In un comunicato ufficiale la Fed (la banca centrale degli Stati Uniti d’America) ha comunicato che con voto unanime ha alzato i tassi dello 0,25%. Non viene confermato nel comunicato quanto ci si attendeva circa il blocco per un periodo medio-lungo degli aumenti (si parla genericamente di una possibile “pausa”). Con un giro di parole in conferenza stampa, Jerome Powell, ha comunicato che sono pronti a procedere con ulteriori restrizioni ma che al momento non sa se sarà necessario. Il presidente della Fed ha inoltre comunicato che la crescita è proseguita a un ritmo “modesto”, mentre domanda e offerta di lavoro stanno “tornando a un miglior equilibrio” e quindi “la recessione può essere ma anche no”.
La verità è che il paese è già in piena recessione. I disoccupati e gli inoccupati sono superiori al numero di occupati. Senza contare tutti gli occupati che lavorano in condizioni precarie e indecorose. Sono decine le vertenze in corso in tutto il paese (ultima in ordine di tempo è quella degli scrittori). Senza contare la crisi recente della Silicon Walley Bank. La politica monetaria restrittiva, oltretutto, sta contraendo con forza il settore immobiliare a causa dell’aumento dei tassi sui mutui, e in parte sugli investimenti fissi. I costi delle campagne militari Usa in giro per il mondo non aiutano.
L’intervento della Fed, quindi, se da un lato è un tentativo goffo di tappare l’inflazione, apre la porta alla possibilità di una recessione. Per questo, secondo i mercati, l’istituto sarà comunque costretto a tagliare i tassi entro la fine dell’anno sottoponendo l’economia Usa a ulteriori fibrillazioni. Ma non è tutto. Nel paese negli ultimi tempi si stanno moltiplicando le richieste perché il Congresso non aumenti il limite massimo al debito pubblico (tra l’altro già superato a gennaio) come pretesto per ulteriori aumenti e tagli per sventare un default sul debito pubblico.
In definitiva la coperta è corta e da qualunque lato la si tiri il re è nudo, lo zio Sam è nudo.
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