Davide Miccione
Avanti.it
Ho incontrato in questi tre anni diverse persone che non si sono rassegnate alla divaricazione sperimentata tra le proprie posizioni (politiche, etiche, di lettura del momento storico, di preoccupazione per la direzione futura, di rilettura del passato) e quelle dei propri amici, congiunti, amanti, familiari, colleghi. Qualcuno vive la cosa con stupore, qualcuno con indignazione, qualcuno con dolore, quasi tutti con perplessità. Chi in questa divaricazione si è trovato dalla parte del torto perché, brechtianamente, tutti gli altri posti erano occupati, chi ha cioè osato criticare pubblicamente le politiche pandemiche ha sofferto di più perché ha dovuto giustificare a se stesso la sua contrarietà alla narrazione prevalente.
Le domande di ognuno, a volte esplicitate e a volte desunte dall’interlocutore nella conversazione, si soffermano sulle ragioni e sulle conseguenze di tutto questo: cosa è successo agli altri? Perché è successo solo a me? La nostra comunanza di idee era falsa anche prima o si è spezzata di fronte all’ “evento pandemico”? Come può una persona così intelligente credere a tutto questo? Come può uno con la sua cultura schiacciarsi su una narrazione così rozza? Come fare a mantenere un rapporto proficuo con una società simile? Come serbare un rapporto con persone così importanti per me quando io penso così male di loro e loro così male di me? E quando questo nostro individuo perplesso si guarda mestamente intorno o si confronta con altri con cui abbia comunanza di lettura degli eventi, i criteri di spiegazione latitano. Sono davvero così diverso dai miei venticinque colleghi o dai miei otto parenti per cui politiche e disposizioni governative non hanno costituito il minimo problema? E cosa mi rende diverso?
Il “cosa” è appunto il problema: se questo “cosa” sia ostensibile, insegnabile (vecchia questione platonica) o perlomeno comunicabile. Cosa si cela insomma dietro una simile divaricazione?
D’altra parte non sembra notarsi, conversando con gli amici che hanno scelto la mozione di maggioranza, un analogo desiderio di sapere o di capire. Il fare parte della maggioranza sembra esentarli da questa riflessione antropologico-sociologica. Come cantava De André “la maggioranza sta […] come un’anestesia/ come un’abitudine” e tra gli effetti della mera forza del numero vi è indubbiamente quello di non doversi mai giustificare a se stessi. Forse questa stessa esenzione dall’aculeo del pensiero potrebbe essere una delle motivazioni profonde per cui si è abbracciata la maggioranza: mi adeguo e non ci penso più.
Qualche tentativo di spiegazione di queste profonde differenze si è avuto da parte degli intellettuali integrati, degli apologeti delle magnifiche sorti sanitarie, di chi olia la macchina della comunicazione e si preoccupa che elementi estranei non la contaminino. Ma costoro mai sono andati oltre il triplice marchio che attende oramai sempre i dissidenti: ignoranza, malafede e follia. Cito, ad esempio di ciò e a futura memoria, Nella mente di un No-Vax, un articolo di Luc Ferry, intellettuale francese e in passato ministro con Chirac presidente. L’ignoranza come condizione strutturale, la malafede magari per oscuri guadagni (idea grottesca considerando i costi, emotivi, logistici, economici, amicali, professionali, mediatici di una posizione minoritaria in questi tre anni) e infine una personalità disturbata e dunque attirata da posizioni ideali insostenibili sono solitamente i temi prediletti. Vi sarebbe anche l’argomentum bersaniano, utilizzato da Bersani più volte, che vede nei filosofi non allineati (Agamben, Cacciari, Zhok ecc.) un eccesso di intelligenza male utilizzata, di sofismi, che li porta a pensare assurdità. Un pensiero degno di un parroco poco scolarizzato dei primi decenni dell’Ottocento, magari quello cantato dal Belli in un suo sonetto che predicava “li libbri nun zò robba da cristiani, fijji pe ccarità, nnu li leggete” e che pronunciato da quello che fu per un breve periodo il leader della sinistra italiana penso ben valga come manifestazione dello spirito del mondo (ogni epoca ha il napoleone che si merita).
Nulla comunque da cui si possa capire qualcosa di più su ciò che ha portato gli italiani, seppur asimmetricamente, su sponde così lontane e opposte. Pensare il cittadino dissidente come pazzo, ignorante o disonesto e il cittadino filogovernativo come servile e interessato non permettono di andare molto oltre. Neppure le spiegazioni che vertono sulla ipocondria (orientata sia verso il virus che verso il vaccino) ci portano molto avanti nella comprensione, adatte come sono più a una seduta di psicoterapia che a un seminario di sociologia e filosofia.
Altri criteri facili come l’appartenenza ideologica (sempre giocata sul discrimine destra/sinistra così come lo abbiamo considerato in questi anni, cioè un rudere non leggibile di ciò che fu un tempo) funzionano ancor meno. I principali e pochissimi intellettuali che si sono opposti (prendere in considerazione questa categoria, in questo caso, acquisisce un particolare senso giacché essa dovrebbe essere portatrice, se non altro, di una maggiore consapevolezza della propria posizione ideologica) appartengono a tutte le posizioni: destra conservatrice, destra cattolica, libertarismo, liberalismo, sinistra marxista, sinistra non marxista, anarchismo, sovranismi vari. Tutti presenti sebbene in minima misura (si potrebbe dire uno per specie, come per l’arca di Noè). Anche sostituendo alle categorie della politica di massa le tradizioni filosofiche o gli ambiti disciplinari il discorso non cambia molto: analitici, continentali, filosofi della politica, del diritto, filosofi morali, estetologi eccetera. La tendenza arca (al massimo due per specie) continua a vigere. Ognuno è arrivato al suo “gran rifiuto” con gli strumenti che aveva: con gli strumenti del pensiero libertario e con quello comunista, attraverso il concetto di dignità della persona o quello di privacy. Persino itinerari che in teoria avrebbero dovuto aprire gli occhi (ad esempio una frequentazione delle opere foucaltiane e in generale della biopolitica) non sembrano aver sortito significativi effetti.
Ancora meno significativa sembra l’applicazione di un criterio culturale. La pandemia per come è stata con assoluta fermezza raccontata dei media principali non ha convinto, quando non ha convinto, tanto gli ignoranti che i colti, tanto gli orecchianti che i profondi studiosi. Semmai, a pensarci, tra i principali oppositori culturali si sono visti ottantenni grandi interpreti delle loro discipline (si pensi a Canfora, Agamben e Cardini) e pochi cinquantenni. Si potrebbe ipotizzare negli intellettuali meno giovani una minore paura nel prendere posizioni che, se più giovani, potrebbero causare la brusca interruzione della propria luminosa carriera. Oppure, a voler essere meno malevoli, si potrebbe ipotizzare che l’età avanzata permetta di cogliere l’essenza transumana e postdemocratica delle scelte politiche degli ultimi anni mentre i più giovani sarebbero già coinvolti in un processo di mitridatizzazione. Quale, allora, potrebbe essere il criterio per orientarsi tra le scelte degli italiani, intellettuali o meno che siano?
Ad una più cauta riflessione penso che i criteri che possano far da bussola in questa strana vicenda siano essenzialmente due, di cui uno originario e prioritario rispetto all’altro. Quello secondario ma che, magari in altra sede, meriterebbe comunque un’analisi rigorosa riguarda la nostra, per dir così, “dieta cognitiva”: come ci informiamo? Come distribuiamo le nostre personali patenti di autorevolezza? Cosa è degno della nostra fiducia? Cosa vale in ciò che sentiamo o vediamo o leggiamo? La cultura e l’onestà di chi parla? L’organizzazione che lo ospita? Quella che lo paga (qualora non coincidano con la precedente)? Come analizziamo le credenziali delle nostre fonti di informazione?
Ma già da queste domande appare in controluce la vera questione che è rappresentata dal nostro rapporto con il potere e di cui il rapporto con i media è solo una emanazione. L’autorevolezza che attribuiamo ai media è solo il riflesso della autorevolezza che concediamo al sistema nel suo complesso, di quella idea fondamentale che ci fa vedere le figure apicali della nostra vita associata come difficilmente attaccabili e fornite di una intenzionalità sempre buona. Si potrebbe pensare che l’esperienza del Novecento che tanto sbandieriamo in riti civili di rammemorazione sia servita solo a focalizzare il male, a collocarlo tutto in un luogo per poterlo considerare eliminato. Il nazismo e il fascismo (e nei casi di maggiore estensione anche lo stalinismo) svolgono la funzione del branco di porci del brano evangelico dentro cui vengono cacciati da Cristo i demoni e poi spinti giù da un burrone a strapiombo sul mare. Li mettiamo lì, così ce ne liberiamo (la straussiana reductio ad hitlerum, in fondo) o, più realisticamente, diciamo di averli messi lì così possiamo pensarci esenti da ogni male.
Non è lo stesso se il potere e chi lo incarna mi è padre e madre o se è per me è poco più di un amministratore condominiale o, ancora, se è un male necessario effetto dalla complessità della vita associata. Non sono posizioni (del resto solo un esempio delle tante possibili) equivalenti. Se sentite e vissute, non certo se pronunciate per sfoggio su giornali e in seminari, danno vita a modi di vivere gli eventi sociali e politici del tutto diversi. Chi ha accettato la sbilanciata narrazione degli eventi del triennio dell’emergenza ha da subito conferito al potere la propria intera fiducia dando per ovvia l’intenzione benevola e sollecita del potere verso di lui e ha ritenuto di non doverla ritirare neppure di fronte a notizie controverse di cui, forse, veniva a conoscenza. Modificare la narrazione, nel momento in cui essa è stata incardinata a questioni come la salvezza della nazione, la vita di uomini e donne, significherebbe dover modificare la propria immagine del potere in modo persino doloroso e dunque modificare anche l’immagine delle tendenze generali della nostra società. Significa pensare che il presidente, il primo ministro, il ministro della salute possano non essere rappresentanti del bene o comunque non sapere esattamente cosa stiano facendo o subire la pressione di istanze e tendenze degli altri poteri politici ed economici.
Partendo da questo concetto anche eventuali indagini sul rapporto tra posizioni sanitarie, ceti e professioni ne verranno illuminate: uomini e categorie che sono state tutelate e promosse dallo Stato tenderanno a fidarsene maggiormente. Chi invece ha conosciuto l’indifferenza e persino la cattiveria di certe decisioni politiche non sarà disponibile ad una concessione di fiducia così perentoria e definitiva.
Abitare dunque un mondo dove la fiducia va concessa di volta in volta, dove non riposa dopo essere stata concessa. La figura dell’autorità, e ciò vale per il vigile come per il preside, per il prefetto come per il magistrato, non riceve in automatico “il carisma” dell’infallibilità. Tutto ciò significa abitare un mondo radicalmente diverso, coltivare un rapporto con il mondo più faticoso e ansiogeno. Ovviamente in una società della paura e del controllo questo bisogno dei singoli cittadini di conferire una pienezza di fiducia senza scadenze aumenta e ciò ovviamente rende l’emergenza altamente desiderabile. Il dissidente, con piccolo slittamento fonetico, è dunque il diffidente, colui che non rilascia cambiali in bianco.
Sebbene i rischi di paranoia siano impliciti in questo esercizio del sospetto se generalizzato, nondimeno dovrebbero colpire altrettanto i rischi schizoidi dei “fiduciosi”, di coloro che si trovano a esercitare nella vita privata e nell’esperienza comune una legittima diffidenza che poi eliminano nel rapporto con il potere dello Stato. Pensano insomma che non sia detto che il capoufficio sia ben intenzionato e neppure il vicino, che non è detto che il professore del figlio sia preparato né il vigile che li multa equanime ma che, salendo nella scala del potere, (per giunta una scala abitata da una classe politica che gli italiani disprezzano persino eccessivamente) per una particolare “unzione sacerdotale” che a me è evidentemente sfuggita si raggiunga la santità nelle figure apicali.
Ad ogni modo sarebbe il caso che anche i “fiduciosi” ricordassero che la democrazia è basata sul controllo dei governanti da parte dei governati e ciò implica un misurato sospetto e che pensare il potere con una misurata diffidenza significa provare a renderlo migliore.
Giorgio40 dice
Bellissima esposizione.
Forse un po’ lunga, ma complimenti
Il Contadino dice
Scritto interessante, di piacevole lettura.
Mi viene da dire, lasciamo chi è caduto preda dei mentitori seriali al proprio destino, poniamo invece la nostra attenzione a chi è stato scaltro ed ha evitato di essere incantato. Anche in questi pochi soggetti (pochi rispetto al totale) si trova un vasto pot-pourri di possibilità che merita essere indagato. C’è chi: è colpa dei politici nostrani, chi: è colpa di Big Pharma, oppure colpa di Gates o Soros, chi le interferenze aliene, chi dice che il sistema è sempre stato così, ha semplicemente mostrato il suo volto; di tutto e di più.
Menti portate all’indagine, che amano indagare, menti che messe a confronto possono, forse, arrivare ad osservare il disegno per intero.
Insomma la scrematura è stata fatta, chi è rimasto fuori pace all’anima sua, per chi è dentro, si comincia a giocare
Leti dice
Grazie, uno scritto straordinario, un ‘analisi ineccepibile. Una dotta lucidità d’ interpretazione su come si creano, a ciclo continuo, idoli non solo in carne ed ossa, ma idee fasulle del mondo che riscaldano il sonno dei più, ma generano l ‘insonnia cognitiva di chi non può accontentarsi mai di morali provvisorie. Forse si è in pochi, ma il timone punta nella giusta direzione, che è sempre contraria ed ostinata, come qualcuno ha già detto. GRAZIE!
Bertozzi dice
Per me ha vinto l'”esenzione dall’aculeo del pensiero”. (Bellissima definizione)