Emanuele Quarta
Avanti.it
Il Sudan è ormai sotto i riflettori della politica mondiale. Uno dei paesi più poveri al mondo, dilaniato da quasi un secolo di guerre civili – la prima iniziata nel 1955 e conclusasi nel 1972 e la seconda iniziata nel 1983 e conclusasi nel 1988 – combattute fra il governo centrale e gli indipendentisti del sud (che dopo un referendum tenutosi nel 2011 hanno costituito il nuovo stato del “Sud Sudan”), si ritrova di nuovo sull’orlo della catastrofe umanitaria. Il paese nel 2019 è stato protagonista di un colpo di stato militare che, a seguito di lunghi mesi di proteste popolari, ha posto fine al regime di Omar al-Bashir, al potere dal 1989, dando vita ad un periodo di transizione politica gestita da militari e civili tramite il Comitato Sovrano, l’organo appunto composto per metà da civili rappresentanti dei partiti politici e per metà da militari e che aveva il compito di preparare la transizione democratica entro la fine del 2022. Siamo ad aprile del 2023 e di questa svolta democratica, così tanto attesa ed agognata dal popolo sudanese, finora non ci sono tracce ma, come detto sopra, il paese sta scivolando verso l’ennesima guerra civile che causerà, senza ombra di dubbio alcuno, l’ennesima catastrofe umanitaria sul continente africano. Per capire il perché dell’instabilità del Sudan, bisogna innanzitutto conoscere i contendenti che si stanno sfidando in questi giorni; chi sono le potenze che eventualmente li sostengono e quali interessi queste potenze nutrono sul territorio sudanese, a cominciare dalle risorse minerarie come oro, terre rare, petrolio e minerali preziosi di ogni sorta. Non è facile e bisogna soprattutto districarsi fra le menzogne della propaganda – particolarmente attiva è quella occidentale – e scremare notizie a volte “eccessive” e a volte sensazionalistiche.
Partiamo dal principio, cioè dal 2018. A partire dall’ottobre di quell’anno, cominciarono numerose proteste che via via si trasformarono in manifestazioni e cortei di massa che chiedevano le dimissioni del presidente Omar al-Bashir, padre-padrone del Sudan dal 1989, accusato di corruzione e ruberie varie e di essersi arricchito sulle spalle della popolazione ormai messa alla fame. Dopo sei mesi di proteste, nell’aprile del 2019 l’esercito sudanese decise di deporre Bashir, di arrestarlo e porre fine al suo regime. Subito si instaurò il “Consiglio Militare Provvisorio” con il quale i militari avrebbero gestito la prima fase della transizione. A svolgere il ruolo di capo del Consiglio Provvisorio è il capo di stato maggiore dell’esercito, Abdel Fattah al-Burhan. Il suo vice, invece, è Mohamed Amdan Degalo, capo della milizia paramilitare della RSF (Rapid Support Force), una milizia paramilitare molto potente che si occupava sotto il regime di Bashir della gestione dell’ordine pubblico e fu anche utilizzata nella guerra del Darfur, un altro conflitto interno del Sudan che ha causato decine di migliaia di morti e più di 2 milioni di rifugiati fuggiti nei paesi confinanti.
La giunta militare raggiunse poi un accordo con le forze politiche, a seguito del quale venne creato il Comitato Sovrano, organo composto per metà da civili e per metà da militari, che avrebbe dovuto occuparsi della seconda fase della transizione fino alle prime elezioni libere da programmare entro il 2022. Ma già lo scorso anno cominciarono i primi “screzi” fra Burhan e Degalo. All’inizio del 2023 i due generali finalmente giungono ad un punto di incontro. Entro il 6 aprile avrebbero dovuto firmare l’accordo istituzionale con il quale si sarebbero stabilite la data delle elezioni, le nuove istituzione democratiche e la stesura della costituzione. Tuttavia, il 6 aprile non arriverà mai la firma, ma arriverà l’esplosione delle tensioni. Secondo molti analisti ed esperti della regione, l’accordo è saltato perché sia Burhan sia i partiti coinvolti nella transizione democratica, avevano chiesto la smobilitazione della RSF, considerata da tutti troppo potente e soprattutto troppo indipendente dal potere politico, oltre che compromessa col vecchio regime di Bashir. Degalo, capo della milizia, ovviamente ha rifiutato e da due settimane ha cominciato una guerra contro il suo rivale Burhan. I combattimenti sono iniziati la mattina del 15 aprile, quando sono scoppiati una serie di scontri armati nella capitale sudanese, Khartoum, e in altre città vicine. Esercito e Rsf si accusano a vicenda di aver provocato il conflitto. Il portavoce dell’Esercito, generale Nabil Abdullah, ha accusato le RSF di aver attaccato aree appartenenti alle Forze Armate, per le quali si sono sentite in dovere di rispondere. Ha precisato che ora considerano le RSF una “forza ribelle” contro lo Stato. “Stiamo combattendo una battaglia attesa da tempo”, ha dichiarato l’esercito, ribadendo il suo impegno per la transizione del Paese verso un governo civile. Allo stesso modo, secondo un comunicato di Rsf, le Forze Armate hanno sferrato un “brutale attacco” con armi pesanti contro il suo quartier generale, situato in alcuni accampamenti nel sobborgo di Soba, e poi lo hanno assediato, come si può vedere in vari video diffusi sulle reti social. Dalle forze paramilitari hanno annunciato di essersi difesi e di “aver risposto alle forze ostili”, provocando numerose vittime.
Fatta, dunque, la dovuta premessa politica per fotografare i due schieramenti, bisogna adesso comprendere quali potenze straniere sostengono Burhan e Degalo e il ruolo della Russia tirata in mezzo dai media occidentali e dalle cancellerie europee indispettite dalla perdita di potere nelle (mai state) ex colonie in Africa.
Burhan, presidente de facto del Sudan, è sicuramente sostenuto dall’Egitto di Al-Sisi. Il generalissimo egiziano, riconosce al collega sudanese un fondamentale ruolo per il contenimento delle ispirazioni espansioniste dell’Etiopia che, infatti, oltre ad aver sostenuto per decenni la guerriglia indipendentista del Sud Sudan, ad oggi sostiene diplomaticamente e militarmente – si parla di aerei da guerra ed artiglieria pesante fornita alle truppe di Degalo – la RSF. E qui entra in gioco la prima risorsa fondamentale, mai citata: l’acqua. L’Etiopia sta costruendo la più grande diga sul Nilo – più grande persino della diga di Assuan in Egitto – chiamata “Diga del Millennio”. Un progetto ambiziosissimo i cui lavori sono iniziati nel 2011 e che dovrebbero concludersi nei prossimi due anni. La diga rappresenta un problema per l’Egitto – che infatti ha cercato in tutti i modi di fermarne la costruzione – poiché quando inizieranno le procedure di riempimento dell’invaso (che dovrebbero durare tra i 4 e i 10 anni), vedrà ridurre la portata d’acqua del Nilo al quale sono legati i destini idrici del Sudan e dell’Egitto, con gravi danni che potrebbero abbattersi sull’agricoltura dei due paesi – soprattutto sul Sudan che si basa su una agricoltura di sussistenza – ed enormi problemi di produzione di elettricità per l’Egitto che tramite la diga di Assuan produce circa il 12% del suo fabbisogno elettrico. Negli ultimi due anni, nonostante i tentativi di accordo mediati dall’Onu sulle procedure di riempimento della nuova diga, Egitto e Sudan – anche se l’ex presidente Bashir si era mostrato favorevole – hanno opposto resistenza. Non si sa se è soltanto per questo motivo o per altri, ma è certo che l’Etiopia sostiene senza risparmiarsi Degalo e la RSF. Ma il generale Degalo non è sostenuto soltanto dall’Eitopia. Infatti, il leader “ribelle” gode del sostegno politico, economico e militare del generale Haftar, signore della guerra libico e padrone indiscusso e indiscutibile della Cirenaica. Questa sua vicinanza ad Haftar ha concesso a Degalo la possibilità di gestire i confini sudanesi in virtù di un controllo dei flussi immigratorio. Ma dietro le formalità dei ruoli, si nasconde una realtà ben peggiore: Degalo, insieme ad Haftar e alle milizie libiche, sarebbe uno dei responsabili del traffico di carne umana che, una volta giunta in Libia, si riversa – o viene riversata – in mare verso i porti europei. L’accusa viene direttamente dai media russi, in particolare da un editoriale di Russia Today in lingua spagnola. Una accusa pesante che dovrebbe sgomberare il campo dall’ipotesi dai toni accusatori fatta dagli analisti occidentali che vogliono la Wagner e la Russia dietro la RSF. Ma perché questa ossessione per la Russia da parte occidentale?
La Russia nel febbraio del 2022 non ha lanciato soltanto un attacco alla Nato in terra ucraina, ma ha dato vita ad una generale offensiva politica, economica, commerciale e diplomatica contro l’imperialismo occidentale, in particolar modo in Sud America e in Africa. Il 2022 è stato l’anno in cui paesi da sempre sotto il giogo francese – il Mali, il Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana e il Ciad – si sono liberati delle catene francesi e, grazie anche all’appoggio strategico-militare della Wagner, sono riusciti a difendersi dai tipici golpe militari pro-Francia e hanno instaurato governi democratici e ottime relazioni con la Russia. E il Sudan non fa eccezione. A dirlo non siamo noi, ma le cancellerie occidentali, in particolar modo USA, Regno Unito e la (insignificante) Norvegia. Mentre il mondo era concentrato sui (nuovi) fatti bellici in Ucraina, il 16 marzo 2022, le ambasciate in Sudan di Norvegia, Stati Uniti e Regno Unito – definite a tal proposito la Troika – lanciarono un allarme: la Russia sta diventando sempre più forte in Sudan grazie ai legami di Wagner con i due generali, Burhan e Degalo. In effetti, Wagner aveva fornito dal 2018 supporto tecnico e logistico alle truppe di Degalo in cambio dello sfruttamento, almeno secondo quanto riferito dagli analisti occidentali, dello sfruttamento delle miniere d’oro sudanesi; lo stesso Degalo aveva più volte incontrato Lavrov dal 2019 in poi. Ma già alla fine del 2021, Burhan intensificò il dialogo e la cooperazione con Mosca (ricevendo anche un prestito dalla banca centrale russa per degli investimenti sulle miniere d’oro), fino a giungere ad un accordo con il governo russo per la costruzione di una base navale russa sulla costa sudanese che si affaccia sul Mar Rosso. Ora, tenuto conto di queste notizie e di altri indizi, come ad esempio l’attacco subito dalle truppe della RSF che stavano scortando cittadini e diplomatici francesi in fuga dal paese (francesi, non russi), tutto dovrebbe farci pensare ed intuire che gli equilibri e le alleanze, almeno per quanto riguarda la Russia, sono cambiati. Ma non solo. Degalo, ha già fatto appello alla “comunità internazionale” per sostenerlo nella sua lotta contro Burhan, accusato di essere un dittatore, un sostenitore del terrorismo islamico e di colpire i civili con bombardamenti aerei (accuse già sentite e risentite con Gheddafi e Assad). Tuttavia, al momento non vi sono certezze. L’unica certezza che possiamo avere è che la destabilizzazione del Sudan comporterà in automatico la destabilizzazione di tutta l’area, coinvolgendo Ciad e Repubblica Centrafricana – guarda caso due nuovi alleati dei russi – che già stanno assistendo all’arrivo di circa 30 mila profughi. Una destabilizzazione che sicuramente non farà gli interessi di Mosca, ma sembra più la tattica della terra bruciata di un esercito in ritirata – in questo caso di francesi, inglesi e in generale le forze imperialiste occidentali – che lasciando un determinato territorio in mano al nemico, decidono di devastare tutto per impedire al nemico che avanza di acquisire un vantaggio. È la tattica del caos, che il mondo ha già sperimentato in Medio Oriente e che ha sempre avuto la stessa matrice.
Al di là di questi discorsi, che al momento hanno soltanto la consistenza di mere speculazioni (in senso positivo, accademico del termine), una verità è assodata: il mondo è in fiamme più che mai; lo scontro fra i due blocchi, che cercano di assestarsi su posizioni di vantaggio reciproco, continua senza esclusione di colpi e, per il momento, l’imperialismo occidentale sembra soccombere sotto i colpi del nascente imperialismo sino-russo o dell’imperialismo dei Brics (a qualcuno verrà il mal di pancia, ma la scienza leninista sulla natura imperialista dello scontro fra potenze capitaliste classiche e potenze emergenti è valida ed inossidabile) che vede sempre più impegnata in Africa anche la Cina che, ormai, fa da padrona nella gestione ed il controllo di risorse minerarie fondamentali, come il cobalto estratto in Congo o in altri paesi, oltre alla presenza militare cinese nella base navale in Gibuti.
Adesso bisogna soltanto capire se americani ed europei accetteranno di arretrare inesorabilmente o passeranno alla controffensiva. In attesa di ciò, l’Africa continua a grondare sangue per i giochi delle superpotenze.
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