Carlo Formenti
Avanti.it
La follia che ci sta trascinando verso la Terza guerra mondiale si manifesta attraverso due diverse modalità: paranoia e schizofrenia. La sindrome paranoica è largamente prevalente ed è riconoscibile dalla sistematica costruzione di un nemico dipinto come un orribile mostro. Putin è il nuovo Hitler che massacra civili inermi, rapisce i bambini e vuole annientare la civiltà occidentale (cioè si scaglia stupidamente contro un nemico più potente di lui!?) con la complicità di Xi Jinping, il satrapo cinese che medita di attaccare Taiwan per fare la stessa cosa che Putin ha fatto con la Crimea (cioè riunificare territori che da millenni condividono la stessa cultura e la stessa lingua!).
Solo agli sprovveduti può sfuggire come questa narrazione appartenga alla logica della propaganda di guerra che, da che mondo è mondo, dipinge la realtà con i colori del bianco e del nero, mettendo tutto il bene da una parte e tutto il male dell’altra. Eppure, nella misura in cui il refrain appena descritto viene ossessivamente recitato all’unisono da partiti, media, accademici ed “esperti” euroamericani (l’uso di tale appellativo si impone, stante l’assolto asservimento europeo nei confronti del dominus d’oltreoceano), finisce per influenzare anche i meno sprovveduti, o almeno per impedire loro di far sentire la propria voce, perché, come spiega Noelle Neumann, la teorica della “spirale del silenzio”, chi si rende conto di nutrire idee assolutamente minoritarie esita ad esprimerle, per paura di subire sanzioni.
Molti, anche se non tutti, coloro che sono lucidamente consapevoli delle menzogne che le élite occidentali stanno snocciolando per giustificare la propria ubriacatura bellicista, finiscono invece per cadere preda della sindrome schizofrenica, nel senso che tendono a parare le accuse del mainstream paranoico dando un colpo al cerchio e un colpo alla botte, mettendo cioè sullo stesso piano la Russia e il trio USA, NATO, UE, per cui, mentre denunciano le colpe occidentali, si allineano alle condanne antirusse (e anticinesi) ma soprattutto evitano di dire a chiare lettere (come ha fatto un autore tutto men che “putiniano” come Benjamin Abelow nel libro Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina) chi ha le maggiori responsabilità nell’aver scatenato il conflitto.
Un esempio paradigmatico di questo atteggiamento schizofrenico ci è offerto dal modo in cui il Fatto Quotidiano racconta la guerra, accogliendo nello stesso numero articoli che vanno in direzioni differenti, se non addirittura opposte. Per sostenere questo giudizio, commenterò alcuni articoli presenti sul numero di martedì 21 marzo del quotidiano in questione. In un fondo dal titolo “Arrivano i buoni”, Marco Travaglio, con il suo stile puntuto, fa letteralmente a pezzi gli argomenti con cui gli occidentali tentano sistematicamente di intestarsi il ruolo di difensori del bene, della pace e della democrazia: elenca le false prove esibite da Colin Powell davanti ai membri dell’Onu per giustificare l’aggressione all’Iraq, il rifiuto americano di ammettere la strage di civili iracheni perpetrata con bombe al fosforo vietate dalle convenzioni internazionali, l’uso sistematico della tortura contro i prigionieri di guerra, documentato dalle immagini di Abu Ghraib; ma soprattutto documenta i verminosi sforzi con cui “autorevoli” firme del nostro giornalismo (da Ferrara a Belpietro, da Ranucci a Teodori) hanno tentato di negare anche l’evidenza per coprire questi crimini, o peggio (vedi Angelo Panebianco) li hanno rivendicati in nome del fatto che tutto è lecito per sconfiggere i cattivi.
A pagina 11 troviamo poi un articolo di Domenico Gallo, il quale scrive senza mezzi termini che la incriminazione di Putin da parte della Corte penale internazionale (organismo non riconosciuto dalla Russia né dagli Usa e che, nel caso del processo a Milosevic, ha dimostrato il suo ruolo di gregario della NATO) è un chiaro espediente per impedire che vengano fatti passi concreti verso il negoziato (magari, non sia mai, con la mediazione della Cina). Troviamo inoltre un pezzo di Alessandro Orsini (noto “putiniano” sulle liste di proscrizione di tutti i media mainstream) che spiega come la Cina veda (giustamente) nella guerra per la Crimea e il Donbass l’antefatto di una possibile guerra per Taiwan, per cui il rifiuto occidentale di apprezzare gli sforzi cinesi per arrivare a una soluzione pacifica di queste tensioni è un chiaro segnale dell’intenzione di arrivare a una guerra globale.
Ma dopo il colpo al cerchio, ecco il colpo alla botte: alle pagine 2 e 3 troviamo un articolo di Giampiero Gramaglia sull’incontro fra Putin e Xi Jinping e una intervista al direttore di “Limes” Lucio Caracciolo, che “riequilibrano” la situazione, onde non si possa dire (come se non lo si dicesse comunque) che il Fatto è putiniano, o addirittura filocinese. Le risposte di Caracciolo, in particolare, documentano come costui, dal momento che la guerra si prolunga e il rischio che si estenda aumenta, stia progressivamente slittando dall’iniziale, apparente neutralità scientifica dell’esperto di geopolitica, a un chiaro atteggiamento pro occidente e anti russo-cinese; tanto che a domanda risponde che l’addestramento di militari ucraini in Italia (Paese la cui Costituzione ripudia la guerra e la cui sicurezza non è in alcun modo minacciata dal conflitto ucraino!) gli pare del tutto “normale”.
Quanto all’articolo di Gramaglia (come altri dello stesso e di altri autori su precedenti numeri del quotidiano) non manca di porre l’accento sulla natura aggressiva della cooperazione russo-cinese, finalizzata a imporre un nuovo “ordine mondiale”, mentre esiste una ampia bibliografia che spiega come la politica estera cinese non miri a rimpiazzare gli Stati Uniti nel ruolo di egemone globale, non tanto e non solo perché la leadership cinese è ben consapevole di non disporre di un rapporto di forza adeguato a simile impresa, ma soprattutto perché il suo vero obiettivo è quello di un riequilibrio del sistema mondiale in senso multipolare.
Ma questa schizofrenia non è prerogativa esclusiva del Fatto: è l’intero campo della sinistra italiana ad esserne affetto, e non mi riferisco al PD, la cui posizione è esplicitamente atlantista e tale rimane anche dopo l’ascesa di Elly Schlein alla segreteria (in ossequio del resto a una tradizione che lo ha visto legittimare l’aggressione NATO contro la Serbia e l’invio di truppe italiane sui teatri di guerra iracheno e afgano), mi riferisco alla maggior parte delle formazioni della sinistra cosiddetta “radicale” e allo stesso movimento pacifista, che evitano sistematicamente di prendere una posizione chiara e netta sulle responsabilità primaria dell’Occidente nello scatenamento della guerra. Una posizione monca, arretrata persino nei confronti di quella assunta da papa Francesco con la sua battuta sulla NATO che “è andata ad abbaiare ai confini della Russia”, per cui non apporta un contributo sostanziale alla causa della pace. Se disponiamo di un esempio in cui un movimento pacifista è riuscito a influire concretamente sulla fine di un conflitto, dobbiamo infatti risalire alla mobilitazione del popolo americano contro la guerra del Vietnam; mobilitazione che indicava chiaramente che la responsabilità del conflitto era interamente addebitabile all’imperialismo americano e si proponeva altrettanto chiaramente di indebolirne il fronte interno. Allo stato non si vedono segni di una simile mobilitazione né negli Stati Uniti, né in Europa, né tantomeno in Italia. Per renderla possibile, bisognerebbe curare la schizofrenia e costruire un fronte compatto contro la paranoia.
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