, comprendente il Nordamerica, l’Europa, l’Oceania e le più docili e fedeli colonie dell’America centromeridionale, dell’Asia e, in misura minore, dell’Africa; dall’altra, un informale fronte russofilo e “multipolarista” in cui si annoverano giganti geopolitici come la Cina e l’Iran, i paesi eurasiatici rientranti nella sfera d’influenza russa (su tutti Bielorussia e Kazakistan), stati ex e post-comunisti con i quali esiste una tradizione di amicizia che risale ai tempi dell’Unione Sovietica (Cuba, Corea del Nord, Vietnam), nuovi alleati acquisiti negli ultimi vent’anni in chiave antiamericana (Siria, Bolivia) e, soprattutto, alcuni paesi africani che sono diventati solidi alleati dei russi in seguito a complesse vicende di natura politica e geopolitica che hanno trovato scioglimento negli ultimi mesi. Fra questi ultimi, particolarmente interessanti sono i casi del Mali, del Burkina Faso e del Burundi.
I primi due, paesi del Sahel occidentale accomunati dalla presenza di giacimenti d’oro, uranio e coltan perlopiù ancora non valorizzati, e dal flagello dei miliziani islamisti, le cui iniziative si concentrano proprio intorno alle miniere più produttive, sono stati di recente teatro di iniziative politiche dei militari, i quali hanno deposto i presidenti legittimi, filo-occidentali eletti nell’ambito di una democrazia “protetta” sotto la tutela francese, ed hanno instaurato regimi di “salute pubblica” a forte connotazione “sovranista” con l’appoggio delle masse popolari, presso le quali ha allignato prepotentemente il sentimento antifrancese in seguito al dilagare della violenza delle milizie jihadiste, messe in piedi ed armate di tutto punto, secondo una diffusa vox populi, proprio dai francesi e dagli americani, in modo da saccheggiare le risorse minerarie senza corrispondere ai governi nazionali neanche quella miseria prevista dagli accordi ufficiali: una plastica rappresentazione del più rapace neocolonialismo. In Mali il colonnello Assimi Goita, promotore di due colpi di stato consecutivi ed autoproclamatosi presidente dopo il secondo di questi, ha prima chiesto ed ottenuto l’aiuto militare russo per debellare la piaga delle bande armate, poi intimato all’ambasciatore francese di lasciare il paese; nel mezzo, il contingente di Parigi, formato da circa 5000 uomini, è stato a costretto a riparare in Niger per tutelare i residui interessi francesi nell’ambito dell’estrazione dell’uranio. In Burkina Faso, invece, paese il cui rappresentante risulta in effetti assente alla già citata votazione antirussa, il neopresidente “ad interim” Paul-Henri Sandaogo Damiba, a sua volta militare, ha spodestato il francofilo Kaborè approfittando della grande popolarità che si era guadagnato con le attività di repressione della guerriglia jihadista: il giorno del golpe, la capitale Ouagadougou era invasa dalle bandiere russe. Il piccolo Burundi, dal canto suo, stato tradizionalmente poverissimo che si trova dall’altra parte del continente, nell’Africa orientale,si è trovato costretto ad invocare l’aiuto russo per fronteggiare la guerra commerciale mossagli da parte dell’Unione Europea, la quale aveva bloccato le importazioni di caffè, principale voce dell’export burundese, a causa dell’ostinato rifiuto del governo a piegarsi ai diktat del Fondo Monetario e privatizzare l’industria della torrefazione, che è ancora sotto controllo statale ed ha resistito a decenni di assalti alla diligenza. Con i magazzini pieni ed il paese sull’orlo del collasso, è stato il governo russo ad acquistare in blocco la produzione di caffè burundese, salvando il Burundi dalla bancarotta. La Russia, insomma, si sta muovendo con grande lungimiranza sullo scacchiere africano, portando avanti una politica di lenta ma inesorabile penetrazione diplomatica, commerciale e militare, in virtù della quale si candida a diventare potenza egemone nel prossimo futuro, soppiantando i paesi occidentali sulla base di un nuovo modello di commercio internazionale e di alleanza geopolitica. Mentre si profila dunque all’orizzonte una nuova Guerra Fredda adattata alle istanze del XXI secolo, la Russia, perso per strada il comunismo, si candida a rappresentare quella parte maggioritaria di mondo irriducibile all’Occidente ed al suo globalismo livellatore. Fra i paesi “non allineati” che si sono astenuti all’ONU, vi sono diversi ex “paesi in via di sviluppo” che sono diventati potenze regionali, fra i quali India, Brasile, Messico, Nigeria, Sudafrica. La Grande Partita si gioca su più tavoli, e solo uno di questi si trova in Ucraina.
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