Giuseppe Russo
Avanti.it
Domenica 12 giugno si terranno, assieme alla tornata di elezioni comunali, 5 referendum abrogativi, tutti attinenti alla sfera del funzionamento dell’apparato giudiziario. A promuovere i quesiti è stata la Lega (l’ultimo, in tutti i sensi, harakiri di Salvini), coadiuvata da quel che rimane del mondo “radicale” orfano del suo guru referendario Marco Pannella. Pur avendo portato avanti la raccolta firme (anche “digitali”) tramite il “Comitato Giustizia Giusta”, il burocratico via libera all’indizione del referendum è stato determinato dall’iniziativa di 9 consigli regionali, quelli controllati dal cosiddetto “centrodestra”: in questi referendum, insomma, di “iniziativa popolare” ce n’è proprio poca, nonostante Salvini e i suoi avessero annunciato di aver raggiunto, per i 6 quesiti previsti originariamente, assai più delle 500000 sottoscrizioni richieste, cosa della quale è lecito dubitare visto che, delegando l’incombenza alle regioni, il comitato promotore si è privato sia dei rimborsi elettorali, sia della possibilità di fruire di spazi televisivi. L’ennesimo mistero buffo della politica italiana.
I 5 rererendum puntano ad abrogare la cosiddetta “legge Severino” sull’inellegibilità dei condannati in via definitiva per determinati reati, a regolare in modo diverso il funzionamento della Corte di cassazione e del Consiglio Superiore della Magistratura e, soprattutto, a separare le carriere dei magistrati, impedendo che il singolo togato possa transitare dalla funzione inquirente a quella giudicante, un vecchio cavallo di battaglia dei “garantisti” di casa nostra; la “separazione delle carriere” fu già oggetto di referendum nel maggio 2000, assieme ad altre materie in tema di giustizia: a recarsi alle urne furono poco più di 15 milioni di cittadini, pari a quasi un terzo degli aventi diritto. Non avendo raggiunto il “quorum” della maggiranza assoluta di elettori, la votazione venne annullata, e non c’è ragione di pensare che in questo caso le cose possano andare diversamente, nonostante la pannellata fuori tempo massimo di Roberto Calderoli, che ha proclamato uno sciopero della fame per protestare contro il “silenzio sui referendum”.
L’istituto referendario è da tempo irrimediabilemente logorato; l’ultima circostanza in cui si è raggiunto il quorum è stato in occasione dei referendum sull’acqua pubblica del 2011, dopo i quali, peraltro, la volontà popolare è stata bellamente tradita e disattesa. Anche in occasione del referendum costituzionale del 2016, quello sulla “riforma” renziana, con una forte polarizzazione dell’opinione pubblica e l’impegno diretto delle forze politiche, si raggiunse appena il 51% degli aventi diritto (ed il quorum non era in quel caso neppure previsto). Il 12 giugno, nonostante il “traino” di elezioni amministrative che convocheranno alle urne più di 8 milioni di cittadini, sarà già grasso che cola giungere a 10 milioni di votanti e ad un quinto degli aventi diritto. Tutto questo a prescindere dalle posizioni dei vari partiti, i quali non fanno altro che animare una stanca liturgia: la Lega, Forza Italia e tutte le improbabili frattaglie “centriste” (dai calendisti di Azione ai renziani di Italia Viva, fino a boninisti e “socialisti”) sono per votare 5 sì, il PD, il Movimento 5 Stelle e la “sinistra” sono per votare 5 no, i Fratelli d’Italia della rampante Meloni sono per 2 no (quelli relativi alla legge Severino) e tre sì. L’unico effetto tangibile di questi referendum sarà probabilmente la definitiva uscita di scena di Matteo Salvini, la cui parabola di distrattore di massa si è ormai da tempo esaurita. Il “capitano” da due anni a questa parte le ha sbagliate tutte: difficile che si tratti, nonostante le corroboranti premesse, di mera idiozia politica. Salvini non serve e non funziona più neanche come spauracchio: il circo della politica sta per perdere uno dei suoi migliori pagliacci.
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