Carlo Formenti
Avanti.it
Di Cormac McCarthy, fino a poco fa, conoscevo solo Non è un paese per vecchi, di cui ho apprezzato la formidabile versione filmica dei fratelli Coen. Non avevo quindi letto La strada, che ha ispirato l’omonimo film di John Hillcoat. L’incontro con questa terribile storia (acquisita di recente, grazie a un’offerta scontata di titoli Einaudi) è stato per me scioccante. Al punto che ho deciso che non vedrò mai il film perché penso (a ragione o a torto) che le immagini non possano essere all’altezza del gelido orrore evocato dalle parole. Ho anche deciso di procurarmi tutti i romanzi di McCarthy, perché mai mi era capitato di essere a tal punto catturato da un libro (non uso il termine sedotto, perché nel caso in questione si tratta piuttosto di una fascinazione ipnotica che solo l’irruzione del puro reale in tutta la sua spietata indifferenza per le emozioni umane può generare) dopo averne letto solo poche pagine.
Consultando i siti internet dedicati a McCarthy, apprendo che il nostro non ha mai espresso le proprie convinzioni politiche (posto che ne abbia). Eppure ritengo che sia l’autore vivente (perlomeno fra quelli di lingua inglese) più “politico” che mi sia capitato di leggere. Prima di spiegare le ragioni di un simile giudizio, riassumo a grandi linee, per chi non la conosca, non la storia, che non si presta a essere riassunta, bensì il mondo che letteralmente “salta fuori” da quelle pagine. Un uomo e suo figlio (di età che possiamo immaginare fra i sei e gli otto anni) si trascinano in un mondo letteralmente incenerito da una catastrofe (forse una guerra nucleare, ma McCarthy non ce lo dice) in cerca di cibo e riparo dal gelo, rovistando fra rovine e rifiuti, e costretti a nascondersi per non finire preda dei gruppi di sbandati che vagano nella desolazione uccidendo e mangiando chi non ha armi per difendersi.
All’inizio mi sono venuti in mente i film “post atomici” girati in momenti di forti tensioni internazionali (ancorché meno forti di quelle che stiamo vivendo oggi): da L’ultima Spiaggia a The Day After). Finché un amico che ha a sua volta letto il libro mi ha detto che, a suo avviso, La strada, più che un romanzo post apocalittico, è una metafora della realtà attuale, in particolare della cultura e della società americane. Mi sono immediatamente rispecchiato in tale intuizione, rendendomi conto che gli angosciosi giorni “pre atomici” che stiamo vivendo da quando è scoppiata la guerra in Ucraina (che, per chi che non abbia le fette di salame sugli occhi, è il primo atto di una Terza guerra mondiale) minacciano di essere il presagio di una discesa nel mondo immaginato da McCarthy, verso il quale stiamo correndo con lo stesso automatismo suicida che spinge i lemming a lanciarsi in mare.
Un mondo di idioti e criminali nel quale coloro (intellettuali, accademici e giornalisti) che dovrebbero impegnarsi per spegnere gli ardori bellicisti dei “signori della guerra” (dai neocons americani ai loro pusillanimi vassalli europei) si profondono in beceri negazionismi: i proiettili all’uranio impoverito non provocano il cancro (quando è noto che migliaia di persone che vivevano in ambienti contaminati dal loro uso sono morte); i soldati delle milizie ucraine coperti di svastiche non sono nazisti, ma eroi che difendono la democrazia e la libertà; i russi hanno provocato la guerra un anno fa (quando tutti sanno, a partire dall’inascoltato papa Francesco, che la guerra è iniziata nel 2014 su istigazione della NATO; la minaccia di una guerra nucleare è un bluff di Putin (anche se è chiaro che ove la Russia fosse sull’orlo di una disastrosa sconfitta militare da parte della NATO, ormai apertamente scesa in campo, non esiterebbe a ricorrere all’atomica, ecc.).
Che a correre allegramente verso il disastro – come quel coglione che nelle scene finali de Il dottor Stranamore, sventola il cappellone da cowboy mentre precipita verso il bersaglio cavalcando una bomba atomica – siano le élite neocons a stelle strisce non stupisce, visto che si tratta di soggetti infarciti di fede religiosa nella propria missione di “civilizzatori”, anche a costo di scatenare un Armageddon, al punto che nemmeno la prudenza dei generali del Pentagono o la saggezza di vecchie volpi come Henry Kissinger basta a farli ragionare. Stupisce invece l’insipienza di un movimento pacifista che, a differenza di quelli di qualche decennio fa, sembra del tutto inconsapevole dell’urgenza di fermare a qualsiasi costo e con ogni mezzo la corsa verso il baratro.
Mentre il fronte dei signori della guerra è compatto, e marcia accompagnato dalla banda dei media che intonano all’unisono “viva la muerte” (lo slogan delle soldataglie franchiste della Guerra civile spagnola), le voci dei pacifisti (o presunti tali) somigliano alla cacofonia dei protagonisti di uno spot pubblicitario che va per la maggiore di questi tempi: interrogati da una collega su dove intendano fare la pausa pranzo, si mettono a suonare strumenti diversi, finché un tocco di diapason mette tutti d’accordo, indirizzandoli verso una nota catena di fast food. Purtroppo l’opposizione alla guerra non dispone di quel diapason. C’è chi dice di volere la pace ma vota a favore dell’invio di armi all’Ucraina (l’allusione al PD non è puramente casuale); c’è chi invoca la fine dei combattimenti ma a condizione che la Russia ritorni sulle posizioni di partenza (che è come dire riconosca la sconfitta pur non avendola subita sul campo); c’è chi protesta contro l’invio di armi e riconosce che la responsabilità è anche della NATO e degli USA, ma ribadisce che l’aggressore è Putin (per non essere catalogato come putiniano); c’è chi parla di conflitto interimperialista anche se da decenni esiste un unico e solo impero, responsabile di tutte le guerre e di milioni di morti, ecc.
Chi indica senza se e senza ma la responsabilità di chi ha sostenuto il golpe di destra che nel 2014 ha rovesciato il legittimo governo ucraino; chi ricorda che la guerra iniziò allora con la sistematica persecuzione delle minoranze russofone del Donbass; chi non chiude gli occhi davanti alla natura neonazista del regime di Zelensky; chi chiede la cessazione immediata delle ostilità senza condizioni e l’avvio di negoziati di pace fa purtroppo parte di una minoranza che non riesce a trascinare in piazza centinaia di migliaia di persone, come avvenne ai tempi dell’aggressione americana all’Iraq e come oggi sarebbe ancora più necessario, se vogliamo evitare di finire tutti (o meglio quelli che sopravvivranno) a trascinarci sulla strada descritta da Cormac McCarthy. Eppure è necessario combattere rassegnazione e scoramento, non arrendersi al senso di impotenza. Nel film è il padre del bambino a svolgere il ruolo di irriducibile pungolo contro la disperazione, a inculcare nel figlio la capacità di continuare a di sperare anche quando i fatti sembrano negare ogni concreta possibilità di salvezza. Alla minoranza appena evocata spetta il compito di svolgere la stessa funzione, evitando di lasciarsi intruppare nella corsa suicida dei lemming per pura inerzia.
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